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IL PROCESSO CIVILE SOMMARIO DI COGNIZIONE ED I RAPPORTI CON IL RITO ORDINARIO LE DOMANDE FONDAMENTALI a cura dell’Avv. Emanuele Montemarano

 

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La legge 18 giugno 2009, n. 69, recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitività, contiene anche norme in materia di processo civile, tra le quali quelle, dettate dall’art. 51, che - introducendo nel codice di procedura gli articoli 702-bis, 702-ter e 702-quater - istituiscono e disciplinano il nuovo «procedimento sommario di cognizione».

Si tratta di un importante ed innovativo strumento, di cui si possono cogliere le caratteristiche essenziali dando risposta alle principali domande sul funzionamento del nuovo modello di rito civile, soprattutto per ciò che riguarda i rapporti con il rito ordinario.

 

 

1) A quali controversie si applica il nuovo procedimento?

 

A tutte le controversie per le quali ricorrano i seguenti quattro presupposti:

  1. che la causa debba essere giudicata dal tribunale in composizione monocratica (l’art. 50-bis cod. proc. civ. elenca infatti in modo tassativo le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale);
  2. che l’attore scelga di ricorrere al rito sommario e non al rito ordinario;
  3. che le difese svolte dalle parti non richiedano ad avviso del giudice un’istruzione non sommaria;
  4. che non si tratti di controversie di competenza del giudice di pace e quelle assoggettate ad altro rito speciale, quali le controversie individuali di lavoro, le controversie in materia locatizia, le opposizioni alle sanzioni amministrative, i procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone;

Da ciò ben si evince che scegliere tra il nuovo procedimento ed il rito ordinario è prerogativa dell’attore, rispetto alla quale la volontà del convenuto è del tutto irrilevante. Costui - qualora valuti opportuno celebrare il processo nelle forme del rito ordinario - potrà soltanto esercitare i suoi poteri persuasivi nei confronti del magistrato, che, in ultima analisi, ha l’ultima parola sulla scelta tra l’uno e l’altro tipo di procedimento.

 

2) Come avviene il passaggio dal rito sommario al rito ordinario?

 

Se la controversia richiede la composizione collegiale del tribunale, il giudice erroneamente adito con il rito sommario dichiara la domanda inammissibile con ordinanza non impugnabile.

Se invece il giudice valuta opportuno disporre il passaggio di rito nel corso del giudizio regolarmente incardinato, sulla base degli argomenti forniti dalle parti o delle risultanze istruttorie raccolte, fissa con ordinanza non impugnabile l’udienza di prima comparizione delle parti ex art. 183 cod. proc. civ., determinando il passaggio al rito ordinario. Si tratta di ordinanze che possono essere pronunciate anche fuori udienza, dunque prima che venga fissata la prima udienza o prima che essa venga tenuta, una volta che il giudice abbia disaminato l’atto introduttivo del procedimento o la comparsa di risposta del convenuto. Ovviamente se pronunciate fuori udienza dovranno essere comunicate dal cancelliere alle parti costituite.

 

3) L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità può essere oggetto di contestazione?

 

L’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità non è suscettibile di controllo, dal momento che non costituisce una pronuncia di accertamento negativo, bensì una pronuncia allo stato degli atti, che non assume efficacia di cosa giudicata e non ha, dunque, la natura decisoria: rispetto ad essa non è quindi ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

 

4) Dopo l’ordinanza di inammissibilità si può riproporre la stessa domanda con il rito sommario?

 

La dichiarazione di inammissibilità della domanda non equivale ad una pronuncia di rigetto nel merito e quindi non impedisce la riproposizione della stessa domanda né con il rito ordinario, né con il rito sommario.

 

5) In quale momento il giudice può stabilire che occorre dirimere la controversia con il rito ordinario e quindi procedere al mutamento di rito?

 

Qualora il giudice rilevi l’esigenza di un’istruzione non sommaria fin dalla disamina del ricorso introduttivo, non dovrà emettere il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione bensì pronunciare «inaudita altera parte» l’ordinanza di fissazione dell’udienza di cui all’art. 183, imponendo all’attore di notificare al convenuto il ricorso unitamente all’ordinanza non impugnabile e di integrare eventualmente il contraddittorio. Se invece l’esigenza di assoggettare la controversia al rito ordinario emerge in un momento successivo, quindi nel corso del procedimento sommario, il giudice potrà sempre decidere il passaggio al rito ordinario, rimettendo le parti all’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ., consentendo loro di svolgervi tutte quelle attività impedite fino a quel momento dall’assoggettamento al rito sommario.

 

6) Su quali elementi il giudice deve fondare la decisione di proseguire la causa con il rito sommario ovvero di passare al rito ordinario?

 

Non pare che possano assumere rilevanza né il «periculum in mora», cioè l’esigenza di concentrare il confronto processuale per evitare che il tempo occorrente per la decisione con il rito ordinario possa pregiudicare i diritti fatti valere nel processo, né il «fumus boni iuris», vale a dire la preventiva valutazione della certezza del fondamento giuridico della domanda; questi elementi avrebbero semmai potuto orientare l’attore verso la scelta di un procedimento d’urgenza, da lui invece scartato, rinunciando così a dedurre nel giudizio la sussistenza dell’uno o dell’altro, se non di entrambi.

Il tenore letterale della norma porta a concludere che la sommarietà o l’ordinarietà del rito è rimessa in primo luogo all’arbitrio dell’attore, cui viene riservata al scelta dell’«arma del duello»; si accontenterà, in caso di scelta del procedimento sommario, di un’istruzione deformalizzata ed atipica, che attribuisce senza dubbio un potere inquisitorio al giudice e potrebbe risolversi in una maggiore difficoltà nel soddisfare l’onere probatorio che incombe su chi intende far valere giudizialmente i propri diritti. Fatta questa scelta, che rende centrale nella fase istruttoria il ruolo propulsivo del giudice, l’attore si rimette alle decisioni di quest’ultimo anche per quanto concerne la conferma della scelta, poiché il giudice può sempre decidere di cambiare l’arma del duello, passando al rito ordinario allorché, a suo insindacabile giudizio, ritenga che le prospettazioni delle parti richiedano un’istruzione non sommaria della causa.

L’inoppugnabilità del provvedimento con cui queste sono rimesse all’udienza di cui all’art. 183 rende, d’altronde, superflua l’indagine intorno agli elementi sui quali il giudice abbia fondato la sua decisione di inadeguatezza del rito sommario di cognizione, evidenziando l’ampiezza dei poteri attribuitigli dalla scelta del procedimento speciale effettuata dall’attore.

 

7) Al rito sommario sono applicabili le disposizioni generali sul processo civile?

 

Anche al procedimento sommario di cognizione sono applicabili le disposizioni processuali civili generali, a condizione che siano compatibili con le disposizioni del rito speciale e con le sue caratteristiche strutturali.

 

8) Quali regole del rito ordinario sono incompatibili con il procedimento sommario?

 

Certamente sono da ritenere incompatibili con il processo sommario di cognizione tutte le norme del codice di procedura civile che confliggono con i princìpi di immediatezza, di concentrazione e di innominatività dei poteri istruttori del giudice, propri della sommarietà di questo procedimento speciale, che è evidentemente preordinato a soddisfare l’esigenza della sollecita definizione delle controversie.

 

9) Quale dev’essere il contenuto minimo necessario del ricorso introduttivo del rito sommario?

 

Il ricorso deve contenere, secondo l’espresso richiamo al terzo comma dell’art. 163 del codice di rito:

   l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta;

   il nome, il cognome e la residenza dell’attore, nonché il nome, il cognome, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono; se attore o convenuto è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, la denominazione o la ditta, con l’indicazione dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio;

   la determinazione della cosa oggetto della domanda;

   l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni;

   l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e, in particolare, dei documenti che offre in comunicazione;

   il nome e il cognome del procuratore e l’indicazione della procura;

   l’avvertimento che la costituzione oltre i termini di legge implica la decadenza dalle eccezioni di incompetenza nonché dalle eventuali domande riconvenzionali e dalle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.

 

10) Cosa succede se manca uno di tali elementi essenziali?

 

La verifica degli elementi essenziali del ricorso introduttivo costituisce questione preliminare rispetto alla decisione sul merito; in caso di mancanza di alcuno di essi il giudice deve dichiararne la nullità, senza passare all’esame del merito. Il ricorso, integrato degli elementi mancanti, potrà tuttavia essere riproposto.

 

11) Il ricorso è nullo se manca l’indicazione del giudice adito?

 

No, poiché la procedura di proposizione della domanda, che si realizza attraverso il deposito dell’atto in cancelleria e nell’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione da parte del giudice in concreto adito, esclude che il convenuto, cui ricorso e decreto sono notificati, possa nutrire incertezza circa il giudice davanti al quale deve comparire.

 

12) A quali condizioni il ricorso può essere dichiarato nullo per indeterminatezza della domanda?

 

Per aversi nullità del ricorso occorre non solo che l’oggetto della domanda - il «petitum» - sia del tutto omesso, o assolutamente incerto, ma pure che non sia possibile determinarlo attraverso l’esame dell’atto introduttivo del giudizio, che va interpretato sempre nel suo complesso, al fine di verificare la presenza di tutti gli elementi della domanda che siano prescritti a pena di nullità.

Il principio della libertà di forma degli atti di parte nel processo civile, infatti, non consente di tenere distinte, ai fini della concreta individuazione delle richieste sottoposte al giudice, le diverse parti degli scritti difensivi; ne impone, anzi, l’esame complessivo, ben potendo essere contenute nella parte espositiva richieste conclusive ovvero argomentazioni difensive tra le conclusioni, sempreché la forma espositiva e letterale adottata non sia tale da rendere del tutto equivoca l’interpretazione degli scritti.

 

13) Si può modificare la domanda nel corso del rito sommario?

 

L’esigenza di determinare l’oggetto della domanda fin dall’atto introduttivo del giudizio assume un rilievo particolare nel procedimento sommario di cognizione, rispetto al processo ordinario, in cui l’art. 183 cod. proc. civ. consente alle parti di chiedere al giudice la fissazione di un termine per il deposito di memorie contenenti anche modificazioni delle domande e delle conclusioni già proposte negli atti introduttivi, seppure con forti limitazioni di ammissibilità. Nel rito sommario, invece, la proposizione di domande nuove nel corso del giudizio di primo grado vanificherebbe le esigenze di celerità del procedimento, le quali impongono che l’oggetto del contendere sia fissato già negli atti introduttivi, anche se la decadenza è comminata espressamente dal quarto comma dell’art. 702-bis soltanto per le domande riconvenzionali e per le eccezioni processuali e di merito proposte dal convenuto.

Al contrario però di quanto previsto, ad esempio, nel rito speciale del lavoro, in cui si ritiene che tali esigenze travalichino quelle di tutela dell’interesse eventualmente contrario delle parti, con la conseguenza che la tardività della nuova domanda non può essere sanata neppure dall’accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, nel procedimento sommario di cognizione questa evenienza, così come più in genere l’opportunità ritenuta dal giudice di consentire modificazioni della domanda, determinerebbe non già l’immodificabilità della domanda bensì, qualora non si tratti di una semplice riduzione della domanda iniziale, l’esigenza di passaggio al rito ordinario, poiché nell’art. 702-bis non è ripetuta la norma dettata dal primo comma dell’art. 420 cod. proc. civ., secondo cui la modificazione della domanda originaria è subordinata al ricorrere di gravi motivi ed alla correlativa autorizzazione del giudice.

 

14) Quali sono le conseguenze della mancata indicazione dei mezzi di prova?

 

La mancata specifica indicazione dei mezzi di prova non comporta la nullità del ricorso (e, quindi, una decisione a contenuto esclusivamente processuale, che non impedirebbe la riproposizione della domanda in un altro procedimento) né la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo. Siffatta conseguenza sarebbe stata, per il ricorrente, ben più gravosa della nullità, poiché avrebbe potuto determinare il rigetto della domanda nel merito, con conseguente impossibilità di riproporre il ricorso senza violare il principio del «ne bis in idem».

L’indicazione dei mezzi di prova di cui l’attore intende avvalersi non costituisce un requisito di validità del ricorso, ma integra soltanto un onere della parte, finalizzato all’accoglimento della domanda, il cui mancato assolvimento può pregiudicare il ricorrente ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., peraltro solo nelle ipotesi in cui i fatti integranti la ragione da lui fatta valere non siano stati ammessi o siano stati contestati dal convenuto ovvero non abbiano trovato dimostrazione sulla base di altre prove regolarmente acquisite, o perché dedotte dallo stesso convenuto, o perché ammesse successivamente d’ufficio o su istanza di parte oppure perché ricavabili dal comportamento processuale delle parti.

 

15) Cosa succede se nel ricorso non sono indicati i nominativi dei testimoni?

 

Con specifico riguardo al rito speciale del lavoro si è a lungo coltivato un contrasto giurisprudenziale circa le conseguenze della mancata indicazione dei nominativi dei testimoni nel ricorso introduttivo, finché sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione a stabilire che la parte a ciò inottemperante non decade dall’istanza istruttoria, giacché l’omissione costituisce una mera irregolarità, rispetto alla quale il giudice deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine perentorio. Se tale soluzione si addice perfettamente al processo del lavoro, a maggior ragione deve essere invocata nel procedimento sommario di cognizione, dal momento che la formulazione del quinto comma dell’art. 702-ter cod. proc. civ., che consente al giudice di «procedere nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto», è ben più ampia di quella del primo comma dell’art. 421, che dispone che il giudice indichi alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti che possono essere sanate, assegnando loro un termine per provvedervi.

 

16) Si possono produrre documenti successivamente al deposito degli atti introduttivi?

 

Sempre nel rito del lavoro, i documenti, quali prove precostituite, possono essere prodotti, specie se la produzione sia giustificata dallo sviluppo del processo, fino all’udienza di discussione ed anche in appello, senza incorrere in preclusioni, applicabili alle sole prove costituende. Tale principio interpretativo, che ha non poco contribuito a vanificare la celerità del processo del lavoro e la concentrazione in esso delle attività processuali, è tuttavia ormai del tutto consolidato e incontrastato, almeno nella giurisprudenza di legittimità, e pare destinato ad incontrare fortuna ancora maggiore nel procedimento sommario di cognizione, proprio per l’ampiezza dei poteri officiosi attribuiti nel primo grado al giudice, che supera quella, già rilevante, conferita al giudice del lavoro.

 

17) Quando devono essere formulate le conclusioni?

 

Ogni udienza, compresa la prima, può essere destinata, oltreché all’assunzione delle prove, all’immediata pronuncia dell’ordinanza di accoglimento o di rigetto delle domande.

Non è prevista, al contrario di quanto dispone l’art. 189 cod. proc. civ., un’udienza di precisazione delle conclusioni, per tali intendendosi la sintesi delle domande formulate dalla parte nel processo, costituendo conseguenze logiche delle circostanze di fatto e degli elementi di diritto posti a fondamento delle domande stesse. Le conclusioni quindi, salvo modifiche autorizzate dal giudice nell’esercizio dei poteri officiosi, restano per l’attore quelle di cui al ricorso e per il convenuto quelle di cui alla comparsa di risposta.

 

18) Come avviene il deposito del ricorso?

 

Il ricorso va presentato nella cancelleria del giudice competente; il deposito deve includere i documenti indicati nell’atto, giacché l’attore, al momento del deposito, deve consegnare al cancelliere il proprio fascicolo, il quale verrà custodito in unica cartella con il fascicolo d’ufficio, che lo stesso cancelliere forma per inserirvi copia del ricorso, delle comparse e note, nonché i processi verbali d’udienza, i provvedimenti del giudice e gli atti di istruzione.

 

19) Da quale momento si verifica l’effetto interruttivo della prescrizione?

 

L’effetto interruttivo della prescrizione, come negli altri procedimenti introdotti con ricorso, non si produce con il deposito dell’atto introduttivo, ma con la sua notificazione al convenuto; l’effetto interruttivo, infatti, si realizza quando il debitore ha conoscenza legale (non necessariamente effettiva) dell’atto giudiziale o stragiudiziale proveniente dal creditore.

 

20) Come avviene la notifica del ricorso al convenuto?

 

Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, deve essere notificato al convenuto, a cura dell’attore. La notificazione del ricorso va effettuata almeno trenta giorni prima della data fissata per la costituzione del destinatario, che deve avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza: dunque, almeno quaranta giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione. Il termine concesso per la notificazione non muta neppure nell’ipotesi in cui questa debba effettuarsi all’estero.

L’inosservanza del termine di notificazione del ricorso non costituisce vizio dell’atto introduttivo, tale da comportare la sua nullità in caso di contumacia del convenuto, bensì vizio limitato all’atto di evocazione in giudizio che, nel procedimento sommario di cognizione, è autonomo rispetto all’atto introduttivo, essendo la domanda compiutamente proposta con il deposito del ricorso. L’inosservanza del termine di comparizione trova, quindi, adeguato rimedio nella rinnovazione della notificazione per altra udienza; la nullità in questione, peraltro, è sanata dalla costituzione in giudizio del convenuto.

 

21) Quando e come deve costituirsi in giudizio il convenuto?

 

Il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza di comparizione, mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta: non va computato il giorno iniziale ma soltanto quello finale; sicché va computato il giorno dell’udienza e individuato, come l’ultimo utile per il compimento dell’atto, il decimo giorno precedente l’udienza stessa.

La costituzione del convenuto oltre il decimo giorno anteriore all’udienza di comparizione non è nulla né inammissibile. Deve essere considerata come costituzione tardiva del contumace e comporta che il convenuto, ferma la decadenza sancita dallo stesso art. 702-bis per le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio e per la proposizione delle eventuali domande riconvenzionali, deve accettare il processo nello stato in cui si trova. La costituzione tardiva non impedisce, quindi, al convenuto di porre a base delle proprie difese di merito gli elementi probatori già acquisiti al processo, anche se relativi a fatti di cui gli incombe la prova, e conseguentemente al giudice di fondare la decisione sugli stessi elementi.

 

22) Il convenuto costituitosi tardivamente può indicare mezzi di prova?

 

Non essendo comminata alcuna decadenza, come ad esempio è disposto dall’ultimo comma dell’art. 416 cod. proc. civ. nel processo del lavoro per l’ipotesi di costituzione tardiva del convenuto, la soluzione va ricercata nella disposizione dettata dal primo comma dell’art. 167 del codice di rito, sostanzialmente identica a quella posta dal quarto comma dell’art. 702-bis: dunque, ampia possibilità per il giudice di ammettere mezzi di prova non indicati nella comparsa di risposta.

Per ciò che concerne le prove documentali, va data applicazione all’art. 293 cod. proc. civ., secondo cui la parte che si costituisce tardivamente può disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice, le scritture prodotte contro di lei.

 

23) Che succede se il convenuto, nelle sue difese, non assolve all’onere di contestazione?

 

Nel rito ordinario l’onere di contestazione posto a carico del convenuto, che si costituisce depositando la comparsa di risposta, risulta rafforzato dall’onere, impostogli dall’art. 167 cod. proc. civ., di prendere posizione nella comparsa sui fatti costituenti il fondamento della domanda dell’attore, con la conseguenza che gli stessi, qualora non siano contestati dal convenuto, debbono essere considerati incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione. Non diversamente si deve argomentare nel procedimento sommario di cognizione

L’inadempimento, da parte del convenuto, dell’onere di prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, non è sanzionato da decadenza (come è, invece, per l’onere di proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e delle domande riconvenzionali) e, pertanto, non preclude al convenuto la successiva contestazione dei fatti costitutivi della domanda, anche in grado d’appello, né al giudice il potere-dovere di accertarne la dimostrazione, ricavando eventuali argomenti di prova anche dal comportamento del convenuto. La contestazione generica, invece, pur non implicando ammissione della loro sussistenza, costituisce una violazione dell’obbligo di lealtà processuale. Resta il fatto che la mancata contestazione del convenuto non può essere equiparata in nessun caso ad una confessione giudiziale della fondatezza delle deduzioni dell’attore; può, tuttavia, assumere rilevanza, ai fini della prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio dal ricorrente, nei soli limiti in cui le allegazioni di quest’ultimo siano specifiche e fornite di riferimenti concreti. Il codificatore ha voluto senz’altro scoraggiare la scelta del silenzio quale linea difensiva premiante per il convenuto, ma non fino ad imporgli l’onere di dedurre altri fatti che si oppongano a quelli costitutivi della domanda o, comunque, di formalizzare un’articolata e analitica contestazione rispetto ad ogni singola e particolare circostanza dei fatti addotti dalla controparte. I fatti possono quindi essere considerati «pacifici» solo quando la controparte abbia impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il loro disconoscimento, oppure si sia limitata a contestare esplicitamente e specificamente alcuni soltanto di quei fatti, evidenziando così il proprio disinteresse ad un accertamento degli altri.

L’inottemperanza del convenuto all’onere di contestazione può tuttavia, secondo le circostanze, costituire elemento integrativo del convincimento del giudice che, in applicazione dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., ben potrà desumere da tale comportamento argomenti di prova, in quanto la disposizione consente di desumere argomenti di prova, oltre che dalle risposte delle parti liberamente interrogate e dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni, anche dal contegno delle stesse nel processo.

 

24) Quando va formulata l’eccezione di prescrizione?

 

Trattandosi di eccezione in senso proprio, è soggetta all’onere della tempestiva deduzione nella comparsa di risposta; essa deve essere sollevata dal convenuto inequivocamente, senza necessità di formule sacramentali e senza riferimento a precisi dati normativi, essendo sufficiente che dalla comparsa risulti la volontà della parte di avvalersene. Quando il convenuto, nell’eccepire la prescrizione del diritto vantato dall’attore, non indichi a quale tipo di prescrizione intende riferirsi, l’eccezione deve presumersi proposta con riguardo al termine decennale, salvo che nell’ulteriore corso del giudizio, eventualmente anche in grado d’appello, la parte non la precisi con riferimento ad altra, più breve, prescrizione, così facendo venire meno il presupposto della presunzione.

 

25) Entro quale termine vanno proposte eventuali domande riconvenzionali?

 

Il convenuto deve proporre le eventuali domande riconvenzionali, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta con il deposito della quale si costituisce in giudizio.

Il novellatore ha scartato la soluzione della rifissazione dell’udienza di comparizione, che avrebbe consentito all’attore di prendere posizione in modo meditato sulle pretese della controparte, come invece avviene ad esempio nel processo del lavoro, in cui il convenuto che abbia proposto una domanda in via riconvenzionale deve, con istanza contenuta nella stessa memoria di costituzione e a pena di decadenza dalla stessa riconvenzionale, chiedere al giudice che, a modifica del decreto di fissazione dell’udienza, ne pronunci un nuovo. Una soluzione analoga è disposta dal quinto comma dell’art. 702-bis per il solo caso della chiamata in causa di un terzo.

La scelta appare coerente con il potere attribuito al giudice dal quarto comma del successivo art. 702-ter, diversamente da quanto è nel rito del lavoro, di disporre la separazione della causa relativa alla domanda riconvenzionale che richieda a suo avviso un’istruzione non sommaria, affinché soltanto essa venga trattata con il rito ordinario.

 

26) Quali effetti produce la contumacia del convenuto?

 

La contumacia del convenuto non equivale ad ammissione dell’esistenza dei fatti posti dall’attore a fondamento della domanda. Anche nel procedimento sommario di cognizione, come nel rito ordinario, la contumacia del convenuto non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se l’attore abbia fornito la prova dei fatti costitutivi della domanda, in quanto la contumacia non equivale mai ad ammissione dei fatti dedotti dalla controparte, anche se costituisce un comportamento processuale pur sempre apprezzabile, alla stregua di qualsiasi altra manifestazione del contegno della parte, per desumerne argomenti utili ai fini della decisione.

Infatti, sebbene la contumacia del convenuto non assuma, di per sé, alcun significato probatorio in favore della domanda dell’attore, ciò non vale ad escludere l’applicabilità della disposizione generale, dettata dall’art. 116 cod. proc. civ., in virtù della quale il giudice può desumere argomenti di prova dalla condotta delle parti nel processo. La contumacia, dunque, è un elemento valutabile, nel contesto di ogni altro elemento acquisito al processo, ai fini della decisione; sicché è consentito al giudice, nell’ambito del potere di apprezzamento conferito dall’art. 116, di trarre dalla mancata costituzione del convenuto argomento concorrente per la valutazione degli altri elementi probatori.

 

26) Di quali poteri dispone il giudice nella fase istruttoria?

 

Il quinto comma dell’art. 702-ter consente al giudice di procedere «nel modo più opportuno» agli atti di istruzione e di omettere «ogni formalità non essenziale al contraddittorio»; tale disposizione colora di tinte inquisitorie il procedimento sommario di cognizione, ben più di quanto già non avvenga nel processo del lavoro, nel quale pure i poteri officiosi sono marcati.

Il procedimento sommario di cognizione, pur non essendo improntato al sistema inquisitorio puro, si risolve comunque nell’abbandono - seppure scelto da una delle parti del processo, vale a dire da quella che ordinariamente si deve assumere l’onere della prova dei diritti che fa valere nel giudizio - del principio dispositivo, che obbedisce appunto alla regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova; a questa regola si viene a sostituire, filtrata dalla rilevante ed efficace azione attribuita al giudice, quella della ricerca della verità.

Quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, proprio perché investito di ampi poteri istruttori, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale, qualora le prove già acquisite siano insufficienti, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli ulteriori atti istruttori, sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza in ordine ai fatti costitutivi dei diritti in contestazione. Il mancato esercizio di tale potere-dovere potrà altrimenti tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondasse su un elemento probatorio offerto da una delle parti ma contrastato dall’altra e, di per sé, non dotato di sicura affidabilità.

 

27) Può il giudice disporre d’ufficio l’ammissione di mezzi di prova?

 

Il potere di ammettere mezzi di prova d’ufficio, sopperendo alla lacunosa iniziativa della parte, può essere esercitato sempreché della sussistenza di tali mezzi possa aversi cognizione dagli atti di causa, ben potendo l’impulso del giudice porre rimedio all’inerzia difensiva delle parti. Il potere d’ufficio, in altri termini, presuppone pur sempre l’allegazione, da parte dell’interessato, dei fatti da accertare.

 

28) L’ampiezza dei poteri istruttori del giudice incontra dei limiti?

 

Il procedimento sommario di cognizione non può essere svincolato dall’osservanza dei princìpi generali che informano il processo civile. L’attribuzione dei poteri istruttori d’ufficio incontra perciò un duplice limite poiché, da una parte, deve rispettare il principio della domanda e dell’onere di deduzione in giudizio dei fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto controverso e, dall’altra, il divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice. Sicché in buona sostanza, la norma dettata dal quinto comma dell’art. 702-ter, se da un lato può dispensare la parte dall’onere della formale richiesta della prova e dagli oneri relativi alle modalità di formulazione dell’oggetto della prova, dall’altro richiede pur sempre che dall’esposizione dei fatti o dall’assunzione degli altri mezzi di prova siano dedotti, sia pure implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte e a decidere la controversia e, cioè, che sussistano significative piste probatorie emergenti dagli atti di causa.

 

29) Quali limiti sussistono all’ammissibilità della prova testimoniale?

 

Sono pienamente applicabili al procedimento sommario di cognizione i princìpi generali e, pertanto, sussistono i seguenti limiti all’ammissione della prova testimoniale:

   non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (art. 246 cod. proc. civ.);

   la prova per testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto ecceda euro 2,58 (art. 2721);

   la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea (art. 2722);

   la prova per testimoni, quando si alleghi che, dopo la formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, può essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali (art. 2723);

   la prova per testimoni della simulazione è ammissibile, se è proposta dalle parti, soltanto se diretta a far valere l'illiceità del contratto dissimulato (art. 1417);

   non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai; c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale (il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari; se risulta infondata, ordina che il testimone deponga);

   salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l'obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti;

   i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato.

 

30) Con quali modalità viene assunta la prova testimoniale?

 

Anche su questo punto si applicano le regole comuni, pertanto:

   i testimoni sono esaminati separatamente (art. 251, comma 1, cod. proc. civ.);

   i testimoni vanno ammoniti dal giudice sull’importanza morale del giuramento e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false o reticenti; vanno quindi invitati a rendere la seguente dichiarazione (Corte cost. 5 maggio 1995, n. 149): «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto a mia conoscenza» (art. 251, comma 2, cod. proc. civ.);

   il giudice deve richiedere al testimone il nome, il cognome, l’età e la professione, invitandolo a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, oppure interesse nella causa (art. 252, comma 1, cod. proc. civ.);

   le parti possono fare osservazioni sull’attendibilità del testimone e questi deve fornire in proposito i chiarimenti necessari (art. 252, comma 2, cod. proc. civ.);

   il giudice interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre; può rivolgergli, d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili a chiarire i medesimi fatti (art. 253, comma 1, cod. proc. civ.);

   è vietato alle parti di interrogare direttamente i testimoni (art. 253, comma 2, cod. proc. civ.);

   i testimoni devono rispondere personalmente; non possono servirsi di scritti preparati, ma il giudice può consentire loro di valersi di note o di appunti, quando debbono fare riferimento a nomi o a cifre, o quando particolari circostanze lo consigliano (art. 253, comma 3, cod. proc. civ.);

   se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice, su istanza di parte o d’ufficio, può disporre che siano messi a confronto (art. 254 cod. proc. civ.);

   se il testimone regolarmente intimato non si presenta, il giudice può ordinare una nuova intimazione oppure disporne l'accompagnamento all'udienza stessa o ad altra successiva; con la medesima ordinanza, in caso di mancata comparizione senza giustificato motivo, può condannarlo ad una pena pecuniaria non inferiore a 100 euro e non superiore a 1.000 euro; in caso di ulteriore mancata comparizione senza giustificato motivo, il giudice dispone l’accompagnamento del testimone all’udienza stessa o ad altra successiva e lo condanna a una pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro  (art. 255, comma 1, cod. proc. civ.);

   se il testimone rifiuta di deporre senza giustificato motivo, o se vi è fondato sospetto che egli non abbia detto la verità o sia stato reticente, il giudice lo denuncia al pubblico ministero, al quale trasmette copia del processo verbale (art. 256 cod. proc. civ.).

 

31) Nel rito sommario può avere luogo la consulenza tecnica?

 

La necessità di nominare consulenti tecnici dovrebbe in linea generale determinare l’esigenza di un’istruzione non sommaria e, quindi, il passaggio al rito ordinario. Non può però escludersi in modo aprioristico che la consulenza tecnica si riveli necessaria nel corso del giudizio sommario o che la sua natura non sia incompatibile con la sommarietà dell’istruzione.

 

32) La sommarietà del rito è compatibile con i provvedimenti anticipatori?

 

Ci si è chiesto fin dall’inizio se la sommarietà dell’istruzione che caratterizza il procedimento speciale sia compatibile con l’adozione dei provvedimenti anticipatori della decisione previsti dagli articoli 186-bis, 186-ter e 186-quater del codice di rito.

Non pare possa sostenersi la compatibilità dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione di cui all’art. 186-quater.

Nel processo ordinario di cognizione il giudice istruttore, esaurita l’istruzione, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova; l’ordinanza è titolo esecutivo ed è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Se, dopo la pronuncia dell’ordinanza, il processo si estingue, l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. Lo stesso effetto si produce se la parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all’altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza.

È vero che, nel richiedere che per la pronunzia dell’ordinanza anticipatoria sia esaurita l’istruzione, il codificatore non fa riferimento ad un formale provvedimento di chiusura dell’attività istruttoria, ritenendosi sufficiente che abbia ritenuto chiusa la fase istruttoria, ma è altrettanto vero che il provvedimento anticipatorio è in specifico rapporto con la sentenza, dunque con un atto del rito ordinario inesistente nel primo grado del rito sommario di cognizione.

L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione è diretta ad assicurare una tutela immediata a favore di chi ha fornito la prova del diritto azionato e ad anticipare, anche con la previsione della liquidazione delle spese processuali, la conclusione del processo ordinario, senza costringere la parte che ha soddisfatto l’onere probatorio ad attendere l’eventuale rimessione al collegio e il necessario completamento dell’iter per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. Ma il potere attribuito al giudice del processo sommario di cognizione di omettere ogni formalità non necessaria al contraddittorio lo autorizza a regolare in modo diverso da quanto previsto dagli articoli 189 e 190 cod. proc. civ. le fasi processuali successive alla chiusura dell’istruzione e, dunque, nell’ipotesi in cui ritenga raggiunta la prova su tutta la domanda o su parte di essa, emettere subito l’ordinanza che definisce il primo grado del procedimento.

L’art. 186-bis cod. proc. civ. consente al giudice, su istanza di parte e fino al momento della precisazione delle conclusioni, di disporre il pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite. Se l’istanza è proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione. L’ordinanza costituisce titolo esecutivo, conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo ed è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili. Non vi è motivo per ritenere questo provvedimento incompatibile con il procedimento sommario di cognizione.

La sola contumacia della controparte non è sufficiente all’attore per ottenere l’ordinanza; il legislatore pretende che il giudice disponga di elementi di valutazione che gli permettano di convincersi che il credito vantato non sia stato contestato, almeno in parte. Il che non significa che il debito debba essere espressamente riconosciuto: la mancata contestazione può trarsi pure o dal rilievo che la stessa impostazione difensiva del convenuto presupponga la sussistenza del credito oppure dalla valutazione che la resistenza in giudizio della controparte è pretestuosa.

Il provvedimento ha un carattere certamente non decisorio, poiché non ne è precluso il successivo riesame; è, pertanto, riconducibile alla categoria dei provvedimenti condannatori a cognizione sommaria e ad effetto anticipatorio.

L’art. 186-ter cod. proc. civ. consente infine alla parte, in qualunque stato del processo, di chiedere al giudice di pronunciare, con ordinanza, ingiunzione di pagamento o di consegna.

La domanda può essere accolta solo se ricorrono i seguenti presupposti:

   prova scritta del diritto fatto valere;

   sussistenza di elementi atti a far presumere l’adempimento della controprestazione o l’avveramento della condizione, qualora il diritto fatto valere dipenda dall’una o dall’altra.

Anche questo provvedimento anticipatorio non presenta profili di incompatibilità con l’istruzione sommaria che caratterizza il procedimento speciale.

Il requisito della prova scritta deve essere valutato tenendo conto del comportamento di entrambe le parti. In assenza di prove acquisite nel processo, la situazione del debitore che contesta la fondatezza della pretesa creditoria attrice sarà, così, identica a quella in cui il creditore, a fronte delle contestazioni del debitore, non abbia allegato alcuna prova specifica: difetteranno, pertanto, le condizioni per concedere il provvedimento.

 

33) Che caratteristiche ha l’ordinanza che definisce il giudizio sommario?

 

L’art. 702-ter, quinto comma, cod. proc. civ. dispone che il giudice, esaurita l’istruttoria, provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande.

L’ordinanza è un provvedimento giudiziale tipico, emanato dal giudice nel corso di un processo; nel processo civile, deve essere sempre motivata e può essere pronunciata sia in udienza sia fuori udienza.

La scelta dell’ordinanza, in luogo della sentenza, risponde alla logica di una sommarietà volta alla deformalizzazione del processo.

L’ordinanza deve essere solo succintamente motivata. Se è pronunciata in udienza è inserita nel processo verbale; se è pronunciata fuori dell’udienza è scritta in calce al processo verbale oppure in foglio separato, munito della data e della sottoscrizione del giudice. Il cancelliere comunica alle parti soltanto l’ordinanza che sia stata pronunciata fuori dell’udienza; l’avviso può essere effettuato a mezzo telefax o a mezzo di posta elettronica nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi (a tal fine, il difensore ha l’onere di indicare nel primo scritto difensivo utile il numero di fax o l’indirizzo di posta elettronica presso cui dichiara di voler ricevere l’avviso).

Le ordinanze non rese in udienza, o comunque non inserite nel processo verbale, vengono ad esistenza, quali atti del processo, con il deposito in cancelleria, sicché l’eventuale anteriorità della loro redazione, ancorché risultante dalla data apposta dal giudice, è priva di autonoma rilevanza. Le ordinanze pronunciate in udienza e inserite nel processo verbale si reputano conosciute sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero dovuto intervenire e, quindi, non devono essere comunicate a queste ultime dal cancelliere.

Il riformatore del codice di rito non ha voluto ripetere, nell’introdurre l’art. 702-ter, la norma acceleratoria che l’art. 53, comma 2, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, ha aggiunto al primo comma dell’art. 429 cod. proc. civ., che obbliga il giudice del lavoro, tranne i casi di particolare complessità della controversia, a dare lettura in udienza dell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Eppure la sommarietà del rito e le finalità perseguite con la sua istituzione avrebbero dovuta suggerirne l’opportunità, oltretutto senza eccezioni, in quanto le controversie particolarmente complesse sono destinate al passaggio al rito ordinario e, dunque, non sarebbero state toccate da tale obbligo. Ciò non toglie che dell’ordinanza che definisce il primo grado del procedimento sommario di cognizione ben può essere data lettura in udienza e, anzi, che questa modalità di pubblicazione sarebbe auspicabile fosse adottata usualmente.

 

34) La discussione è orale o scritta?

 

La deformalizzazione del procedimento deve suggerire, almeno in linea generale, l’oralità della discussione, che ovviamente non impedirebbe che il difensore, nell’esporre verbalmente le ragioni della difesa, possa leggere uno scritto precedentemente redatto; questo scritto perderebbe la natura di «note di udienza», per divenire una sorta di appunto contenente i temi affrontati, che il giudice non potrebbe acquisire alla causa ma di cui potrebbe disporre, al pari di un testo di legge o di giurisprudenza o di dottrina richiamato nella discussione.

L’implicita propensione per la forma orale della discussione non impedisce al giudice, se lo ritenga necessario, di concedere un termine per il deposito di note difensive, rinviando la causa ad udienza successiva alla scadenza di tale termine per la discussione e/o l’adozione dell’ordinanza di accoglimento o rigetto delle domande ovvero riservandosi di pronunciare il provvedimento fuori udienza.

Dopo la sconfortante esperienza del processo del lavoro, in cui l’oralità avrebbe dovuto tendenzialmente contraddistinguere la fase decisoria, si deve auspicare che l’istituto delle note difensive sia considerato nel procedimento sommario di cognizione un’eccezione e non si trasformi, nella prassi giudiziaria, in regola.

Il rito sommario di cognizione non prevede espressamente la precisazione delle conclusioni, anche se nulla vieta che, applicando analogicamente l’art. 189 cod. proc. civ. il giudice consenta alle parti di precisarle; del resto nella prassi, sia in sede di discussione orale che nelle note autorizzate, è uso dei difensori ribadirle, richiamando quelle che devono essere state già compiutamente formulate negli atti introduttivi.

 

35) In che misura l’ordinanza dev’essere motivata?

 

L’ordinanza, contrariamente alla sentenza, non deve avere una motivazione analitica e dettagliata, purché essa dia conto delle ragioni di fatto della decisione, che possono anche essere desunte «per relationem» dal richiamo agli atti delle parti, ed evidenzi l’avvenuto esame degli eventuali rilievi difensivi formulati dalle stesse.

La «succinta» motivazione non può però tradursi in «inesistente» motivazione, altrimenti le già compresse garanzie della difesa finirebbero per venire meno del tutto. La mancanza del requisito essenziale della motivazione, che deve ritenersi configurabile non solo nei casi di ordinanza del tutto mancante di motivazione ma anche in quelli di motivazione apparente, perché priva dell’indicazione degli elementi che giustificano il convincimento del giudice e ne rendono possibile il controllo, ben potrà essere dedotta sotto il profilo della nullità del provvedimento.

Del resto l’ordinanza deve essere pur sempre idonea a definire un giudizio che resta a cognizione piena, non essendovi alcuna reciproca interdipendenza tra deformalizzazione del procedimento, atipicità dell’istruttoria, semplificazione della motivazione e sommarietà della cognizione. La semplificazione della motivazione, propria dell’ordinanza, deve restare strumentale all’esigenza di garantire una ragionevole durata del processo, nella salvaguardia, però, della sua compatibilità con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. La motivazione, anche nell’ordinanza, deve consistere nell’esposizione delle ragioni in fatto e in diritto della decisione e da essa debbono rilevarsi i convincimenti che hanno indotto il giudice ad assumere le sue determinazioni, affinché non si infranga l’art. 111, quinto comma Cost., il quale dispone che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

 

36) Il giudice è vincolato alle risultanze dell’istruttoria?

 

Il giudice è libero di individuare le fonti del proprio convincimento, senza necessità di specifici riferimenti alle singole risultanze processuali.

È suo dovere, tuttavia, indicare il contenuto delle fonti prescelte e dar conto del criterio che ha ispirato la scelta, per rendere possibile verificare se l’esame delle risultanze processuali sia stato effettuato con congrua considerazione degli elementi rilevanti, nonché controllare l’iter logico attraverso il quale è pervenuto alla decisione adottata.

La motivazione, allora, anche se non deve contenere la puntuale confutazione di ciascuno degli elementi contrari alla soluzione accolta e di tutte le difformi valutazioni delle parti, deve però far emergere che le risultanze probatorie sono state esaminate ed apprezzate, in modo che la decisione costituisca il risultato di una sintesi logica del complesso delle prove offerte dalle parti.

 

37) L’ordinanza dev’essere notificata?

 

La notificazione dell’ordinanza, quando richiesta al fine della decorrenza del termine per l’impugnazione previsto dall’art. 702-quater cod. proc. civ. perché essa non è stata letta in udienza né comunicata, si fa, su istanza di parte, a norma dell’art. 170 del codice e, dunque, personalmente alla parte restata contumace o al procuratore costituito se la parte si sia costituita in giudizio.

 

38) L’ordinanza è esecutiva? L’esecutività può essere sospesa?

 

Le ordinanze che definiscono il procedimento nel primo grado sono provvisoriamente esecutive e costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione.

Nel silenzio degli articoli 702-ter e 702-quater del codice, occorre chiedersi se il giudice dell’appello possa, su istanza di parte, sospendere l’efficacia esecutiva o l’esecuzione dell’ordinanza; se, cioè, sia analogicamente applicabile l’art. 283 cod. proc. civ.

La risposta deve essere affermativa, anche perché il processo d’appello è qui regolato dalle norme che lo disciplinano nel processo di ordinaria cognizione. Ovviamente dovranno sussistere i presupposti per l’accoglimento dell’istanza, vale a dire che essa sia proposta con l’impugnazione principale o incidentale e che ricorrano gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti.

La disposizione dell’art. 283 cod. proc. civ. stabilisce nel processo ordinario che l’istanza deve fondarsi sulla sussistenza di «gravi e fondati motivi»  e non del «gravissimo danno» richiesto, ad esempio, nel processo del lavoro dall’art. 431. È stato ben argomentato (Cass. 25 febbraio 2005, n. 4060) che la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 283, è rimessa ad una valutazione globale d’opportunità, consistendo i «gravi motivi», per un verso, nella delibazione sommaria della fondatezza dell’impugnazione e, per altro verso, nella valutazione del pregiudizio patrimoniale che il soccombente può subire, anche in relazione alla difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato, dall’esecuzione del provvedimento, la quale può essere inibita anche parzialmente, se i capi sono separati. Il potere discrezionale riconosciuto al giudice d’appello nel rito ordinario è, quindi, ben più ampio di quello riconosciuto al medesimo giudice nel rito del lavoro, con riferimento alla sentenza di primo grado favorevole al lavoratore.

L’ordinanza con la quale venga accolta l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza che ha definito il primo grado del procedimento sommario di cognizione ha carattere provvisorio e cautelare e, pertanto, non pregiudica in nessun caso la decisione definitiva sull’appello, fondata sulla piena cognizione di tutte le acquisizioni processuali, dalla quale è destinata ad essere assorbita, con la sua conseguente inidoneità ad incidere su diritti soggettivi con efficacia di giudicato.

 

39) Quando passa in giudicato l’ordinanza decisoria?

 

L’ordinanza che definisce il primo grado del procedimento sommario di cognizione produce gli effetti del giudicato di cui all’art. 2909 cod. civ. se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione.

La norma distingue in modo radicale l’ordinanza resa in questo procedimento speciale da quelle che definiscono i procedimenti cautelari disciplinati dal capo terzo dello stesso libro IV del codice di rito, dal momento che i provvedimenti cautelari, in quanto collegati da un nesso di strumentalità necessaria con il successivo giudizio di merito, sono inidonei ad acquistare autorità di cosa giudicata.

Il richiamo all’art. 2099 rende applicabili anche all’ordinanza che decide il giudizio sommario di primo grado i princìpi in tema di giudicato, ed anzitutto il principio secondo il quale, qualora due giudizi abbiano riferimento ad uno stesso rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con l’ordinanza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto, in ordine alla situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune fa stato. Non basta, però, l’identità soggettiva; occorre anche quella oggettiva tra il rapporto definito e quello da definire; pertanto, se del rapporto controverso mutano alcuni elementi, con conseguente venir meno dell’originaria «causa petendi», il pregresso giudicato cessa di operare.

Il disposto passaggio in giudicato dell’ordinanza in caso di mancato appello entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione, rende applicabile anche al procedimento sommario di cognizione la norma dettata dall’art. 327 cod. proc. civ., che preclude l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 dello stesso codice una volta decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza non notificata.

Con una profonda differenza: mentre i termini per l’impugnazione della sentenza che definisce il procedimento ordinario di cognizione decorrono esclusivamente dalla notificazione del provvedimento, e non anche dalla sua comunicazione, i termini per impugnare l’ordinanza che definisce il procedimento sommario di cognizione decorrono non soltanto dalla sua notificazione ma pure dalla sua comunicazione. In altre parole: mentre la comunicazione del deposito della sentenza non fa decorrere i termini per l’appello, dal quale la parte decade soltanto dopo il decorso di sei mesi dalla pubblicazione, la comunicazione dell’ordinanza determina dopo trenta giorni, in ipotesi di mancata impugnazione, il passaggio in giudicato del provvedimento.

La decadenza dall’impugnazione non si verifica nella sola ipotesi in cui la parte contumace dimostri di non avere avuto conoscenza del processo per nullità del ricorso o della sua notificazione e per nullità della notificazione dell’ordinanza che ne aveva ammesso l’interrogatorio formale o il giuramento.

 

40) Come si propone l’appello avverso l’ordinanza che definisce il rito sommario?

 

L’appello si propone avanti alla corte d’appello nella cui circoscrizione ha sede il tribunale che ha pronunciato l’ordinanza, con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione,  nonché le indicazioni prescritte nell'art. 163, vale a dire:

   indicazione della corte davanti alla quale la domanda è proposta;

   nome, cognome e residenza dell’appellante;

   nome, cognome, residenza o domicilio o dimora dell’appellato e della persone che lo rappresenta o assiste (domicilio eletto, in caso di appellato costituito nel primo grado del giudizio);

   determinazione della cosa oggetto della domanda;

   esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, vale a dire dei fatti e dei motivi specifici dell'impugnazione, con le relative conclusioni;

   indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’appellante intende valersi e, in particolare, dei documenti che offre in comunicazione;

   nome e cognome del procuratore e indicazione della procura;

   indicazione del giorno dell’udienza di comparizione;

   invito all’appellato a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata (dieci giorni, in caso di abbreviazione dei termini) e a comparire, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di legge.

 

41) L’appello nel rito sommario ha effetto pienamente devolutivo?

 

L’appello ha effetto pienamente devolutivo ed il riesame deve essere contenuto nei limiti segnati dai motivi di impugnazione. L’esigenza della specificazione dei motivi d’appello, pur non dovendo essere intesa nel senso rigoroso di una completa e minuziosa esposizione delle ragioni dedotte a sostegno dell’impugnazione, richiede che l’appellante, pena l’inammissibilità del mezzo di impugnazione, formuli almeno una censura dell’ordinanza, non potendosi ritenere sufficiente la generica richiesta della sua riforma.

La determinazione del contenuto dell’atto introduttivo deve fondarsi sul principio basilare che il diritto di impugnazione si consuma con l’atto d’appello, il quale fissa i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame.

 

42) In appello si possono formulare nuove domande ed eccezioni?

 

Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono, tuttavia, domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati, nonché il risarcimento dei danni sofferti, dopo l’ordinanza impugnata.

Il divieto risponde all’esigenza di garantire il doppio grado di giurisdizione, che non sarebbe assicurato se fosse consentito di proporre domande che non fossero state proposte nel primo grado o ampliare la decisione richiesta al giudice del primo grado, assicurando così che il contraddittorio non sia alterato in danno della parte nei cui confronti vengano proposte le nuove domande.

Una volta fissato nell’atto d’appello il tema processuale, è pertanto precluso all’appellante di ampliarlo nel corso del giudizio, così come alla corte d’appello resta preclusa l’indagine sulle statuizioni di primo grado per le quali, in quanto non investite da specifico motivo di gravame, si è verificata la formazione del giudicato formale. La preclusione, peraltro, non comprende anche le questioni che, pur non specificatamente prospettate, costituiscano un antecedente logico e giuridico di quelle espressamente dedotte nei motivi di impugnazione. Il divieto non si estende alle nuove argomentazioni difensive. La possibilità di introdurle è legata, però, alla circostanza che, in primo grado, la parte abbia mosso contestazioni in relazione al punto sul quale le successive deduzioni si innestano; la possibilità va pertanto esclusa quando la parte stessa abbia aderito alle avverse richieste, chiudendo in quella sede ogni dibattito sul punto.

 

43) Possono ammettersi in appello nuovi mezzi di prova?

 

La normativa generale sul rito ordinario stabilisce che non possono ammettersi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga «indispensabili» ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Ad eccezione del giuramento decisorio, sempre deferibile.

L’unica eccezione che caratterizza il secondo grado del procedimento speciale rispetto al procedimento di appello nel processo ordinario riguarda proprio l’inammissibilità di nuovi mezzi di prova. Il secondo periodo dell’art. 702-quater del codice di rito rende, infatti, ammissibili nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritenga «rilevanti» ai fini della decisione.

I differenti attributi («indispensabili» e «rilevanti») rendono, com’è evidente, assai meno rigoroso il divieto di nuove prove nel procedimento d’appello dell’ordinanza che definisce il primo grado del processo sommario di cognizione rispetto all’analogo divieto che impronta il secondo grado del giudizio ordinario di cognizione. La ragione di questo affievolimento del divieto, che finisce col lasciare alla corte d’appello un ampio margine di discrezionalità nell’istruire la causa, sta proprio nella sommarietà e atipicità che caratterizza il primo grado del giudizio, volto alla celerità dell’indagine istruttoria, che potrebbe collidere con la sua completezza.

Sarebbe esagerato affermare che nel giudizio d’appello si istruisce nuovamente la causa, ma senza dubbio questo grado è destinato a mondarla dalle pecche che il procedimento sommario reca in sé, ordinato, com’è, a sacrificare al contenimento della sua durata l’approfondimento dei fatti e delle ragioni, a sacrificare alla rapidità e concentrazione del processo la compiutezza della risposta alla domanda di giustizia.

Le nuove prove, però, devono apparire pur sempre rilevanti ai fini del decidere, in quanto la loro ammissione deve restare compatibile con l’unità e l’infrazionabilità della prova, che non consente la riproposizione in appello di una prova già esaurita o la deduzione di una prova diretta a completare, modificare o contraddire quella già esaurientemente espletata in primo grado. Ma l’inammissibilità, riguardata alla luce della sommarietà del rito nel primo grado, non deve risolversi nella compressione, altrimenti intollerabile, dell’esercizio del diritto di azione e di difesa. Resta ferma, peraltro, ad arginare la discrezionalità del giudice d’appello di «riaprire» l’istruttoria, la possibilità di controllo in sede di legittimità circa l’apprezzamento compiuto dalla corte di merito, sia pure esclusivamente sotto il profilo della congruità della motivazione della decisione del gravame. Il giudizio di rilevanza della prova nuova in appello implica, in altri termini, la valutazione sull’attitudine della stessa a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi.

È quindi consentito, in sede di gravame, ciò che sarebbe vietato nel processo ordinario, vale a dire di sopperire alle lacune di una prova già ammessa ed espletata in primo grado, mediante deduzione di ulteriori mezzi istruttori aventi il medesimo oggetto di quella; ma resta pur sempre precluso, come nel rito ordinario, alla parte restata contumace in primo grado di dedurre in appello prove che tendano a rinnovare quella già esperita in primo grado o a contraddire i risultati di essa, in quanto ciò avrebbe dovuto formare oggetto di prova contraria. La parte può chiedere l’ammissione di prove nuove e pure riproporre istanze istruttorie espressamente o implicitamente disattese dal giudice di primo grado a motivo della sommarietà del rito, ma non quelle rigettate motivatamente senza censurare, con specifico motivo di gravame, le ragioni per le quali l’istanza di ammissione è stata respinta o dolersi dell’omessa pronuncia al riguardo.

L’ammissibilità della prova nuova, insomma, si identifica nella rilevanza dei fatti dedotti a prova, che ovviamente è condizione dell’ammissibilità di ogni mezzo istruttorio, ma non pretende la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse avuto l’onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale ordinaria

 

44) Come avviene la costituzione in appello delle parti nel rito sommario?

 

La costituzione in appello deve avvenire anche nel procedimento sommario di cognizione secondo le forme e i termini per i procedimenti ordinari davanti al tribunale e, dunque, ai sensi dell’art. 165 cod. proc. civ. per l’appellante e dell’art. 166 per l’appellato.

 

45) Come avviene la correzione dei provvedimenti nel rito ordinario?

 

L’art. 287 cod. proc. civ. stabilisce che le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello e le ordinanze non revocabili possono essere corrette, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate, qualora egli sia incorso in omissioni o in errori materiali o di calcolo. La norma deve applicarsi analogicamente anche all’ordinanza che definisce in primo grado il procedimento sommario di cognizione.

La procedura di correzione degli errori materiali non è più esperibile quando avverso l’ordinanza sia già stato proposto appello, giacché in tal caso l’impugnazione assorbe ogni correzione di errori in cui sia incorso il primo giudice, rientrando quest’ultima nei compiti di revisione conferiti al giudice del gravame.

 

 

Emanuele Montemarano

 

Componente della Commissione Diritto Civile

 e Procedura Civile  dell’Ordine degli Avvocati di Roma

 

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