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LA LEGITTIMAZIONE ATTIVA E PASSIVA DELL’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO

 

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a cura dell’Avv. Salvatore Vitale

 

            Nel trattare la legittimazione attiva e passiva dell’amministratore di condominio, il riferimento normativo principale è rappresentato dall’art. 1131 c.c., il quale delinea i confini della rappresentanza dell’amministratore, che differiscono a seconda che si tratti di rappresentanza attiva o passiva. Difatti, in tema di controversie condominiali, la legittimazione dell'amministratore del condominio dal lato attivo non pone particolari problemi, coincidendo con i limiti delle sue attribuzioni, salvi i maggiori poteri conferiti dal regolamento condominiale o dall’assemblea, mentre dal lato passivo vi sono opinioni contrastanti, che andremo più avanti ad analizzare.

             Per quanto riguarda l'approccio della giurisprudenza relativo alla legittimazione attiva, va considerata, in primo luogo, l'esistenza di casi in cui l'amministratore risulta autonomamente legittimato ex art. 1131 c.c., comma 1. Si tratta di una rappresentanza di diritto, che permette all'amministratore di agire in giudizio senza la necessità di alcuna autorizzazione assembleare solo nell'ambito delle attribuzioni conferitigli dalla legge – e propriamente dall'art. 1130 c.c. -, al di fuori delle ipotesi di maggiori poteri attribuiti dal regolamento condominiale o dalla stessa assemblea, sia contro i condomini sia contro i terzi, a tutela di un interesse comune. Questo significa che, in linea generale, l'amministratore può esercitare i poteri di rappresentanza, in sede processuale, quando si tratta di controversie concernenti l'amministrazione ordinaria e, per quanto attiene specificamente ai lavori relativi alle parti comuni, rientranti nel contesto della manutenzione ordinaria, dunque sia per l’esecuzione delle delibere dell’assemblea, sia per garantire l’osservanza del regolamento condominiale e tutelare conseguentemente la condominialità dagli effetti lesivi dello stesso, sia per compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, sia per riscuotere dai condomini inadempienti il pagamento dei contribuiti, determinati in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea.

            Per il resto la legittimazione attiva deve essere necessariamente sorretta da apposita investitura, deliberata dall’assemblea condominiale.

            Per la tutela dei diritti esclusivi, la rappresentanza da parte dell'amministratore può trovare fondamento soltanto nel mandato conferitogli da ciascuno dei partecipanti alla comunione e non nel meccanismo deliberativo dell'assemblea condominiale, ad eccezione dell'equivalente ipotesi dell'unanime deliberazione di tutti i condomini e della correlativa sottoscrizione da parte di essi, non potendo l'assemblea deliberare in tema di diritti esclusivi dei singoli condomini, che restano sempre nell'esclusiva disponibilità dei titolari (si cfr. CC 13.3.07 n. 5862). Il conferimento di un apposito mandato da parte dei singoli condomini è del pari indispensabile per consentire all'amministratore di agire per il risarcimento del danno derivante dalla violazione di diritti di titolarità esclusiva dei singoli, ciò mediante atti distinti o mediante deliberazione unanime dell'assemblea, giacché i maggiori poteri conferibili all'amministratore con il sistema delle delibere maggioritarie, ai sensi del comma 1 dell'art. 1131 c.c., possono solo ampliare, sempre però nell'ambito della sfera della realizzazione dell'interesse comune, le ordinarie attribuzioni dell'amministratore ( CC 27.4.81 n. 2523).

Poiché il rapporto di condominio non determina l’esistenza di un ente giuridico con personalità distinta da quella dei condomini, ma dà solo luogo a un ente di gestione, che opera in rappresentanza e nell’interesse comune dei partecipanti e limitatamente all’amministrazione e al buon uso della cosa comune, senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino, i singoli condomini, pur in presenza dell’organo rappresentativo unitario, non sono privati del potere di agire a difesa dei diritti esclusivi e comuni, inerenti all’immobile condominiale, né, conseguentemente, di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata già legittimamente assunta dall’amministratore o di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore medesimo (CC 9.6.00 n. 7891; CC 25.5. 01 n. 7130).

Tuttavia, recentemente, la Corte di Cassazione, Sezione 3^, nella sentenza del 20 febbraio 2009 n. 4245, sembra essersi posta in apparente contrasto con il suo orientamento al riguardo: è stato rilevato che, nell’ipotesi specifica della stipulazione di una polizza da parte del condominio in persona dell’amministratore, ciascun condomino non può sostituirsi all’amministratore stesso e agire contro l’assicuratore per il recupero delle spese sostenute per il ripristino delle parti comuni in quanto la rappresentanza spetta comunque all’amministratore e il singolo condominio non può considerarsi singolarmente legittimato a rappresentare l’ente di gestione, contraente della polizza nell’interesse di tutti i partecipanti al condominio.

            Nel caso di una controversia non rientrante tra quelle che l'amministratore può autonomamente proporre, ai sensi del comma 1 dell’art. 1131 c.c., rimane comunque la possibilità di conferire il potere di stare in giudizio in un momento successivo, ossia, con effetto sanante, dopo la proposizione dell'azione. Ad esempio l'attività processuale svolta dall'amministratore non investito di potere è sanata per effetto della ratifica costituita dall'appello proposto da tutti i condomini contro la sentenza sfavorevole pronunciata nei confronti dell'amministratore, ancorché lo stesso abbia agito come rappresentante del condominio e non dei singoli condomini, posto che l'amministratore del condominio è il rappresentante di una collettività di persone fisiche individuate dal loro rapporto di proprietà con un determinato edificio, sicché sussiste la contemplatio domini nei loro riguardi quali condomini ancorché non indicati.          Non avendo l'art. 1131 c.c. carattere esclusivo, l’assemblea dei condomini può conferire la propria rappresentanza processuale anche a persona diversa dall’amministratore, in quanto tra i poteri di gestione della cosa comune riservati all’assemblea nella comproprietà edilizia, deve ritenersi compreso quello di conferire la procura a rappresentare in giudizio il condominio, a singoli partecipanti o a terzi (CC 10.09.80 n. 5220, FI, 1981, I, 1680, con nota contraria di BRANCA, Amministratore e rappresentanza del condominio, secondo cui la norma attributiva della rappresentanza non è stata scritta nel solo interesse del condominio ma anche in quello di terzi). L’assemblea potrebbe sottrarre all’amministratore una parte della gestione prevista dall’art. 1130 c.c. e su questa parte attribuire la rappresentanza ad un altro, affiancando all’amministratore in carica un altro amministratore, ma non attribuire ad un terzo poteri che sono nella competenza di chi amministra abitualmente il condominio). 

 

CASI CONCRETI SULLA LEGITTIMAZIONE ATTIVA

Non risulta legittimato, senza apposita autorizzazione, all’esperimento di azioni reali contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità o al contenuto di diritti su cose e parti dell'edificio, a meno che non rientrino nel novero degli atti meramente conservativi (Nella specie, la S. C. ha cassato senza rinvio la sentenza che aveva riconosciuto tale legittimazione in relazione all'azione proposta nei confronti di uno dei comproprietari che aveva aperto accessi nel cortile comune ai fini della rimessa di autovetture, in quanto tale azione, secondo la S.C., avrebbe inciso sulla condizione di un bene comune sottoposto a servitù) ( CC 6.2.09 n. 3044 ).

            Tra gli atti conservativi di competenza dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1130 c.c. n. 4, rientra l’azione prevista dall’art. 1669 c.c. che può essere proposta nei confronti dell’appaltatore per il caso di rovina dell’edificio o di gravi difetti di costruzione che ne mettano in pericolo la stabilità, non invece le azioni di garanzia per i vizi della cosa venduta o dell’opera appaltata, le quali, ponendo in contestazione l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto di compravendita o da quello di appalto, possono essere esercitate soltanto dagli acquirenti delle singole unità immobiliari ovvero dal committente ( CC 11.11.86 N. 6585).

Inoltre, l’amministratore è legittimato ad agire per il rilascio dell’alloggio detenuto senza titolo dal portiere licenziato ovvero per il rilascio da parte del coniuge del portiere deceduto che detenga l’immobile senza titolo ( CC 26.6.91 n. 7162 ).

            Può anche proporre domanda tendente a ottenere la cessazione della violazione di prescrizioni del regolamento condominiale, come nel caso di installazione di una friggitoria, contro il divieto del regolamento con propagazione di odori molesti per scale, androni e cortili ( CC 8.4.83 n. 2499) o di inosservanza degli orari stabiliti per lo scuotimento dalle finestre di tovaglie e battitura dei tappeti, avendo anche la facoltà di irrogare sanzioni pecuniarie, qualora ciò sia previsto dal regolamento ai sensi dell’art. 70 disp. att. c.c. (CC 26.6.06 N. 14735).

La legittimazione ad agire per l’accertamento del vincolo di destinazione a parcheggio di appositi spazi in edificio di nuova costruzione, ai sensi dell’art. 41 sexies l. 17.8. 1942, n. 1150, spetta non già all’amministratore del condominio, ma ai singoli compratori delle varie unità immobiliari dello stabile, in base ai rispettivi titoli di acquisto, trattandosi di diritti spettanti non alla collettività condominiale, ma separatamente a ciascuno dei predetti compratori (CC 11. 2. 09 n. 3393).

Esulando dalle normali attribuzioni dell’amministratore, ai fini dell’esperibilità dell’actio negatoria servitutis, occorre l’autorizzazione dell’assemblea o il mandato espresso dei singoli condomini, vertendosi in tema di azione a carattere reale, con finalità non meramente conservative.

L’amministratore del condominio non è legittimato ad agire in giudizio, ai sensi dell’art. 1131 comma 1 c.c., a tutela delle parti comuni ai vari edifici che nel loro insieme, costituiscono il c.d. supercondominio. Infatti, nelle ipotesi in cui un bene comune sia al servizio di più edifici condominiali, la gestione di detto bene deve essere attribuita dai comunisti ad un apposito amministratore e non può essere rimessa agli amministratori dei singoli condomini i quali possono esercitare i poteri previsti dalla legge soltanto con riferimento all’edificio cui sono preposti ( T Torino 2.4.08 n. 2454, MER, 2008, 11, 29 )

Relativamente alla legittimazione passiva, invece, sussistono orientamenti contrastanti sia a livello dottrinale, sia giurisprudenziale.

Come è noto il codice civile del 1865 non dedicava alcuna norma espressa né all’amministrazione dei condomini di edifici, né alla legittimazione dell’amministratore. Fu soltanto il D.L. 15 gennaio 1934, n. 56, art. 20, commi secondo e ss., a dettare una disciplina in materia, stabilendo che l’amministratore può “essere convenuto in giudizio per qualsiasi oggetto” e “ Qualora la citazione … abbia un contenuto che esorbiti dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini, la quale delibera se resistere nel giudizio o conciliare la vertenza”. La disciplina di cui al D.L. n. 56 del 1934, art. 20, fu trasfusa negli art. 320 e 321 del progetto preliminare del libro della proprietà e, quindi, nel testo definitivo degli artt. 1131 e 1132 c.c., ma con alcune modifiche, nel senso che l’amministratore può essere convenuto in giudizio “ per qualunque azione concernente le parti comuni” e “Qualora la citazione … abbia un contenuto esorbitante dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini”. La relazione del Ministro Guardasigilli al Re, mentre giustifica la prima modifica ( affermando “ nel riprodurre le disposizioni del R.D. L. 15 gennaio 1934, art. 20, circa la rappresentanza dei condomini ho sostituito, alla formula del 2 comma, una formula che amplia l’ambito della rappresentanza conferita all’amministratore nelle liti promosse contro i partecipanti. La rappresentanza passiva è infatti estesa a qualunque azione proposta contro i condomini e pertanto anche alle azioni di carattere reale, purchè si riferiscano alle parti comuni dell’edificio”), nulla dice in ordine alla seconda modifica, lasciando incerta la giustificazione: l’intenzione di eliminare l’intervento deliberativo dell’assemblea di condominio, ovvero l’inutilità di ribadire la necessità, fino allora pacifica, di una delibera dell’assemblea in ordine alla resistenza o meno nel giudizio.

Per quanto concerne la dottrina, l'indirizzo maggioritario sostiene che non vi siano limiti, in quanto si ritiene possibile una rappresentanza passiva generale in ordine ad ogni azione, anche di carattere reale o possessorio, concernente le parti comuni dell'edificio. In tale contesto l'amministratore ha la facoltà di resistere in giudizio e proporre tutti i gravami che successivamente si rendano necessari in conseguenza della vocatio in ius, senza la necessità di alcuna autorizzazione, in quanto ritenuto rappresentante ex lege del condominio nelle liti contro quest'ultimo proposte da un condomino o da un terzo. L'orientamento dottrinale minoritario, invece, considera l'amministratore come semplice mandatario del condominio, per cui non può resistere in giudizio per conto del mandante senza l'autorizzazione. Diversamente il condominio sarebbe esposto al rischio di vedersi coinvolto, suo malgrado, in liti giudiziarie resistite avventurosamente dall’amministratore, il quale non può, con la propria scelta, imporre ai condomini una linea di condotta da costoro non condivisa.

Recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affrontato nuovamente, con le due sentenze gemelle del 6 agosto 2010 n. 18331 e n. 18332, la questione se l'amministratore condominiale, per resistere alla lite proposta nei confronti del condominio, ovvero per impugnare la sentenza a questo sfavorevole, debba o meno essere autorizzato dall'assemblea. La stessa viene trattata con riferimento, nel primo caso, al mancato rilascio, da parte del condominio, ad una società (proprietaria di un appartamento ivi ricompreso), di un'autorizzazione relativa al distacco dall'impianto di riscaldamento centrale, in applicazione della clausola del regolamento condominiale che lo vietava. Nel secondo caso, invece, il problema relativo alla necessità di un’apposita investitura viene preso in considerazione rispetto al caso di infiltrazioni d'acqua, verificatesi in appartamento sito all'ultimo piano di un edificio condominiale, per il quale venivano convenuti in giudizio sia il condominio, sia la società proprietaria del lastrico solare dal quale erano provenute le infiltrazioni, per la condanna all'esecuzione delle opere dirette all'eliminazione delle infiltrazioni e al risarcimento del danno. Essendo stato rilevato, in entrambe le situazioni, un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione, i casi vengono rimessi alle Sezioni Unite.

Nelle due sentenze la Cassazione a Sezioni Unite rileva l'esistenza nella giurisprudenza di legittimità di due diversi orientamenti. Secondo l'impostazione maggioritaria, l'amministratore può costituirsi nel giudizio promosso nei confronti del condominio e può impugnare la sentenza sfavorevole al condominio anche se a tanto non autorizzato dall'assemblea condominiale. Ciò significa che la rappresentanza processuale passiva generale non incontra limiti, posto che l'art. 1131 c.c. comma 2, prevedendo che l'amministratore “può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio”, deve essere interpretato nel senso che l'amministratore non necessita di alcuna autorizzazione per resistere in giudizio e per proporre le impugnazioni necessarie, compreso il ricorso per cassazione, in relazione al quale è legittimato a conferire procura speciale all'avvocato iscritto nell'apposito albo speciale. Ovviamente rimane, ai sensi dell'art. 1131 c.c. comma 3, l'obbligo, di mera rilevanza interna, di darne senza indugio notizia all'assemblea, sanzionabile con la possibile revoca del mandato e con il risarcimento del danno. Si ritiene, dunque, che non sussiste alcuna distinzione tra la capacità dell'amministratore di essere convenuto e quella di costituirsi nel giudizio che riguardi una materia non ricompresa nelle sue attribuzioni.

 Secondo, invece, l'indirizzo minoritario, in assenza di tale deliberazione assembleare, l'amministratore è privo di legittimazione a costituirsi e ad impugnare, fondando l'assunto sul fatto che la ratio dell'art. 1131 c. c. comma 2 è quella di favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli di poter notificare la citazione al solo amministratore anziché a tutti i condomini. Nulla, invece, giustifica la possibilità di resistere e impugnare senza autorizzazione dell'assemblea. Inoltre, poiché l'autorizzazione a resistere in giudizio è in sostanza un mandato all'amministratore a conferire la procura “ ad litem ” al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, l'amministratore finirebbe per svolgere la funzione di mero nuncius e tale autorizzazione non potrebbe non valere che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata. Pertanto, l'amministratore deve munirsi di autorizzazione per resistere in giudizio, visto che la rappresentanza passiva riguarda solo la notificazione degli atti e non la gestione della controversia e inoltre la concessa autorizzazione non lo legittima ad impugnare, spettando tale legittimazione solo all'assemblea (sarebbe inammissibile il ricorso per cassazione proposto dall'amministratore, avverso sentenza sfavorevole al condominio, senza espressa deliberazione assembleare).

La Cassazione a Sezioni Unite sposa senza dubbio la tesi minoritaria. Viene sostenuto, infatti, che, l'amministratore non deve essere considerato come organo necessario, in quanto occorre nominarlo solo quando il numero di condomini è superiore a quattro. Ne consegue che, in materia di condominio negli edifici, l'organo principale, depositario del potere decisionale, è l'assemblea dei condomini, ricalcando l'impostazione in materia di comunione in generale. Poiché la principale funzione dell'amministratore è quella di eseguire le deliberazioni dell'assemblea dei condomini, appare evidente, secondo la Corte, che l'essenza delle competenze è imprescindibilmente legata al potere decisionale dell'assemblea: il ruolo dell'amministratore è quello di mero esecutore materiale delle deliberazioni, non spettando a lui decidere in materia di amministrazione del condominio. Difatti, anche il potere di rappresentanza dei condomini e di azione in giudizio, essendo conferiti nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'art. 1130 c.c. o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento condominiale o dall'assemblea, risultano legati alle deliberazioni dell'assemblea, proprio a voler sottolineare la derivazione e subordinazione degli stessi alle decisioni dell'organo assembleare.

Non si possono, secondo la Corte, attribuire all'amministratore autonomi poteri, il potere decisionale spettando solo all'assemblea che dovrà deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulti soccombente. Se tale potere spettasse all'amministratore potrebbe far incorrere il condominio nel pagamento delle spese processuali, senza aver in alcun modo assunto decisioni relative al procedimento. Inoltre, tale soluzione contrasterebbe anche con il diritto dei condomini di dissentire rispetto alle liti, in quanto la mancata convocazione dell'assemblea per l'autorizzazione o per la ratifica dell'operato dell'amministratore, renderebbe impossibile l'esercizio del diritto al dissenso alla lite riconosciuto ai condomini.

Tuttavia questa impostazione va raccordata con la legittimazione passiva generale attribuita all'amministratore dall'art. 1131 c.c. comma 2, che rappresenta il mezzo procedimentale per il bilanciamento tra l'esigenza di agevolare i terzi e la necessità di tempestiva e urgente difesa, onde evitare decadenze e preclusioni, dei diritti inerenti le parti comuni dell'edificio. Pertanto, la Corte ritiene che, alla luce delle considerazioni svolte rispetto all'art. 1131 c.c. commi 2 e 3, l'amministratore convenuto può anche costituirsi autonomamente in giudizio ovvero impugnare la sentenza sfavorevole, nel quadro generale di tutela, in via d'urgenza, di quell'interesse comune che integra la ratio della figura di amministratore di condominio e della legittimazione passiva generale, ma il suo operato deve essere ratificato dall'assemblea.

La ratifica, sanando ex tunc l'attività dell'amministratore, permette sia di paralizzare l'eventuale eccezione di inammissibilità della costituzione in giudizio o dell'impugnazione, sia al giudice di ottemperare al rilievo ufficioso della fissazione di un termine, ex art. 182 c.p.c., per l'amministratore entro cui provvedere. Riteniamo che la stessa eccezione di inammissibilità vada proposta nella comparsa di risposta, da depositare con la costituzione in giudizio almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione, anche se ciò non toglie che il giudice possa ricorrere al potere ufficioso ex art. 182 c.p.c, secondo comma, in base al quale quando viene rilevato “un difetto di autorizzazione … il giudice assegna un termine perentorio … per il rilascio delle necessarie autorizzazioni ...  L’osservanza del termine sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”.

Nei casi specifici trattati dalla Corte a Sezioni Unite, nelle due sentenze, il ricorso per cassazione dell'amministratore è stato dichiarato inammissibile, in quanto proposto senza autorizzazione e senza successiva ratifica.

Singolare la posizione assunta dalla seconda sezione della Cassazione successivamente, nella sentenza del 10 novembre 2010, n. 22886, la quale si discosta dall’orientamento delle Sezioni Unite, probabilmente inconsapevolmente, rilevando che “la legittimazione dell’amministratore di condominio dal lato passivo, ai sensi dell’art. 1131 c.c., seconda comma, non incontra limiti e sussiste, anche in ordine all’interposizione d’ogni mezzo di gravame che si renda eventualmente necessario, in relazione ad ogni tipo d’azione, anche reale e possessoria, promossa nei confronti del condominio da terzi o da un singolo condomino (trovando un tanto ragione nell’esigenza di facilitare l’evocazione in giudizio del condominio, quale ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini) in ordine alle parti comuni dello stabile condominiale”.

Addirittura la 2^ Sezione della Corte di Cassazione indica tale indirizzo come univoco e nega l’esistenza di un contrasto giurisdizionale.

 

CASI CONCRETI LEGITTIMAZIONE PASSIVA

L'amministratore convenuto in un giudizio, avente ad oggetto parti in comune dell'edificio, può proporre domanda riconvenzionale solo se munito di specifico mandato, non essendo sufficiente il potere, conferitogli dal comma 2 dell'art. 1131 c.c. per resistere alla domanda della controparte.

Inoltre, quando si tratta di attività rientranti nell’ambito della straordinaria amministrazione, occorre una specifica autorizzazione da parte del condominio, in quanto, diversamente, il contratto concluso dall’amministratore ( ad esempio contratto di appalto) con un soggetto terzo non è idoneo ad impegnare il condominio. Difatti, non essendo considerato ente giuridico con personalità distinta da quella dei condomini, ma piuttosto ente di gestione, non può sussistere né alcun rapporto organico tra lo stesso e l’amministratore, né tanto meno risulta applicabile il principio di apparenza del diritto difettando, nei rapporti fra condominio e i singoli partecipanti ad esso, le condizioni per l’operatività del principio stesso, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede, ed essendo, d’altra parte, il collegamento della legittimazione passiva all’effettiva titolarità della proprietà, funzionale al rafforzamento e al soddisfacimento del credito della gestione condominiale.

La giurisprudenza ha esaminato il caso in cui il creditore che ha concluso un contratto, che prevede opere di straordinaria manutenzione, direttamente con l’amministratore non autorizzato in quanto esulante le proprie attribuzioni, abbia agito, per l’adempimento contrattuale, con procedura monitoria nei confronti del condominio apparente committente. Si è discusso se il creditore opposto, nel giudizio di opposizione nel quale l’opponente abbia eccepito la mancanza di delibera autorizzativa alla stipula del contratto, possa proporre domanda di ingiustificato arricchimento, quale domanda riconvenzionale subordinata, in considerazione della sua posizione sostanziale di attore e non di convenuto. Al riguardo, in precedenza, gli orientamenti giurisprudenziali erano sostanzialmente due: il primo indirizzo ritiene la domanda ex art. 2041 c.c. diversa da quella di adempimento contrattuale, perché fondata su fatti costitutivi distinti e idonei ad individuare diritti eterodeterminati, avendo sempre diversi petitum e causa petendi. Essendo le due azioni - di pagamento e di indebito arricchimento – caratterizzate da elementi costitutivi diversi, sarebbero ravvisabili gli estremi della mutatio libelli. Inoltre, poiché la domanda di ingiustificato arricchimento viene valutata come domanda nuova, ai sensi dell’art. 184 e 345 c.p.c., risulterebbe inammissibile la proposizione della stessa, da parte dell’opposto, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, facendosi soltanto salva la reconventio reconventionis, perché in questo caso l’opposto viene a trovarsi nella posizione processuale del convenuto. Invece, il secondo orientamento considera la domanda di ingiustificato arricchimento, senza immutazione o alterazione del fatto costitutivo del diritto dedotto in giudizio, come ipotesi di emendatio libelli e come tale estranea al divieto di cui all’art. 183 c.p.c. Questo filone è connotato da due varianti argomentative: la prima valorizza la natura del procedimento in cui la domanda è inserita, ovvero quello di opposizione a decreto ingiuntivo, il quale sarebbe proprio finalizzato ad esaminare la fondatezza della domanda del creditore, in base a tutti gli elementi offerti dallo stesso e contrastati dall’ingiunto; la seconda, quella maggiormente seguita, esalta il fatto che nel giudizio siano già presenti tutti gli elementi costitutivi dell’azione di indebito arricchimento, considerata come quindi una diversa qualificazione dei fatti già introdotti.

Sulla questione si è pronunciata recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nella sentenza del 27 dicembre 2010, n. 26128, la quale, considerando insoddisfacenti le argomentazioni degli indirizzi giurisprudenziali precedenti, ritiene possibile la proposizione della domanda di ingiustificato arricchimento soltanto se tale esigenza nasce dalle difese dell’ingiunto – opponente, contenute nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, e purchè la relativa domanda sia proposta, a pena di inammissibilità rilevabile d’ufficio, nella comparsa di costituzione e risposta della parte opposta con costituzione avvenuta 20 giorni prima dell’udienza di 1^ comparizione. Una volta rilevato che la domanda di ingiustificato arricchimento rappresenta una nuova domanda, diversa rispetto a quella di adempimento contrattuale, e che il creditore opposto, in quanto attore sostanziale, non potrebbe avanzare domande diverse da quelle fatte valere con l’ingiunzione, viene osservato che, in realtà, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., 2 comma, al giudizio di opposizione sono applicabili le norme del procedimento ordinario. Di conseguenza, occorre osservare anche quanto previsto dall’art. 183 c.p.c. comma 5, il quale autorizza “ l’attore a proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto…”. Si tratta del c.d. ius variandi, ossia del potere riconosciuto all’attore, solo, però, se giustificato dalle attività difensive svolte dal convenuto, di proporre domande nuove (c.d. reconventio reconventionis), e/o di chiamare in causa terzi, nonché di sollevare eccezioni in senso stretto riferite alla domanda riconvenzionale proposta dal convenuto. Applicando lo schema descritto al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, è stato rilevato dalla Cassazione che qualora l’opponente introduca nel procedimento, non una domanda riconvenzionale, ma solo un ulteriore tema di indagine, quale quello che può giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa, nasce per l’opposto l’esigenza di interloquire sul punto. Pertanto, in questo caso, l’opposto può proporre la domanda di arricchimento senza causa, diversa da quella introdotta con l’ingiunzione, ma non può parlarsi di reconventio reconventionis, perché la domanda di ingiustificato arricchimento non dipende dal titolo dedotto in causa, né la sua proponibilità deriva da una domanda riconvenzionale dell’opponente, ma solo dal tema d’indagine prospettato nelle difese finalizzate a contestare le richieste attoree. Non sarà, viceversa, consentito alla parte opposta di proporre, nel suo primo atto difensivo e ancor di più nel corso del giudizio un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, neppure dato il carattere sussidiario dell’azione – cautelativamente, in via subordinata, per l’ipotesi che sia negata l’esistenza o la validità del titolo specifico, in basa al quale è stata proposta la domanda principale d’ingiunzione.

ALTRI CASI

La rappresentanza attribuita all’amministratore del condomino dall’art. 1131 c.c., comma 2, rispetto a qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio, non si estende all’azione di scioglimento del condominio, prevista dall’art. 61 e 62 disp.att.c.c., questa, avendo ad oggetto la modificazione di un diritto reale, si svolge in un giudizio al quale devono partecipare tutti i soggetti che per le rispettive quote ne sono titolari, ossia i condomini del precedente condominio (CC 23.1.08 n. 1460).

Legittimato passivo è l’amministratore di condominio anche nel caso in cui il proprietario dell’appartamento sottostante chieda l’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua provenienti dalla terrazza ad uso esclusivo ed il risarcimento dei danni cagionati, in quanto l’amministratore è il rappresentante di tutti i condomini tenuti ad effettuare la manutenzione ivi compreso il proprietario posto allo stesso livello della terrazza (Appello Roma 3.3.04 n. 1111, GD, 2004, 2261).

 

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