La
legge 18 giugno 2009, n. 69, recante disposizioni per lo
sviluppo economico, la semplificazione e la
competitività, contiene anche norme in materia di
processo civile, tra le quali quelle, dettate dall’art.
51, che - introducendo nel codice di procedura gli
articoli 702-bis, 702-ter e 702-quater - istituiscono e
disciplinano il nuovo «procedimento sommario di
cognizione».
Si
tratta di un importante ed innovativo strumento, di cui
si possono cogliere le caratteristiche essenziali dando
risposta alle principali domande sul funzionamento del
nuovo modello di rito civile, soprattutto per ciò che
riguarda i rapporti con il rito ordinario.
1)
A quali controversie si applica il nuovo procedimento?
A
tutte le controversie per le quali ricorrano i seguenti
quattro presupposti:
-
che la causa debba essere giudicata dal tribunale in
composizione monocratica (l’art. 50-bis cod. proc.
civ. elenca infatti in modo tassativo le cause nelle
quali il tribunale giudica in composizione
collegiale);
-
che l’attore scelga di ricorrere al rito sommario e
non al rito ordinario;
-
che le difese svolte dalle parti non richiedano ad
avviso del giudice un’istruzione non sommaria;
-
che non si tratti di controversie di competenza del
giudice di pace e quelle assoggettate ad altro rito
speciale, quali le controversie individuali di
lavoro, le controversie in materia locatizia, le
opposizioni alle sanzioni amministrative, i
procedimenti in materia di famiglia e di stato delle
persone;
Da
ciò ben si evince che scegliere tra il nuovo
procedimento ed il rito ordinario è prerogativa
dell’attore, rispetto alla quale la volontà del
convenuto è del tutto irrilevante. Costui - qualora
valuti opportuno celebrare il processo nelle forme del
rito ordinario - potrà soltanto esercitare i suoi poteri
persuasivi nei confronti del magistrato, che, in ultima
analisi, ha l’ultima parola sulla scelta tra l’uno e
l’altro tipo di procedimento.
2)
Come avviene il passaggio dal rito sommario al rito
ordinario?
Se
la controversia richiede la composizione collegiale del
tribunale, il giudice erroneamente adito con il rito
sommario dichiara la domanda inammissibile con ordinanza
non impugnabile.
Se
invece il giudice valuta opportuno disporre il passaggio
di rito nel corso del giudizio regolarmente incardinato,
sulla base degli argomenti forniti dalle parti o delle
risultanze istruttorie raccolte, fissa con ordinanza non
impugnabile l’udienza di prima comparizione delle parti
ex art. 183 cod. proc. civ., determinando il passaggio
al rito ordinario. Si tratta di ordinanze che possono
essere pronunciate anche fuori udienza, dunque prima che
venga fissata la prima udienza o prima che essa venga
tenuta, una volta che il giudice abbia disaminato l’atto
introduttivo del procedimento o la comparsa di risposta
del convenuto. Ovviamente se pronunciate fuori udienza
dovranno essere comunicate dal cancelliere alle parti
costituite.
3)
L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità può essere
oggetto di contestazione?
L’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità non è
suscettibile di controllo, dal momento che non
costituisce una pronuncia di accertamento negativo,
bensì una pronuncia allo stato degli atti, che non
assume efficacia di cosa giudicata e non ha, dunque, la
natura decisoria: rispetto ad essa non è quindi
ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art.
111 Cost.
4)
Dopo l’ordinanza di inammissibilità si può riproporre la
stessa domanda con il rito sommario?
La
dichiarazione di inammissibilità della domanda non
equivale ad una pronuncia di rigetto nel merito e quindi
non impedisce la riproposizione della stessa domanda né
con il rito ordinario, né con il rito sommario.
5)
In quale momento il giudice può stabilire che occorre
dirimere la controversia con il rito ordinario e quindi
procedere al mutamento di rito?
Qualora il giudice rilevi l’esigenza di un’istruzione
non sommaria fin dalla disamina del ricorso
introduttivo, non dovrà emettere il decreto di
fissazione dell’udienza di comparizione bensì
pronunciare «inaudita altera parte» l’ordinanza di
fissazione dell’udienza di cui all’art. 183, imponendo
all’attore di notificare al convenuto il ricorso
unitamente all’ordinanza non impugnabile e di integrare
eventualmente il contraddittorio. Se invece l’esigenza
di assoggettare la controversia al rito ordinario emerge
in un momento successivo, quindi nel corso del
procedimento sommario, il giudice potrà sempre decidere
il passaggio al rito ordinario, rimettendo le parti
all’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ.,
consentendo loro di svolgervi tutte quelle attività
impedite fino a quel momento dall’assoggettamento al
rito sommario.
6)
Su quali elementi il giudice deve fondare la decisione
di proseguire la causa con il rito sommario ovvero di
passare al rito ordinario?
Non pare che possano assumere rilevanza né il «periculum
in mora», cioè l’esigenza di concentrare il confronto
processuale per evitare che il tempo occorrente per la
decisione con il rito ordinario possa pregiudicare i
diritti fatti valere nel processo, né il «fumus boni
iuris», vale a dire la preventiva valutazione della
certezza del fondamento giuridico della domanda; questi
elementi avrebbero semmai potuto orientare l’attore
verso la scelta di un procedimento d’urgenza, da lui
invece scartato, rinunciando così a dedurre nel giudizio
la sussistenza dell’uno o dell’altro, se non di
entrambi.
Il
tenore letterale della norma porta a concludere che la
sommarietà o l’ordinarietà del rito è rimessa in primo
luogo all’arbitrio dell’attore, cui viene riservata al
scelta dell’«arma del duello»; si accontenterà, in caso
di scelta del procedimento sommario, di un’istruzione
deformalizzata ed atipica, che attribuisce senza dubbio
un potere inquisitorio al giudice e potrebbe risolversi
in una maggiore difficoltà nel soddisfare l’onere
probatorio che incombe su chi intende far valere
giudizialmente i propri diritti. Fatta questa scelta,
che rende centrale nella fase istruttoria il ruolo
propulsivo del giudice, l’attore si rimette alle
decisioni di quest’ultimo anche per quanto concerne la
conferma della scelta, poiché il giudice può sempre
decidere di cambiare l’arma del duello, passando al rito
ordinario allorché, a suo insindacabile giudizio,
ritenga che le prospettazioni delle parti richiedano
un’istruzione non sommaria della causa.
L’inoppugnabilità del provvedimento con cui queste sono
rimesse all’udienza di cui all’art. 183 rende,
d’altronde, superflua l’indagine intorno agli elementi
sui quali il giudice abbia fondato la sua decisione di
inadeguatezza del rito sommario di cognizione,
evidenziando l’ampiezza dei poteri attribuitigli dalla
scelta del procedimento speciale effettuata dall’attore.
7)
Al rito sommario sono applicabili le disposizioni
generali sul processo civile?
Anche al procedimento sommario di cognizione sono
applicabili le disposizioni processuali civili generali,
a condizione che siano compatibili con le disposizioni
del rito speciale e con le sue caratteristiche
strutturali.
8)
Quali regole del rito ordinario sono incompatibili con
il procedimento sommario?
Certamente sono da ritenere incompatibili con il
processo sommario di cognizione tutte le norme del
codice di procedura civile che confliggono con i
princìpi di immediatezza, di concentrazione e di
innominatività dei poteri istruttori del giudice, propri
della sommarietà di questo procedimento speciale, che è
evidentemente preordinato a soddisfare l’esigenza della
sollecita definizione delle controversie.
9)
Quale dev’essere il contenuto minimo necessario del
ricorso introduttivo del rito sommario?
Il
ricorso deve contenere, secondo l’espresso richiamo al
terzo comma dell’art. 163 del codice di rito:
l’indicazione del tribunale davanti al quale la
domanda è proposta;
il nome, il cognome e la residenza dell’attore,
nonché il nome, il cognome, la residenza o il domicilio
o la dimora del convenuto e delle persone che
rispettivamente li rappresentano o li assistono; se
attore o convenuto è una persona giuridica,
un’associazione non riconosciuta o un comitato, la
denominazione o la ditta, con l’indicazione dell’organo
o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio;
la determinazione della cosa oggetto della domanda;
l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto
costituenti le ragioni della domanda, con le relative
conclusioni;
l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali
l’attore intende valersi e, in particolare, dei
documenti che offre in comunicazione;
il nome e il cognome del procuratore e l’indicazione
della procura;
l’avvertimento che la costituzione oltre i termini
di legge implica la decadenza dalle eccezioni di
incompetenza nonché dalle eventuali domande
riconvenzionali e dalle eccezioni processuali e di
merito che non siano rilevabili d’ufficio.
10) Cosa succede se manca uno di tali elementi
essenziali?
La
verifica degli elementi essenziali del ricorso
introduttivo costituisce questione preliminare rispetto
alla decisione sul merito; in caso di mancanza di alcuno
di essi il giudice deve dichiararne la nullità, senza
passare all’esame del merito. Il ricorso, integrato
degli elementi mancanti, potrà tuttavia essere
riproposto.
11) Il ricorso è nullo se manca l’indicazione del
giudice adito?
No, poiché la procedura di proposizione della domanda,
che si realizza attraverso il deposito dell’atto in
cancelleria e nell’emanazione del decreto di fissazione
dell’udienza di comparizione da parte del giudice in
concreto adito, esclude che il convenuto, cui ricorso e
decreto sono notificati, possa nutrire incertezza circa
il giudice davanti al quale deve comparire.
12) A quali condizioni il ricorso può essere dichiarato
nullo per indeterminatezza della domanda?
Per aversi nullità del ricorso occorre non solo che
l’oggetto della domanda - il «petitum» - sia del tutto
omesso, o assolutamente incerto, ma pure che non sia
possibile determinarlo attraverso l’esame dell’atto
introduttivo del giudizio, che va interpretato sempre
nel suo complesso, al fine di verificare la presenza di
tutti gli elementi della domanda che siano prescritti a
pena di nullità.
Il
principio della libertà di forma degli atti di parte nel
processo civile, infatti, non consente di tenere
distinte, ai fini della concreta individuazione delle
richieste sottoposte al giudice, le diverse parti degli
scritti difensivi; ne impone, anzi, l’esame complessivo,
ben potendo essere contenute nella parte espositiva
richieste conclusive ovvero argomentazioni difensive tra
le conclusioni, sempreché la forma espositiva e
letterale adottata non sia tale da rendere del tutto
equivoca l’interpretazione degli scritti.
13) Si può modificare la domanda nel corso del rito
sommario?
L’esigenza di determinare l’oggetto della domanda fin
dall’atto introduttivo del giudizio assume un rilievo
particolare nel procedimento sommario di cognizione,
rispetto al processo ordinario, in cui l’art. 183 cod.
proc. civ. consente alle parti di chiedere al giudice la
fissazione di un termine per il deposito di memorie
contenenti anche modificazioni delle domande e delle
conclusioni già proposte negli atti introduttivi,
seppure con forti limitazioni di ammissibilità. Nel rito
sommario, invece, la proposizione di domande nuove nel
corso del giudizio di primo grado vanificherebbe le
esigenze di celerità del procedimento, le quali
impongono che l’oggetto del contendere sia fissato già
negli atti introduttivi, anche se la decadenza è
comminata espressamente dal quarto comma dell’art.
702-bis soltanto per le domande riconvenzionali e per le
eccezioni processuali e di merito proposte dal
convenuto.
Al
contrario però di quanto previsto, ad esempio, nel rito
speciale del lavoro, in cui si ritiene che tali esigenze
travalichino quelle di tutela dell’interesse
eventualmente contrario delle parti, con la conseguenza
che la tardività della nuova domanda non può essere
sanata neppure dall’accettazione del contraddittorio ad
opera della controparte, nel procedimento sommario di
cognizione questa evenienza, così come più in genere
l’opportunità ritenuta dal giudice di consentire
modificazioni della domanda, determinerebbe non già
l’immodificabilità della domanda bensì, qualora non si
tratti di una semplice riduzione della domanda iniziale,
l’esigenza di passaggio al rito ordinario, poiché
nell’art. 702-bis non è ripetuta la norma dettata dal
primo comma dell’art. 420 cod. proc. civ., secondo cui
la modificazione della domanda originaria è subordinata
al ricorrere di gravi motivi ed alla correlativa
autorizzazione del giudice.
14) Quali sono le conseguenze della mancata indicazione
dei mezzi di prova?
La
mancata specifica indicazione dei mezzi di prova non
comporta la nullità del ricorso (e, quindi, una
decisione a contenuto esclusivamente processuale, che
non impedirebbe la riproposizione della domanda in un
altro procedimento) né la decadenza dalla possibilità di
successiva deduzione delle prove nel corso del processo.
Siffatta conseguenza sarebbe stata, per il ricorrente,
ben più gravosa della nullità, poiché avrebbe potuto
determinare il rigetto della domanda nel merito, con
conseguente impossibilità di riproporre il ricorso senza
violare il principio del «ne bis in idem».
L’indicazione dei mezzi di prova di cui l’attore intende
avvalersi non costituisce un requisito di validità del
ricorso, ma integra soltanto un onere della parte,
finalizzato all’accoglimento della domanda, il cui
mancato assolvimento può pregiudicare il ricorrente ai
sensi dell’art. 2697 cod. civ., peraltro solo nelle
ipotesi in cui i fatti integranti la ragione da lui
fatta valere non siano stati ammessi o siano stati
contestati dal convenuto ovvero non abbiano trovato
dimostrazione sulla base di altre prove regolarmente
acquisite, o perché dedotte dallo stesso convenuto, o
perché ammesse successivamente d’ufficio o su istanza di
parte oppure perché ricavabili dal comportamento
processuale delle parti.
15) Cosa succede se nel ricorso non sono indicati i
nominativi dei testimoni?
Con specifico riguardo al rito speciale del lavoro si è
a lungo coltivato un contrasto giurisprudenziale circa
le conseguenze della mancata indicazione dei nominativi
dei testimoni nel ricorso introduttivo, finché sono
intervenute le Sezioni Unite della Cassazione a
stabilire che la parte a ciò inottemperante non decade
dall’istanza istruttoria, giacché l’omissione
costituisce una mera irregolarità, rispetto alla quale
il giudice deve indicare alla parte istante la
riscontrata irregolarità, che allo stato non consente
l’ammissione della prova, assegnandole un termine per
porvi rimedio, col corollario della decadenza nella sola
ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo
termine perentorio. Se tale soluzione si addice
perfettamente al processo del lavoro, a maggior ragione
deve essere invocata nel procedimento sommario di
cognizione, dal momento che la formulazione del quinto
comma dell’art. 702-ter cod. proc. civ., che consente al
giudice di «procedere nel modo che ritiene più opportuno
agli atti di istruzione rilevanti in relazione
all’oggetto del provvedimento richiesto», è ben più
ampia di quella del primo comma dell’art. 421, che
dispone che il giudice indichi alle parti in ogni
momento le irregolarità degli atti che possono essere
sanate, assegnando loro un termine per provvedervi.
16) Si possono produrre documenti successivamente al
deposito degli atti introduttivi?
Sempre nel rito del lavoro, i documenti, quali prove
precostituite, possono essere prodotti, specie se la
produzione sia giustificata dallo sviluppo del processo,
fino all’udienza di discussione ed anche in appello,
senza incorrere in preclusioni, applicabili alle sole
prove costituende. Tale principio interpretativo, che ha
non poco contribuito a vanificare la celerità del
processo del lavoro e la concentrazione in esso delle
attività processuali, è tuttavia ormai del tutto
consolidato e incontrastato, almeno nella giurisprudenza
di legittimità, e pare destinato ad incontrare fortuna
ancora maggiore nel procedimento sommario di cognizione,
proprio per l’ampiezza dei poteri officiosi attribuiti
nel primo grado al giudice, che supera quella, già
rilevante, conferita al giudice del lavoro.
17) Quando devono essere formulate le conclusioni?
Ogni udienza, compresa la prima, può essere destinata,
oltreché all’assunzione delle prove, all’immediata
pronuncia dell’ordinanza di accoglimento o di rigetto
delle domande.
Non è prevista, al contrario di quanto dispone l’art.
189 cod. proc. civ., un’udienza di precisazione delle
conclusioni, per tali intendendosi la sintesi delle
domande formulate dalla parte nel processo, costituendo
conseguenze logiche delle circostanze di fatto e degli
elementi di diritto posti a fondamento delle domande
stesse. Le conclusioni quindi, salvo modifiche
autorizzate dal giudice nell’esercizio dei poteri
officiosi, restano per l’attore quelle di cui al ricorso
e per il convenuto quelle di cui alla comparsa di
risposta.
18) Come avviene il deposito del ricorso?
Il
ricorso va presentato nella cancelleria del giudice
competente; il deposito deve includere i documenti
indicati nell’atto, giacché l’attore, al momento del
deposito, deve consegnare al cancelliere il proprio
fascicolo, il quale verrà custodito in unica cartella
con il fascicolo d’ufficio, che lo stesso cancelliere
forma per inserirvi copia del ricorso, delle comparse e
note, nonché i processi verbali d’udienza, i
provvedimenti del giudice e gli atti di istruzione.
19) Da quale momento si verifica l’effetto interruttivo
della prescrizione?
L’effetto interruttivo della prescrizione, come negli
altri procedimenti introdotti con ricorso, non si
produce con il deposito dell’atto introduttivo, ma con
la sua notificazione al convenuto; l’effetto
interruttivo, infatti, si realizza quando il debitore ha
conoscenza legale (non necessariamente effettiva)
dell’atto giudiziale o stragiudiziale proveniente dal
creditore.
20) Come avviene la notifica del ricorso al convenuto?
Il
ricorso, unitamente al decreto di fissazione
dell’udienza di comparizione, deve essere notificato al
convenuto, a cura dell’attore. La notificazione del
ricorso va effettuata almeno trenta giorni prima della
data fissata per la costituzione del destinatario, che
deve avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza:
dunque, almeno quaranta giorni prima della data fissata
per l’udienza di comparizione. Il termine concesso per
la notificazione non muta neppure nell’ipotesi in cui
questa debba effettuarsi all’estero.
L’inosservanza del termine di notificazione del ricorso
non costituisce vizio dell’atto introduttivo, tale da
comportare la sua nullità in caso di contumacia del
convenuto, bensì vizio limitato all’atto di evocazione
in giudizio che, nel procedimento sommario di
cognizione, è autonomo rispetto all’atto introduttivo,
essendo la domanda compiutamente proposta con il
deposito del ricorso. L’inosservanza del termine di
comparizione trova, quindi, adeguato rimedio nella
rinnovazione della notificazione per altra udienza; la
nullità in questione, peraltro, è sanata dalla
costituzione in giudizio del convenuto.
21) Quando e come deve costituirsi in giudizio il
convenuto?
Il
convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima
dell’udienza di comparizione, mediante deposito in
cancelleria della comparsa di risposta: non va computato
il giorno iniziale ma soltanto quello finale; sicché va
computato il giorno dell’udienza e individuato, come
l’ultimo utile per il compimento dell’atto, il decimo
giorno precedente l’udienza stessa.
La
costituzione del convenuto oltre il decimo giorno
anteriore all’udienza di comparizione non è nulla né
inammissibile. Deve essere considerata come costituzione
tardiva del contumace e comporta che il convenuto, ferma
la decadenza sancita dallo stesso art. 702-bis per le
eccezioni processuali e di merito non rilevabili
d’ufficio e per la proposizione delle eventuali domande
riconvenzionali, deve accettare il processo nello stato
in cui si trova. La costituzione tardiva non impedisce,
quindi, al convenuto di porre a base delle proprie
difese di merito gli elementi probatori già acquisiti al
processo, anche se relativi a fatti di cui gli incombe
la prova, e conseguentemente al giudice di fondare la
decisione sugli stessi elementi.
22) Il convenuto costituitosi tardivamente può indicare
mezzi di prova?
Non essendo comminata alcuna decadenza, come ad esempio
è disposto dall’ultimo comma dell’art. 416 cod. proc.
civ. nel processo del lavoro per l’ipotesi di
costituzione tardiva del convenuto, la soluzione va
ricercata nella disposizione dettata dal primo comma
dell’art. 167 del codice di rito, sostanzialmente
identica a quella posta dal quarto comma dell’art.
702-bis: dunque, ampia possibilità per il giudice di
ammettere mezzi di prova non indicati nella comparsa di
risposta.
Per ciò che concerne le prove documentali, va data
applicazione all’art. 293 cod. proc. civ., secondo cui
la parte che si costituisce tardivamente può
disconoscere, nella prima udienza o nel termine
assegnatogli dal giudice, le scritture prodotte contro
di lei.
23) Che succede se il convenuto, nelle sue difese, non
assolve all’onere di contestazione?
Nel rito ordinario l’onere di contestazione posto a
carico del convenuto, che si costituisce depositando la
comparsa di risposta, risulta rafforzato dall’onere,
impostogli dall’art. 167 cod. proc. civ., di prendere
posizione nella comparsa sui fatti costituenti il
fondamento della domanda dell’attore, con la conseguenza
che gli stessi, qualora non siano contestati dal
convenuto, debbono essere considerati incontroversi e
non richiedenti una specifica dimostrazione. Non
diversamente si deve argomentare nel procedimento
sommario di cognizione
L’inadempimento, da parte del convenuto, dell’onere di
prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad
una generica contestazione, circa i fatti affermati
dall’attore a fondamento della domanda, non è sanzionato
da decadenza (come è, invece, per l’onere di
proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e
delle domande riconvenzionali) e, pertanto, non preclude
al convenuto la successiva contestazione dei fatti
costitutivi della domanda, anche in grado d’appello, né
al giudice il potere-dovere di accertarne la
dimostrazione, ricavando eventuali argomenti di prova
anche dal comportamento del convenuto. La contestazione
generica, invece, pur non implicando ammissione della
loro sussistenza, costituisce una violazione
dell’obbligo di lealtà processuale. Resta il fatto che
la mancata contestazione del convenuto non può essere
equiparata in nessun caso ad una confessione giudiziale
della fondatezza delle deduzioni dell’attore; può,
tuttavia, assumere rilevanza, ai fini della prova dei
fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio
dal ricorrente, nei soli limiti in cui le allegazioni di
quest’ultimo siano specifiche e fornite di riferimenti
concreti. Il codificatore ha voluto senz’altro
scoraggiare la scelta del silenzio quale linea difensiva
premiante per il convenuto, ma non fino ad imporgli
l’onere di dedurre altri fatti che si oppongano a quelli
costitutivi della domanda o, comunque, di formalizzare
un’articolata e analitica contestazione rispetto ad ogni
singola e particolare circostanza dei fatti addotti
dalla controparte. I fatti possono quindi essere
considerati «pacifici» solo quando la controparte abbia
impostato la propria difesa su argomenti logicamente
incompatibili con il loro disconoscimento, oppure si sia
limitata a contestare esplicitamente e specificamente
alcuni soltanto di quei fatti, evidenziando così il
proprio disinteresse ad un accertamento degli altri.
L’inottemperanza del convenuto all’onere di
contestazione può tuttavia, secondo le circostanze,
costituire elemento integrativo del convincimento del
giudice che, in applicazione dell’art. 116, secondo
comma, cod. proc. civ., ben potrà desumere da tale
comportamento argomenti di prova, in quanto la
disposizione consente di desumere argomenti di prova,
oltre che dalle risposte delle parti liberamente
interrogate e dal loro rifiuto ingiustificato a
consentire le ispezioni, anche dal contegno delle stesse
nel processo.
24) Quando va formulata l’eccezione di prescrizione?
Trattandosi di eccezione in senso proprio, è soggetta
all’onere della tempestiva deduzione nella comparsa di
risposta; essa deve essere sollevata dal convenuto
inequivocamente, senza necessità di formule sacramentali
e senza riferimento a precisi dati normativi, essendo
sufficiente che dalla comparsa risulti la volontà della
parte di avvalersene. Quando il convenuto, nell’eccepire
la prescrizione del diritto vantato dall’attore, non
indichi a quale tipo di prescrizione intende riferirsi,
l’eccezione deve presumersi proposta con riguardo al
termine decennale, salvo che nell’ulteriore corso del
giudizio, eventualmente anche in grado d’appello, la
parte non la precisi con riferimento ad altra, più
breve, prescrizione, così facendo venire meno il
presupposto della presunzione.
25) Entro quale termine vanno proposte eventuali domande
riconvenzionali?
Il
convenuto deve proporre le eventuali domande
riconvenzionali, a pena di decadenza, nella comparsa di
risposta con il deposito della quale si costituisce in
giudizio.
Il
novellatore ha scartato la soluzione della rifissazione
dell’udienza di comparizione, che avrebbe consentito
all’attore di prendere posizione in modo meditato sulle
pretese della controparte, come invece avviene ad
esempio nel processo del lavoro, in cui il convenuto che
abbia proposto una domanda in via riconvenzionale deve,
con istanza contenuta nella stessa memoria di
costituzione e a pena di decadenza dalla stessa
riconvenzionale, chiedere al giudice che, a modifica del
decreto di fissazione dell’udienza, ne pronunci un
nuovo. Una soluzione analoga è disposta dal quinto comma
dell’art. 702-bis per il solo caso della chiamata in
causa di un terzo.
La
scelta appare coerente con il potere attribuito al
giudice dal quarto comma del successivo art. 702-ter,
diversamente da quanto è nel rito del lavoro, di
disporre la separazione della causa relativa alla
domanda riconvenzionale che richieda a suo avviso
un’istruzione non sommaria, affinché soltanto essa venga
trattata con il rito ordinario.
26) Quali effetti produce la contumacia del convenuto?
La
contumacia del convenuto non equivale ad ammissione
dell’esistenza dei fatti posti dall’attore a fondamento
della domanda. Anche nel procedimento sommario di
cognizione, come nel rito ordinario, la contumacia del
convenuto non esclude il potere-dovere del giudice di
accertare se l’attore abbia fornito la prova dei fatti
costitutivi della domanda, in quanto la contumacia non
equivale mai ad ammissione dei fatti dedotti dalla
controparte, anche se costituisce un comportamento
processuale pur sempre apprezzabile, alla stregua di
qualsiasi altra manifestazione del contegno della parte,
per desumerne argomenti utili ai fini della decisione.
Infatti, sebbene la contumacia del convenuto non assuma,
di per sé, alcun significato probatorio in favore della
domanda dell’attore, ciò non vale ad escludere
l’applicabilità della disposizione generale, dettata
dall’art. 116 cod. proc. civ., in virtù della quale il
giudice può desumere argomenti di prova dalla condotta
delle parti nel processo. La contumacia, dunque, è un
elemento valutabile, nel contesto di ogni altro elemento
acquisito al processo, ai fini della decisione; sicché è
consentito al giudice, nell’ambito del potere di
apprezzamento conferito dall’art. 116, di trarre dalla
mancata costituzione del convenuto argomento concorrente
per la valutazione degli altri elementi probatori.
26) Di quali poteri dispone il giudice nella fase
istruttoria?
Il
quinto comma dell’art. 702-ter consente al giudice di
procedere «nel modo più opportuno» agli atti di
istruzione e di omettere «ogni formalità non essenziale
al contraddittorio»; tale disposizione colora di tinte
inquisitorie il procedimento sommario di cognizione, ben
più di quanto già non avvenga nel processo del lavoro,
nel quale pure i poteri officiosi sono marcati.
Il
procedimento sommario di cognizione, pur non essendo
improntato al sistema inquisitorio puro, si risolve
comunque nell’abbandono - seppure scelto da una delle
parti del processo, vale a dire da quella che
ordinariamente si deve assumere l’onere della prova dei
diritti che fa valere nel giudizio - del principio
dispositivo, che obbedisce appunto alla regola formale
di giudizio fondata sull’onere della prova; a questa
regola si viene a sostituire, filtrata dalla rilevante
ed efficace azione attribuita al giudice, quella della
ricerca della verità.
Quando le risultanze di causa offrono significativi dati
di indagine, il giudice, proprio perché investito di
ampi poteri istruttori, non può limitarsi a fare
meccanica applicazione della regola formale, qualora le
prove già acquisite siano insufficienti, ma ha il
potere-dovere di provvedere d’ufficio agli ulteriori
atti istruttori, sollecitati da tale materiale ed idonei
a superare l’incertezza in ordine ai fatti costitutivi
dei diritti in contestazione. Il mancato esercizio di
tale potere-dovere potrà altrimenti tradursi in un vizio
di illogicità della decisione, in particolare quando
questa si fondasse su un elemento probatorio offerto da
una delle parti ma contrastato dall’altra e, di per sé,
non dotato di sicura affidabilità.
27) Può il giudice disporre d’ufficio l’ammissione di
mezzi di prova?
Il
potere di ammettere mezzi di prova d’ufficio, sopperendo
alla lacunosa iniziativa della parte, può essere
esercitato sempreché della sussistenza di tali mezzi
possa aversi cognizione dagli atti di causa, ben potendo
l’impulso del giudice porre rimedio all’inerzia
difensiva delle parti. Il potere d’ufficio, in altri
termini, presuppone pur sempre l’allegazione, da parte
dell’interessato, dei fatti da accertare.
28) L’ampiezza dei poteri istruttori del giudice
incontra dei limiti?
Il
procedimento sommario di cognizione non può essere
svincolato dall’osservanza dei princìpi generali che
informano il processo civile. L’attribuzione dei poteri
istruttori d’ufficio incontra perciò un duplice limite
poiché, da una parte, deve rispettare il principio della
domanda e dell’onere di deduzione in giudizio dei fatti
costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto
controverso e, dall’altra, il divieto di utilizzazione
del sapere privato da parte del giudice. Sicché in buona
sostanza, la norma dettata dal quinto comma dell’art.
702-ter, se da un lato può dispensare la parte
dall’onere della formale richiesta della prova e dagli
oneri relativi alle modalità di formulazione
dell’oggetto della prova, dall’altro richiede pur sempre
che dall’esposizione dei fatti o dall’assunzione degli
altri mezzi di prova siano dedotti, sia pure
implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei
a sorreggere le ragioni della parte e a decidere la
controversia e, cioè, che sussistano significative piste
probatorie emergenti dagli atti di causa.
29) Quali limiti sussistono all’ammissibilità della
prova testimoniale?
Sono pienamente applicabili al procedimento sommario di
cognizione i princìpi generali e, pertanto, sussistono i
seguenti limiti all’ammissione della prova testimoniale:
non possono essere assunte come testimoni le persone
aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare
la loro partecipazione al giudizio (art. 246 cod. proc.
civ.);
la prova per testimoni dei contratti non è ammessa
quando il valore dell’oggetto ecceda euro 2,58 (art.
2721);
la prova per testimoni non è ammessa se ha per
oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un
documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è
stata anteriore o contemporanea (art. 2722);
la prova per testimoni, quando si alleghi che, dopo
la formazione di un documento, è stato stipulato un
patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, può
essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla
qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni
altra circostanza, appare verosimile che siano state
fatte aggiunte o modificazioni verbali (art. 2723);
la prova per testimoni della simulazione è
ammissibile, se è proposta dalle parti, soltanto se
diretta a far valere l'illiceità del contratto
dissimulato (art. 1417);
non possono essere obbligati a deporre su quanto
hanno conosciuto per ragione del proprio ministero,
ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno
l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: a) i
ministri di confessioni religiose, i cui statuti non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; b) gli
avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i
consulenti tecnici e i notai; c) i medici e i chirurghi,
i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una
professione sanitaria; d) gli esercenti altri uffici o
professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di
astenersi dal deporre determinata dal segreto
professionale (il giudice, se ha motivo di dubitare che
la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal
deporre sia infondata, provvede agli accertamenti
necessari; se risulta infondata, ordina che il testimone
deponga);
salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne
all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i
pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico
servizio hanno l'obbligo di astenersi dal deporre su
fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono
rimanere segreti;
i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli
incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di
astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di
Stato.
30) Con quali modalità viene assunta la prova
testimoniale?
Anche su questo punto si applicano le regole comuni,
pertanto:
i testimoni sono esaminati separatamente (art. 251,
comma 1, cod. proc. civ.);
i testimoni vanno ammoniti dal giudice
sull’importanza morale del giuramento e sulle
conseguenze penali delle dichiarazioni false o
reticenti; vanno quindi invitati a rendere la seguente
dichiarazione (Corte cost. 5 maggio 1995, n. 149):
«Consapevole della responsabilità morale e giuridica che
assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta
la verità e a non nascondere nulla di quanto a mia
conoscenza» (art. 251, comma 2, cod. proc. civ.);
il giudice deve richiedere al testimone il nome, il
cognome, l’età e la professione, invitandolo a
dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità,
affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, oppure
interesse nella causa (art. 252, comma 1, cod. proc.
civ.);
le parti possono fare osservazioni
sull’attendibilità del testimone e questi deve fornire
in proposito i chiarimenti necessari (art. 252, comma 2,
cod. proc. civ.);
il giudice interroga il testimone sui fatti intorno
ai quali è chiamato a deporre; può rivolgergli,
d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che
ritiene utili a chiarire i medesimi fatti (art. 253,
comma 1, cod. proc. civ.);
è vietato alle parti di interrogare direttamente i
testimoni (art. 253, comma 2, cod. proc. civ.);
i testimoni devono rispondere personalmente; non
possono servirsi di scritti preparati, ma il giudice può
consentire loro di valersi di note o di appunti, quando
debbono fare riferimento a nomi o a cifre, o quando
particolari circostanze lo consigliano (art. 253, comma
3, cod. proc. civ.);
se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o
più testimoni, il giudice, su istanza di parte o
d’ufficio, può disporre che siano messi a confronto
(art. 254 cod. proc. civ.);
se il testimone regolarmente intimato non si
presenta, il giudice può ordinare una nuova intimazione
oppure disporne l'accompagnamento all'udienza stessa o
ad altra successiva; con la medesima ordinanza, in caso
di mancata comparizione senza giustificato motivo, può
condannarlo ad una pena pecuniaria non inferiore a 100
euro e non superiore a 1.000 euro; in caso di ulteriore
mancata comparizione senza giustificato motivo, il
giudice dispone l’accompagnamento del testimone
all’udienza stessa o ad altra successiva e lo condanna a
una pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non
superiore a 1.000 euro (art. 255, comma 1, cod. proc.
civ.);
se il testimone rifiuta di deporre senza
giustificato motivo, o se vi è fondato sospetto che egli
non abbia detto la verità o sia stato reticente, il
giudice lo denuncia al pubblico ministero, al quale
trasmette copia del processo verbale (art. 256 cod.
proc. civ.).
31) Nel rito sommario può avere luogo la consulenza
tecnica?
La
necessità di nominare consulenti tecnici dovrebbe in
linea generale determinare l’esigenza di un’istruzione
non sommaria e, quindi, il passaggio al rito ordinario.
Non può però escludersi in modo aprioristico che la
consulenza tecnica si riveli necessaria nel corso del
giudizio sommario o che la sua natura non sia
incompatibile con la sommarietà dell’istruzione.
32) La sommarietà del rito è compatibile con i
provvedimenti anticipatori?
Ci
si è chiesto fin dall’inizio se la sommarietà
dell’istruzione che caratterizza il procedimento
speciale sia compatibile con l’adozione dei
provvedimenti anticipatori della decisione previsti
dagli articoli 186-bis, 186-ter e 186-quater del codice
di rito.
Non pare possa sostenersi la compatibilità
dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione
di cui all’art. 186-quater.
Nel processo ordinario di cognizione il giudice
istruttore, esaurita l’istruzione, su istanza della
parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento
di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può
disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o
il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la
prova; l’ordinanza è titolo esecutivo ed è revocabile
con la sentenza che definisce il giudizio. Se, dopo la
pronuncia dell’ordinanza, il processo si estingue,
l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza
impugnabile sull’oggetto dell’istanza. Lo stesso effetto
si produce se la parte intimata non manifesta entro
trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla
comunicazione, con ricorso notificato all’altra parte e
depositato in cancelleria, la volontà che sia
pronunciata la sentenza.
È
vero che, nel richiedere che per la pronunzia
dell’ordinanza anticipatoria sia esaurita l’istruzione,
il codificatore non fa riferimento ad un formale
provvedimento di chiusura dell’attività istruttoria,
ritenendosi sufficiente che abbia ritenuto chiusa la
fase istruttoria, ma è altrettanto vero che il
provvedimento anticipatorio è in specifico rapporto con
la sentenza, dunque con un atto del rito ordinario
inesistente nel primo grado del rito sommario di
cognizione.
L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è
diretta ad assicurare una tutela immediata a favore di
chi ha fornito la prova del diritto azionato e ad
anticipare, anche con la previsione della liquidazione
delle spese processuali, la conclusione del processo
ordinario, senza costringere la parte che ha soddisfatto
l’onere probatorio ad attendere l’eventuale rimessione
al collegio e il necessario completamento dell’iter per
il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie
di replica. Ma il potere attribuito al giudice del
processo sommario di cognizione di omettere ogni
formalità non necessaria al contraddittorio lo autorizza
a regolare in modo diverso da quanto previsto dagli
articoli 189 e 190 cod. proc. civ. le fasi processuali
successive alla chiusura dell’istruzione e, dunque,
nell’ipotesi in cui ritenga raggiunta la prova su tutta
la domanda o su parte di essa, emettere subito
l’ordinanza che definisce il primo grado del
procedimento.
L’art. 186-bis cod. proc. civ. consente al giudice, su
istanza di parte e fino al momento della precisazione
delle conclusioni, di disporre il pagamento delle somme
non contestate dalle parti costituite. Se l’istanza è
proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la
comparizione delle parti ed assegna il termine per la
notificazione. L’ordinanza costituisce titolo esecutivo,
conserva la sua efficacia in caso di estinzione del
processo ed è soggetta alla disciplina delle ordinanze
revocabili. Non vi è motivo per ritenere questo
provvedimento incompatibile con il procedimento sommario
di cognizione.
La
sola contumacia della controparte non è sufficiente
all’attore per ottenere l’ordinanza; il legislatore
pretende che il giudice disponga di elementi di
valutazione che gli permettano di convincersi che il
credito vantato non sia stato contestato, almeno in
parte. Il che non significa che il debito debba essere
espressamente riconosciuto: la mancata contestazione può
trarsi pure o dal rilievo che la stessa impostazione
difensiva del convenuto presupponga la sussistenza del
credito oppure dalla valutazione che la resistenza in
giudizio della controparte è pretestuosa.
Il
provvedimento ha un carattere certamente non decisorio,
poiché non ne è precluso il successivo riesame; è,
pertanto, riconducibile alla categoria dei provvedimenti
condannatori a cognizione sommaria e ad effetto
anticipatorio.
L’art. 186-ter cod. proc. civ. consente infine alla
parte, in qualunque stato del processo, di chiedere al
giudice di pronunciare, con ordinanza, ingiunzione di
pagamento o di consegna.
La
domanda può essere accolta solo se ricorrono i seguenti
presupposti:
prova scritta del diritto fatto valere;
sussistenza di elementi atti a far presumere
l’adempimento della controprestazione o l’avveramento
della condizione, qualora il diritto fatto valere
dipenda dall’una o dall’altra.
Anche questo provvedimento anticipatorio non presenta
profili di incompatibilità con l’istruzione sommaria che
caratterizza il procedimento speciale.
Il
requisito della prova scritta deve essere valutato
tenendo conto del comportamento di entrambe le parti. In
assenza di prove acquisite nel processo, la situazione
del debitore che contesta la fondatezza della pretesa
creditoria attrice sarà, così, identica a quella in cui
il creditore, a fronte delle contestazioni del debitore,
non abbia allegato alcuna prova specifica: difetteranno,
pertanto, le condizioni per concedere il provvedimento.
33) Che caratteristiche ha l’ordinanza che definisce il
giudizio sommario?
L’art. 702-ter, quinto comma, cod. proc. civ. dispone
che il giudice, esaurita l’istruttoria, provvede con
ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande.
L’ordinanza è un provvedimento giudiziale tipico,
emanato dal giudice nel corso di un processo; nel
processo civile, deve essere sempre motivata e può
essere pronunciata sia in udienza sia fuori udienza.
La
scelta dell’ordinanza, in luogo della sentenza, risponde
alla logica di una sommarietà volta alla
deformalizzazione del processo.
L’ordinanza deve essere solo succintamente motivata. Se
è pronunciata in udienza è inserita nel processo
verbale; se è pronunciata fuori dell’udienza è scritta
in calce al processo verbale oppure in foglio separato,
munito della data e della sottoscrizione del giudice. Il
cancelliere comunica alle parti soltanto l’ordinanza che
sia stata pronunciata fuori dell’udienza; l’avviso può
essere effettuato a mezzo telefax o a mezzo di posta
elettronica nel rispetto della normativa, anche
regolamentare, concernente la sottoscrizione, la
trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e
teletrasmessi (a tal fine, il difensore ha l’onere di
indicare nel primo scritto difensivo utile il numero di
fax o l’indirizzo di posta elettronica presso cui
dichiara di voler ricevere l’avviso).
Le
ordinanze non rese in udienza, o comunque non inserite
nel processo verbale, vengono ad esistenza, quali atti
del processo, con il deposito in cancelleria, sicché
l’eventuale anteriorità della loro redazione, ancorché
risultante dalla data apposta dal giudice, è priva di
autonoma rilevanza. Le ordinanze pronunciate in udienza
e inserite nel processo verbale si reputano conosciute
sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero
dovuto intervenire e, quindi, non devono essere
comunicate a queste ultime dal cancelliere.
Il
riformatore del codice di rito non ha voluto ripetere,
nell’introdurre l’art. 702-ter, la norma acceleratoria
che l’art. 53, comma 2, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, ha
aggiunto al primo comma dell’art. 429 cod. proc. civ.,
che obbliga il giudice del lavoro, tranne i casi di
particolare complessità della controversia, a dare
lettura in udienza dell’esposizione delle ragioni di
fatto e di diritto della decisione. Eppure la sommarietà
del rito e le finalità perseguite con la sua istituzione
avrebbero dovuta suggerirne l’opportunità, oltretutto
senza eccezioni, in quanto le controversie
particolarmente complesse sono destinate al passaggio al
rito ordinario e, dunque, non sarebbero state toccate da
tale obbligo. Ciò non toglie che dell’ordinanza che
definisce il primo grado del procedimento sommario di
cognizione ben può essere data lettura in udienza e,
anzi, che questa modalità di pubblicazione sarebbe
auspicabile fosse adottata usualmente.
34) La discussione è orale o scritta?
La
deformalizzazione del procedimento deve suggerire,
almeno in linea generale, l’oralità della discussione,
che ovviamente non impedirebbe che il difensore,
nell’esporre verbalmente le ragioni della difesa, possa
leggere uno scritto precedentemente redatto; questo
scritto perderebbe la natura di «note di udienza», per
divenire una sorta di appunto contenente i temi
affrontati, che il giudice non potrebbe acquisire alla
causa ma di cui potrebbe disporre, al pari di un testo
di legge o di giurisprudenza o di dottrina richiamato
nella discussione.
L’implicita propensione per la forma orale della
discussione non impedisce al giudice, se lo ritenga
necessario, di concedere un termine per il deposito di
note difensive, rinviando la causa ad udienza successiva
alla scadenza di tale termine per la discussione e/o
l’adozione dell’ordinanza di accoglimento o rigetto
delle domande ovvero riservandosi di pronunciare il
provvedimento fuori udienza.
Dopo la sconfortante esperienza del processo del lavoro,
in cui l’oralità avrebbe dovuto tendenzialmente
contraddistinguere la fase decisoria, si deve auspicare
che l’istituto delle note difensive sia considerato nel
procedimento sommario di cognizione un’eccezione e non
si trasformi, nella prassi giudiziaria, in regola.
Il
rito sommario di cognizione non prevede espressamente la
precisazione delle conclusioni, anche se nulla vieta
che, applicando analogicamente l’art. 189 cod. proc.
civ. il giudice consenta alle parti di precisarle; del
resto nella prassi, sia in sede di discussione orale che
nelle note autorizzate, è uso dei difensori ribadirle,
richiamando quelle che devono essere state già
compiutamente formulate negli atti introduttivi.
35) In che misura l’ordinanza dev’essere motivata?
L’ordinanza, contrariamente alla sentenza, non deve
avere una motivazione analitica e dettagliata, purché
essa dia conto delle ragioni di fatto della decisione,
che possono anche essere desunte «per relationem» dal
richiamo agli atti delle parti, ed evidenzi l’avvenuto
esame degli eventuali rilievi difensivi formulati dalle
stesse.
La
«succinta» motivazione non può però tradursi in
«inesistente» motivazione, altrimenti le già compresse
garanzie della difesa finirebbero per venire meno del
tutto. La mancanza del requisito essenziale della
motivazione, che deve ritenersi configurabile non solo
nei casi di ordinanza del tutto mancante di motivazione
ma anche in quelli di motivazione apparente, perché
priva dell’indicazione degli elementi che giustificano
il convincimento del giudice e ne rendono possibile il
controllo, ben potrà essere dedotta sotto il profilo
della nullità del provvedimento.
Del resto l’ordinanza deve essere pur sempre idonea a
definire un giudizio che resta a cognizione piena, non
essendovi alcuna reciproca interdipendenza tra
deformalizzazione del procedimento, atipicità
dell’istruttoria, semplificazione della motivazione e
sommarietà della cognizione. La semplificazione della
motivazione, propria dell’ordinanza, deve restare
strumentale all’esigenza di garantire una ragionevole
durata del processo, nella salvaguardia, però, della sua
compatibilità con il principio di effettività della
tutela giurisdizionale. La motivazione, anche
nell’ordinanza, deve consistere nell’esposizione delle
ragioni in fatto e in diritto della decisione e da essa
debbono rilevarsi i convincimenti che hanno indotto il
giudice ad assumere le sue determinazioni, affinché non
si infranga l’art. 111, quinto comma Cost., il quale
dispone che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono
essere motivati.
36) Il giudice è vincolato alle risultanze
dell’istruttoria?
Il
giudice è libero di individuare le fonti del proprio
convincimento, senza necessità di specifici riferimenti
alle singole risultanze processuali.
È
suo dovere, tuttavia, indicare il contenuto delle fonti
prescelte e dar conto del criterio che ha ispirato la
scelta, per rendere possibile verificare se l’esame
delle risultanze processuali sia stato effettuato con
congrua considerazione degli elementi rilevanti, nonché
controllare l’iter logico attraverso il quale è
pervenuto alla decisione adottata.
La
motivazione, allora, anche se non deve contenere la
puntuale confutazione di ciascuno degli elementi
contrari alla soluzione accolta e di tutte le difformi
valutazioni delle parti, deve però far emergere che le
risultanze probatorie sono state esaminate ed
apprezzate, in modo che la decisione costituisca il
risultato di una sintesi logica del complesso delle
prove offerte dalle parti.
37) L’ordinanza dev’essere notificata?
La
notificazione dell’ordinanza, quando richiesta al fine
della decorrenza del termine per l’impugnazione previsto
dall’art. 702-quater cod. proc. civ. perché essa non è
stata letta in udienza né comunicata, si fa, su istanza
di parte, a norma dell’art. 170 del codice e, dunque,
personalmente alla parte restata contumace o al
procuratore costituito se la parte si sia costituita in
giudizio.
38) L’ordinanza è esecutiva? L’esecutività può essere
sospesa?
Le
ordinanze che definiscono il procedimento nel primo
grado sono provvisoriamente esecutive e costituiscono
titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la
trascrizione.
Nel silenzio degli articoli 702-ter e 702-quater del
codice, occorre chiedersi se il giudice dell’appello
possa, su istanza di parte, sospendere l’efficacia
esecutiva o l’esecuzione dell’ordinanza; se, cioè, sia
analogicamente applicabile l’art. 283 cod. proc. civ.
La
risposta deve essere affermativa, anche perché il
processo d’appello è qui regolato dalle norme che lo
disciplinano nel processo di ordinaria cognizione.
Ovviamente dovranno sussistere i presupposti per
l’accoglimento dell’istanza, vale a dire che essa sia
proposta con l’impugnazione principale o incidentale e
che ricorrano gravi e fondati motivi, anche in relazione
alla possibilità di insolvenza di una delle parti.
La
disposizione dell’art. 283 cod. proc. civ. stabilisce
nel processo ordinario che l’istanza deve fondarsi sulla
sussistenza di «gravi e fondati motivi» e non del
«gravissimo danno» richiesto, ad esempio, nel processo
del lavoro dall’art. 431. È stato ben argomentato (Cass.
25 febbraio 2005, n. 4060) che la sospensione della
provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado, ai
sensi dell’art. 283, è rimessa ad una valutazione
globale d’opportunità, consistendo i «gravi motivi», per
un verso, nella delibazione sommaria della fondatezza
dell’impugnazione e, per altro verso, nella valutazione
del pregiudizio patrimoniale che il soccombente può
subire, anche in relazione alla difficoltà di ottenere
eventualmente la restituzione di quanto pagato,
dall’esecuzione del provvedimento, la quale può essere
inibita anche parzialmente, se i capi sono separati. Il
potere discrezionale riconosciuto al giudice d’appello
nel rito ordinario è, quindi, ben più ampio di quello
riconosciuto al medesimo giudice nel rito del lavoro,
con riferimento alla sentenza di primo grado favorevole
al lavoratore.
L’ordinanza con la quale venga accolta l’istanza di
sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza che
ha definito il primo grado del procedimento sommario di
cognizione ha carattere provvisorio e cautelare e,
pertanto, non pregiudica in nessun caso la decisione
definitiva sull’appello, fondata sulla piena cognizione
di tutte le acquisizioni processuali, dalla quale è
destinata ad essere assorbita, con la sua conseguente
inidoneità ad incidere su diritti soggettivi con
efficacia di giudicato.
39) Quando passa in giudicato l’ordinanza decisoria?
L’ordinanza che definisce il primo grado del
procedimento sommario di cognizione produce gli effetti
del giudicato di cui all’art. 2909 cod. civ. se non è
appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o
notificazione.
La
norma distingue in modo radicale l’ordinanza resa in
questo procedimento speciale da quelle che definiscono i
procedimenti cautelari disciplinati dal capo terzo dello
stesso libro IV del codice di rito, dal momento che i
provvedimenti cautelari, in quanto collegati da un nesso
di strumentalità necessaria con il successivo giudizio
di merito, sono inidonei ad acquistare autorità di cosa
giudicata.
Il
richiamo all’art. 2099 rende applicabili anche
all’ordinanza che decide il giudizio sommario di primo
grado i princìpi in tema di giudicato, ed anzitutto il
principio secondo il quale, qualora due giudizi abbiano
riferimento ad uno stesso rapporto giuridico ed uno dei
due sia stato definito con l’ordinanza passata in
giudicato, l’accertamento così compiuto, in ordine alla
situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni
di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale
comune fa stato. Non basta, però, l’identità soggettiva;
occorre anche quella oggettiva tra il rapporto definito
e quello da definire; pertanto, se del rapporto
controverso mutano alcuni elementi, con conseguente
venir meno dell’originaria «causa petendi», il pregresso
giudicato cessa di operare.
Il
disposto passaggio in giudicato dell’ordinanza in caso
di mancato appello entro trenta giorni dalla sua
comunicazione o notificazione, rende applicabile anche
al procedimento sommario di cognizione la norma dettata
dall’art. 327 cod. proc. civ., che preclude l’appello,
il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi
indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 dello stesso
codice una volta decorsi sei mesi dalla pubblicazione
della sentenza non notificata.
Con una profonda differenza: mentre i termini per
l’impugnazione della sentenza che definisce il
procedimento ordinario di cognizione decorrono
esclusivamente dalla notificazione del provvedimento, e
non anche dalla sua comunicazione, i termini per
impugnare l’ordinanza che definisce il procedimento
sommario di cognizione decorrono non soltanto dalla sua
notificazione ma pure dalla sua comunicazione. In altre
parole: mentre la comunicazione del deposito della
sentenza non fa decorrere i termini per l’appello, dal
quale la parte decade soltanto dopo il decorso di sei
mesi dalla pubblicazione, la comunicazione
dell’ordinanza determina dopo trenta giorni, in ipotesi
di mancata impugnazione, il passaggio in giudicato del
provvedimento.
La
decadenza dall’impugnazione non si verifica nella sola
ipotesi in cui la parte contumace dimostri di non avere
avuto conoscenza del processo per nullità del ricorso o
della sua notificazione e per nullità della
notificazione dell’ordinanza che ne aveva ammesso
l’interrogatorio formale o il giuramento.
40) Come si propone l’appello avverso l’ordinanza che
definisce il rito sommario?
L’appello si propone avanti alla corte d’appello nella
cui circoscrizione ha sede il tribunale che ha
pronunciato l’ordinanza, con citazione contenente
l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici
dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte
nell'art. 163, vale a dire:
indicazione della corte davanti alla quale la
domanda è proposta;
nome, cognome e residenza dell’appellante;
nome, cognome, residenza o domicilio o dimora
dell’appellato e della persone che lo rappresenta o
assiste (domicilio eletto, in caso di appellato
costituito nel primo grado del giudizio);
determinazione della cosa oggetto della domanda;
esposizione dei fatti e degli elementi di diritto
costituenti le ragioni della domanda, vale a dire dei
fatti e dei motivi specifici dell'impugnazione, con le
relative conclusioni;
indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali
l’appellante intende valersi e, in particolare, dei
documenti che offre in comunicazione;
nome e cognome del procuratore e indicazione della
procura;
indicazione del giorno dell’udienza di comparizione;
invito all’appellato a costituirsi nel termine di
venti giorni prima dell’udienza indicata (dieci giorni,
in caso di abbreviazione dei termini) e a comparire, con
l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti
termini implica le decadenze di legge.
41) L’appello nel rito sommario ha effetto pienamente
devolutivo?
L’appello ha effetto pienamente devolutivo ed il riesame
deve essere contenuto nei limiti segnati dai motivi di
impugnazione. L’esigenza della specificazione dei motivi
d’appello, pur non dovendo essere intesa nel senso
rigoroso di una completa e minuziosa esposizione delle
ragioni dedotte a sostegno dell’impugnazione, richiede
che l’appellante, pena l’inammissibilità del mezzo di
impugnazione, formuli almeno una censura dell’ordinanza,
non potendosi ritenere sufficiente la generica richiesta
della sua riforma.
La
determinazione del contenuto dell’atto introduttivo deve
fondarsi sul principio basilare che il diritto di
impugnazione si consuma con l’atto d’appello, il quale
fissa i limiti della devoluzione della controversia in
sede di gravame.
42) In appello si possono formulare nuove domande ed
eccezioni?
Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande
nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate
inammissibili d’ufficio. Possono, tuttavia, domandarsi
gli interessi, i frutti e gli accessori maturati, nonché
il risarcimento dei danni sofferti, dopo l’ordinanza
impugnata.
Il
divieto risponde all’esigenza di garantire il doppio
grado di giurisdizione, che non sarebbe assicurato se
fosse consentito di proporre domande che non fossero
state proposte nel primo grado o ampliare la decisione
richiesta al giudice del primo grado, assicurando così
che il contraddittorio non sia alterato in danno della
parte nei cui confronti vengano proposte le nuove
domande.
Una volta fissato nell’atto d’appello il tema
processuale, è pertanto precluso all’appellante di
ampliarlo nel corso del giudizio, così come alla corte
d’appello resta preclusa l’indagine sulle statuizioni di
primo grado per le quali, in quanto non investite da
specifico motivo di gravame, si è verificata la
formazione del giudicato formale. La preclusione,
peraltro, non comprende anche le questioni che, pur non
specificatamente prospettate, costituiscano un
antecedente logico e giuridico di quelle espressamente
dedotte nei motivi di impugnazione. Il divieto non si
estende alle nuove argomentazioni difensive. La
possibilità di introdurle è legata, però, alla
circostanza che, in primo grado, la parte abbia mosso
contestazioni in relazione al punto sul quale le
successive deduzioni si innestano; la possibilità va
pertanto esclusa quando la parte stessa abbia aderito
alle avverse richieste, chiudendo in quella sede ogni
dibattito sul punto.
43) Possono ammettersi in appello nuovi mezzi di prova?
La
normativa generale sul rito ordinario stabilisce che non
possono ammettersi nuovi mezzi di prova e non possono
essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio
non li ritenga «indispensabili» ai fini della decisione
della causa ovvero che la parte dimostri di non aver
potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado
per causa ad essa non imputabile. Ad eccezione del
giuramento decisorio, sempre deferibile.
L’unica eccezione che caratterizza il secondo grado del
procedimento speciale rispetto al procedimento di
appello nel processo ordinario riguarda proprio
l’inammissibilità di nuovi mezzi di prova. Il secondo
periodo dell’art. 702-quater del codice di rito rende,
infatti, ammissibili nuovi mezzi di prova e nuovi
documenti quando il collegio li ritenga «rilevanti» ai
fini della decisione.
I
differenti attributi («indispensabili» e «rilevanti»)
rendono, com’è evidente, assai meno rigoroso il divieto
di nuove prove nel procedimento d’appello dell’ordinanza
che definisce il primo grado del processo sommario di
cognizione rispetto all’analogo divieto che impronta il
secondo grado del giudizio ordinario di cognizione. La
ragione di questo affievolimento del divieto, che
finisce col lasciare alla corte d’appello un ampio
margine di discrezionalità nell’istruire la causa, sta
proprio nella sommarietà e atipicità che caratterizza il
primo grado del giudizio, volto alla celerità
dell’indagine istruttoria, che potrebbe collidere con la
sua completezza.
Sarebbe esagerato affermare che nel giudizio d’appello
si istruisce nuovamente la causa, ma senza dubbio questo
grado è destinato a mondarla dalle pecche che il
procedimento sommario reca in sé, ordinato, com’è, a
sacrificare al contenimento della sua durata
l’approfondimento dei fatti e delle ragioni, a
sacrificare alla rapidità e concentrazione del processo
la compiutezza della risposta alla domanda di giustizia.
Le
nuove prove, però, devono apparire pur sempre rilevanti
ai fini del decidere, in quanto la loro ammissione deve
restare compatibile con l’unità e l’infrazionabilità
della prova, che non consente la riproposizione in
appello di una prova già esaurita o la deduzione di una
prova diretta a completare, modificare o contraddire
quella già esaurientemente espletata in primo grado. Ma
l’inammissibilità, riguardata alla luce della sommarietà
del rito nel primo grado, non deve risolversi nella
compressione, altrimenti intollerabile, dell’esercizio
del diritto di azione e di difesa. Resta ferma,
peraltro, ad arginare la discrezionalità del giudice
d’appello di «riaprire» l’istruttoria, la possibilità di
controllo in sede di legittimità circa l’apprezzamento
compiuto dalla corte di merito, sia pure esclusivamente
sotto il profilo della congruità della motivazione della
decisione del gravame. Il giudizio di rilevanza della
prova nuova in appello implica, in altri termini, la
valutazione sull’attitudine della stessa a dissipare un
perdurante stato di incertezza sui fatti controversi.
È
quindi consentito, in sede di gravame, ciò che sarebbe
vietato nel processo ordinario, vale a dire di sopperire
alle lacune di una prova già ammessa ed espletata in
primo grado, mediante deduzione di ulteriori mezzi
istruttori aventi il medesimo oggetto di quella; ma
resta pur sempre precluso, come nel rito ordinario, alla
parte restata contumace in primo grado di dedurre in
appello prove che tendano a rinnovare quella già
esperita in primo grado o a contraddire i risultati di
essa, in quanto ciò avrebbe dovuto formare oggetto di
prova contraria. La parte può chiedere l’ammissione di
prove nuove e pure riproporre istanze istruttorie
espressamente o implicitamente disattese dal giudice di
primo grado a motivo della sommarietà del rito, ma non
quelle rigettate motivatamente senza censurare, con
specifico motivo di gravame, le ragioni per le quali
l’istanza di ammissione è stata respinta o dolersi
dell’omessa pronuncia al riguardo.
L’ammissibilità della prova nuova, insomma, si
identifica nella rilevanza dei fatti dedotti a prova,
che ovviamente è condizione dell’ammissibilità di ogni
mezzo istruttorio, ma non pretende la verificata
impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti
con altri mezzi che la parte avesse avuto l’onere di
fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge
processuale ordinaria
44) Come avviene la costituzione in appello delle parti
nel rito sommario?
La
costituzione in appello deve avvenire anche nel
procedimento sommario di cognizione secondo le forme e i
termini per i procedimenti ordinari davanti al tribunale
e, dunque, ai sensi dell’art. 165 cod. proc. civ. per
l’appellante e dell’art. 166 per l’appellato.
45) Come avviene la correzione dei provvedimenti nel
rito ordinario?
L’art. 287 cod. proc. civ. stabilisce che le sentenze
contro le quali non sia stato proposto appello e le
ordinanze non revocabili possono essere corrette, su
ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha
pronunciate, qualora egli sia incorso in omissioni o in
errori materiali o di calcolo. La norma deve applicarsi
analogicamente anche all’ordinanza che definisce in
primo grado il procedimento sommario di cognizione.
La
procedura di correzione degli errori materiali non è più
esperibile quando avverso l’ordinanza sia già stato
proposto appello, giacché in tal caso l’impugnazione
assorbe ogni correzione di errori in cui sia incorso il
primo giudice, rientrando quest’ultima nei compiti di
revisione conferiti al giudice del gravame.
Emanuele Montemarano
Componente della Commissione Diritto Civile
e
Procedura Civile dell’Ordine degli Avvocati di
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