LA PROVA DEL DANNO PATRIMONIALE

Gianluca Rozza

 

Per fornire la prova del danno patrimoniale ai sensi dell'art. 2043 c.c. è necessario individuare: una condotta dolosa o colposa, un evento dannoso e l'esistenza di un nesso causale che li unisca.
L'elemento soggettivo individua e distingue la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2043 c.c. da un risarcimento che trae fondamento da un inadempimento contrattuale.
Per quanto riguarda la disciplina dettata dall'art. 1223 c.c., la condotta deve essere quantomeno colposa per assurgere a presupposto necessario per il riconoscimento della risarcibilità del danno.
Il risarcimento del danno patrimoniale richiede che il soggetto che asserisce di aver subito un danno ne fornisca la prova sia in relazione all'an sia in relazione al quantum.
L'ordinamento giuridico fornisce al danneggiato la possibilità di avvalersi non soltanto degli ordinari mezzi di prova ma anche delle presunzioni semplici previste dal codice civile (art. 2727 e 2729 c.c.).
Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza 8.11.2007, n. 23304, stabilendo che: "Occorre [...] che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chance, in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece – anche semplicemente in considerazione dell'id quod plerumque accidit – connesso all'illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità".
In relazione alla tipologia del pregiudizio economico sarà possibile regolare in maniera diversificata l'onere probatorio.
In tema di lucro cessante la Suprema Corte ha più volte affrontato la questione relativa alla prova della ridotta capacità reddituale, individuando sul danneggiato l'onere di dimostrare che il danno in esame ha comportato un'effettiva incidenza sulle proprie possibilità di guadagno futuro (Cass. 18.9.2007, n. 19357).
Il danno patrimoniale da invalidità deve essere accertato in concreto in relazione all'attività svolta dal soggetto leso.
Nel caso in cui il danneggiato non sia in grado di dimostrare la concreta incidenza del danno sulle sue possibilità di guadagno futuro, nonché di delineare l'entità del pregiudizio economico conseguentemente sofferto, il danno non è risarcibile (Cass. 15.7.2011, n. 15674).

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha stabilito che se è certa la riduzione della capacità lavorativa specifica del danneggiato questa può essere provata anche attraverso le presunzioni legali.
La Suprema Corte, con sentenza 23.10.2005, n. 19981, ha stabilito che: "La determinazione di questa voce di danno, dunque, importa necessariamente un apprezzamento equitativo connotato da più giudizi di probabilità. Il danneggiato, comunque, dovrà provare in giudizio l'effettiva incidenza della lesione dell'integrità psicofisica sul reddito. Tale incidenza, dovrà essere valutata in relazione alle peculiari circostanze del caso concreto, poiché si ritiene che un determinato coefficiente di riduzione della capacità lavorativa non importi senz'altro una proporzionale riduzione aritmetica del reddito, concretamente accertato, della persona offesa, dovendo tale riduzione essere stabilita dal giudice con riguardo alla natura dell'inabilità ed alla specie di attività esercitata".
In relazione alla risarcibilità della ridotta capacità lavorativa della casalinga si è reso necessario fondare ogni considerazione sul dettato costituzionale.
Il richiamo agli artt. 4 e 37 Cost., posti dall'ordinamento a tutela della libera scelta di una professione lavorativa e dei diritti delle donne lavoratrici, ha permesso di riconoscere la risarcibilità del danno patrimoniale laddove la condotta lesiva abbia compromesso la capacità della danneggiata di esercitare l'attività di casalinga (Cass. 19.3.2009, n. 6658).
Con riguardo al danno emergente ed al lucro cessante merita di essere menzionata la sentenza della Corte di Cassazione 3.2.2005 , n. 4657, che ha posto in rilevo come, finora, il lavoro c.d. domestico sia stato considerato principalmente con riferimento all'utilità che ne ricavano soggetti terzi (quali i familiari) piuttosto che sotto l'aspetto dell'utilità che ne ricava direttamente il danneggiato.
Con la sentenza n. 4657/2005 della Corte di Cassazione emerge che l'insorgere di un danno patrimoniale a seguito delle diminuite capacità di provvedere personalmente alla cura della casa e dei propri effetti non è configurabile in linea generale se il soggetto danneggiato non svolgeva lavori domestici già prima dell'incidente.
Invece, va rilevata l'eccezionale configurabilità del danno patrimoniale nell'ipotesi che la persona danneggiata riesca a dimostrare che all'epoca del sinistro, per un cambiamento delle proprie condizioni economiche o per altre ragioni, era in procinto di mutare le proprie abitudini nel senso che stava per iniziare a provvedere personalmente, in tutto o in parte, a lavori prima demandati a colf.
Fatte salve le eccezioni di cui all'art. 230 bis c.c., emerge che un danno patrimoniale del danneggiato è possibile solo in relazione ai lavori domestici svolti in suo favore, mentre con riferimento ai lavori svolti gratuitamente in favore di altri, gli eventuali soggetti danneggiati possono essere eventualmente solo questi ultimi.
Dalle parole della sentenza della Suprema Corte emerge il principio di diritto secondo cui in tema di invalidità permanente o temporanea la persona che perda in tutto od in parte la propria capacità di svolgere lavori domestici in precedenza effettivamente svolti in proprio favore ha diritto al risarcimento del conseguente danno patrimoniale provato (danno emergente ed, eventualmente, anche lucro cessante).