Cassazione civile , SS.UU.,
sentenza 18.05.2011 n° 10864
a cura dell’avv. Massimo Caravetta
In caso di notificazione a più parti dell'atto di
citazione, il termine di dieci giorni entro il quale
l’attore o l’appellante devono costituirsi, decorre
dalla prima notificazione, non dall’ultima. E' quanto
hanno stabilito le Sezioni Unite Civili con la sentenza
18 maggio 2011, n. 10864.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, il
quale faceva leva su una impterpretazione "liberale"
dell'art. 165 c.p.c., il termine di costituzione
dell'attore doveva decorrere dall'ultima delle
notifiche. A tale impostazione ne è seguita, a breve,
una contraria più restrittiva, secondo la quale il
termine di costituzione dell'attore doveva decorrere, in
caso di molteplici notificazioni dell'atto di citazione,
dalla prima di queste.
A favore della prima linea interpretativa depone il
rilievo secondo il quale la fase della notificazione è
un procedimento e, come tale, deve essere considerato
unitario; di conseguenza, trattandosi di notificazione
unitaria, non sarebbe possibile immaginare una
"formazione progressiva", in cui l’attore si costituisce
dieci giorni dopo la prima notifica, dovendo in seguito
necessariamente integrare la domanda con le altre
notifiche, depositando l’originale, ex art. 165 comma 2
c.p.c.
A sostegno della seconda impostazione, si rilieva che
la notificazione non è, in realtà, un procedimento
unitario, ma è frutto di singoli procedimenti, essendo,
quindi, possibile immaginare una sua formazione
progressiva; la prova che si tratta di singoli
procedimenti è data dal fatto che possono emergere
singole conseguenze processuali.
Le Sezioni Unite decidono di aderire alla seconda
delle tesi ora esposte; il Supremo consesso
monofilattico rileva che “se la formula del segmento
di legge processuale, la cui interpretazione è
nuovamente in discussione, è rimasta inalterata, una sua
diversa interpretazione non ha ragione di essere
ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e
l’altra siano compatibili con la lettera della legge,
essendo da preferire – e conforme ad un economico
funzionamento del sistema giudiziario –
l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo,
formata una pratica di applicazione stabile. Soltanto
fattori esterni alla formula della disposizione di cui
si discute – derivanti da mutamenti intervenuti
nell’ambiente processuale in cui la formula continua a
vivere, o dall’emersione di valori prima trascurati –
possono giustificare l’operazione che consiste
nell’attribuire alla disposizione un significato diverso”.
(Altalex)
SUPREMA
CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI
UNITE CIVILI
Sentenza
18 maggio 2011, n. 10864
Massima e Testo Integrale
Processo
civile, notificazione a più parti, costituzione in
giudizio, termini
Cassazione civile , SS.UU., sentenza 18.05.2011 n° 10864
In caso di notificazione a
più parti, il termine di dieci giorni entro il quale
l’attore o l’appellante devono costituirsi, decorre
dalla prima notificazione, non dall’ultima.
NDR: la sentenza de qua va
segnalata per importanza soprattutto sul piano pratico;
bisognerà vedere cosa accadrà per le cause già
instaurate seguendo un orientamento giurisprudenziale
diverso da quello condiviso dalle Sezioni Unite; è
probabile che si renderà applicabile l'istituto della
rimessione in termini ex art. 153 comma 2 c.p.c., seppur
in forma c.d. virtuale; si evidenzia, ad ogni modo, che
sul tema delle sopravvenienze giurisprudenziali (seppur
applicato al termine per l'opposizione a decreto
ingiuntivo) si attende una pronuncia delle Sezioni Unite
(ordinanza 6514/2011). (1-5)
(*) Riferimenti normativi:
artt. 165-347 c.p.c.
(1) Per l'ordinanza di
rimessione si veda Cassazione civile, sez. III,
ordinanza 5 agosto 2010, n. 18156, in Massimario.it, 29,
2010.
(2) In tema di
notificazione ed avvocato deceduto, si veda Cass. civ.,
sez. II, ordinanza 04.05.2011 n° 9797.
(3) In materia di
notificazione, nullità e sanatoria, si veda Cass.civ.,
sez. III, sentenza 15.04.2011 n° 8724.
(4) In tema di
notificazione e posta, si veda Cass. civ., sez. II,
sentenza 12.04.2011 n° 8284.
(5) In materia di notifica
e portiere, si veda Cass. civ., sez. tributaria,
ordinanza 28.02.2011 n° 4962.
Per approfondimenti in
dottrina si vedano:
- VIOLA, Costituzione
dell’attore entro dieci giorni: dalla prima o
dall’ultima notificazione?;
- BATA', CARBONE, Le
notificazioni, Milano, 2010, 840;
- GRAMAGLIA, Diritto
processuale civile, Milano, 2010, 178;
- DI PAOLA, Notificazioni
e termini. Questioni processuali, Milano, 2009, 126;
- TARZIA, Lineamenti del
processo civile di cognizione, Milano, 2009, 139;
- CURTI, Sul regime dei
vizi della costituzione dell’attore nel procedimento
ordinario, in Giur. It., 2003, 11;
- TARANTOLA, Mancata o
tardiva costituzione dell'attore, improcedibilità ed
effettiva conoscenza dell'inizio del decorso del termine
di costituzione, in Giur. It., 1999, 5
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 18 maggio 2011, n.
10864
Svolgimento del processo
M.E. conveniva, davanti al
giudice di pace di Taranto, L.G. e la spa Toro
Assicurazioni, chiedendone la condanna solidale al
risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un
sinistro stradale.
I convenuti, costituitisi,
proponevano domanda riconvenzionale nei confronti del M.
e della società SIAT, assicuratore della r.c.a. del
veicolo del M..
Il giudice di pace
accoglieva la domanda principale, ritenendo che
l'esclusiva responsabilità dell'incidente fosse da
attribuire al convenuto L..
Quest'ultimo proponeva
appello al tribunale indicando, nella citazione, per la
comparizione l'udienza del 19.9.2005.
L'atto di impugnazione era
notificato alla società Toro Assicurazioni il 20.5.2005,
ad M.E. il 23.5.2005, ed alla società SIAT Assicurazioni
il 24.5.2005.
L'appellante, quindi,
iscriveva a ruolo la causa in data 3.6.2005 e,
contestualmente, si costituiva depositando, nella stessa
data del 3.6.2005, la nota di iscrizione a ruolo ed il
fascicolo di parte contenente l'atto di citazione e
l'atto di appello, come da attestazione del cancelliere.
Il tribunale, con sentenza
del 19.10.2005, dichiarava improcedibile l'appello.
Ha proposto ricorso per
cassazione affidato ad unico motivo il L.
Resiste con controricorso
il M.
Gli altri intimati non
hanno svolto attività difensiva.
Fissata la trattazione del
ricorso per l'udienza del 17.6.2010, la terza sezione
civile della Corte ha emesso ordinanza interlocutoria
depositata il 5.8.2010, di rimessione degli atti al
Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della
causa alle sezioni unite.
Il Primo Presidente ha
provveduto in tal senso.
Il ricorrente ha anche
presentato memoria.
Motivi
della decisione
1. La questione di diritto
posta dall'ordinanza di rimessione.
Con l'ordinanza
interlocutoria, la terza sezione civile della Corte ha
posto la questione del termine di costituzione
dell'appellante, in caso di notificazione a più parti,
ai sensi de combinato disposto degli artt. 347 e 165
c.p.c.; vale a dire se il termine di dieci giorni, entro
il quale l'appellante deve costituirsi, decorra dalla
prima notificazione, ovvero dall'ultima.
L'ordinanza di rimessione
da conto che, fino ai 1997, la Corte di cassazione aveva
aderito ad una interpretazione "liberale" dell'art. 165
c.p.c., ritenendo che il termine per la costituzione
dell'attore dovesse decorrere dall'ultima delle
notifiche dell'atto di citazione (Cass. 6 novembre 1958,
n. 3601, cui segue nello stesso senso soltanto Cass. 18
gennaio 2001, n. 718).
Successivamente, (a
partire da Cass. 16 luglio 1997, n. 6481), invece, la
Corte aveva mutato indirizzo, aderendo alla tesi
"restrittiva", secondo cui il termine per la
costituzione dell'attore decorre dalla prima delle
notificazioni dell'atto di citazione; indirizzo, questo,
consolidatosi nel tempo.
Sono esposte, quindi, le
ragioni di preferenza del primo dei due indirizzi.
Le ragioni si fondano sui
seguenti argomenti:
a) costituzionale, del
giusto processo, per il quale l'art. 111 Cost. impedisce
di ritenere conformi a costituzione interpretazioni che,
sanzionando ritardati adempimenti, finiscono per
incidere sul diritto di difesa, precisando che
l'adesione alla tesi più rigorosa, e finora dominante,
non giova affatto alla speditezza del processo, perchè
in ogni caso l'improcedibilità della domanda (o del
gravame) andrebbe dichiarata con sentenza;
b) logico, in ordine
all'inutilità dei risultati cui conduce la tesi
tradizionale, in quanto anche se l'appello fosse
dichiarato improcedibile per essersi l'attore costituito
oltre il decimo giorno dalla prima notificazione, egli
potrebbe comunque proporre una nuova impugnazione, se il
termine per impugnare non sia scaduto;
c) letterale, per essere
le ipotesi di improcedibilità dell'appello, in quanto
eccezionali, tassative e di stretta interpretazione;
d) sistematico. A tal
fine, l'ordinanza richiama, sia il processo
amministrativo (R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 36,
n. 4; R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 18; L. 6
dicembre 1971, n. 1034, art. 21, comma 2), sia quello
contabile (L. 14 gennaio 1994, n. 19, art. 5, come
interpretato da C. conti, sez. riun. 25.3.2005 n. 1).
In questi casi la legge fa
decorrere lo sviluppo del processo dall'ultima
notificazione.
Le critiche alla tesi
restrittiva si sostanziano, poi, nei seguenti argomenti:
a) quello del "legislatore
consapevole".
Non è vero - si afferma -
che il legislatore, lasciando immutato l'art. 165 cod.
proc. civ. nell'ambito di una generale riforma del
processo civile (attuata con la L. n. 353 del 1990),
avrebbe, per ciò solo, manifestato la volontà di
avallare l'orientamento dominante. Ed infatti fino al
1997 ad essere dominante era la tesi liberale, non
quella restrittiva. Che il legislatore, poi, mai abbia
inteso avallare la tesi restrittiva, si desume dal fatto
che, con l'introduzione del rito societario, si sia
prevista espressamente la decorrenza del termine per la
costituzione dall'ultima notifica (D.Lgs. 17 gennaio
2003, n. 5, art. 3, comma 2). b) quello "ad absurdum".
Nel caso di notifica della
citazione a più persone, l'attore non può conoscere la
data della prima notifica fino a quando l'atto non gli
sia restituito; ma, a quel punto, il termine per
costituirsi potrebbe essere già spirato, se lo si fa
decorrere dalla prima notificazione.
Per ovviare a tale
inconveniente, la tesi dominante consente all'attore di
costituirsi depositando un fascicolo incompleto, nel
quale l'originale della citazione è sostituito da una
copia non formale e non autentica (cd. "velina").
In questo modo, si
sostiene nell'ordinanza di rimessione, la tesi
restrittiva fomenta e legittima una prassi non
consentita dalla legge e di per sè irragionevole, in
quanto consente la costituzione prima del
perfezionamento del rapporto processuale. c) quello del
"convenuto svantaggiato".
Secondo la tesi dominante,
il termine per la costituzione dell'attore va fatto
decorrere dalla prima notificazione perchè il convenuto,
cui la citazione sia stata notificata per prima, decorsi
dieci giorni da essa, deve essere messo in condizione di
sapere con certezza se l'attore si sia costituito o
meno; il che non potrebbe accadere aderendo alla tesi
"liberale", in quanto il convenuto cui la citazione è
stata notificata per prima non sa quando sia avvenuta od
avverrà l'ultima notificazione; nè si potrebbe
pretendere da quel convenuto che si rechi ogni giorno in
cancelleria per verificare se la costituzione
dell'attore sia avvenuta o meno.
L'ordinanza di rimessione
ritiene questo un mero "inconveniente pratico", per di
più agevolmente superabile sol che il convenuto abbia
cura di verificare che la costituzione dell'attore sia
avvenuta o meno "non oltre i primi dieci giorni del
periodo di tempo dei dovuti termini minimi da assicurare
ex art. 163 bis c.p.c.". 2. Una considerazione di
metodo.
L'ordinanza di rimessione
sottopone alle sezioni unite argomenti che sono apparsi
giustificare una diversa lettura della disposizione,
dettata dall'art. 165 cod. proc. civ., comma 2, compresa
nel richiamo che, per il giudizio di appello, è operato
dal successivo art. 347 cod. proc. civ.. La Corte
osserva che la reinterpretazione così sollecitata
riguarda una disposizione, relativa all'ordine del
processo, che da oltre venti anni è stata letta, nella
propria giurisprudenza, nel medesimo modo; così
determinando le condizioni perchè le parti potessero e
dovessero fare affidamento su di una corrispondente
applicazione da parte dei giudici investiti della
domanda di tutela.
La Corte considera che, se
la formula del segmento di legge processuale, la cui
interpretazione è nuovamente messa in discussione, è
rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non
ha ragione di essere ricercata e la precedente
abbandonata, quando l'una e l'altra siano compatibili
con la lettera della legge, essendo da preferire - e
conforme ad un economico funzionamento del sistema
giudiziario - l'interpretazione sulla cui base si è, nel
tempo, formata una pratica di applicazione stabile.
Soltanto fattori esterni alla formula della disposizione
di cui si discute -derivanti da mutamenti intervenuti
nell'ambiente processuale in cui la formula continua a
vivere, o dall'emersione di valori prima trascurati -
possono giustificare l'operazione che consiste
nell'attribuire alla disposizione un significato
diverso.
L'ordinanza di rimessione
non manca di muoversi in questa ottica.
Tuttavia, gli argomenti in
essa proposti non appaiono alla Corte tali da imporre
l'abbandono della precedente interpretazione. 3. La
decisione di questa Suprema Corte.
I punti salienti
dell'interpretazione consolidatasi nel tempo sono i
seguenti.
L'art. 165 cod. proc.
civ., comma 2, stabilisce che, in caso di notificazione
della citazione a più soggetti, l'originale deve essere
inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall'ultima
notificazione.
Se fosse consentita la
costituzione dell'attore o dell'appellante, entro dieci
giorni dall'ultima notificazione, tale previsione
sarebbe superflua, poichè l'inserimento della citazione
in originale, previsto dal comma 2, presuppone
necessariamente che il fascicolo di parte dell'attore,
nel quale l'atto va inserito, sia già stato depositato e
che, pertanto, la costituzione dell'attore debba essere
già avvenuta.
Diversamente, l'art. 165
cod. proc. civ., comma 2, acquista un senso, posto che -
al fine di consentire all'attore il rispetto del termine
di costituzione - lo esonera dal contestuale deposito
della citazione in originale al momento dell'iscrizione
della causa a ruolo.
E, sotto questo profilo, è
la disciplina della norma delle disposizioni di
attuazione - art. 74 disp. att. c.p.c., comma 4, - a
doversi adattare alla disciplina del codice.
Al che consegue che, se la
causa è iscritta a ruolo "con velina", le verifiche
sulla regolarità degli atti saranno compiute dal
cancelliere al momento dell'inserimento nel fascicolo
dell'originale della citazione.
Nè il deposito della copia
della citazione impedisce al presidente di conoscere i
termini della causa e designare il giudice istruttore.
Inoltre, nessuna
illegittimità deriva dalla costituzione, previo deposito
di copie non autentiche (cd. "veline") della citazione;
prassi, in un certo senso, sorretta proprio dall'art.
165 cod. proc. civ.
Nè alcun rilievo può
essere attribuito alla circostanza che l'attore non può
mai sapere quando è avvenuta la prima notificazione,
perchè l'ufficiale giudiziario gli restituisce
l'originale soltanto quando la notificazione è stata
eseguita nei confronti di tutti i convenuti.
L'art. 165 cod. proc. civ.
non impone affatto che la costituzione avvenga dopo che
la prima notificazione si sia perfezionata.
Nulla, pertanto, vieta
all'attore, dopo aver consegnato l'originale della
citazione all'ufficiale giudiziario, di procedere
immediatamente all'iscrizione a ruolo depositando una
copia.
Il perfezionamento della
notificazione non è, infatti, necessario ai fini della
costituzione in giudizio ( ciò si desume anche dalla L.
n. 890 del 1982, art. 5, comma 3,il quale consente al
notificante di ottenere la restituzione della copia
dell'atto prima dei ritorno dell'avviso di ricevimento
per procedere all'iscrizione a ruolo).
Anche l'interpretazione
finalistica della norma depone nel senso di ancorare la
costituzione dell'attore alla prima delle notificazioni.
E ciò perchè il convenuto
ha diritto di conoscere, quanto prima possibile, se
l'attore si sia costituito o meno, al fine di stabilire
le opportune strategie difensive, sul presupposto che,
nella prassi, la mancata tempestiva costituzione
dell'attore è sintomo della volontà di non dare più
seguito all'esercizio dell'azione.
In questa ottica - in un
giudizio con pluralità di parti - per il convenuto, di
norma, è irrilevante che un altro convenuto abbia deciso
di iscrivere la causa a ruolo e coltivare il giudizio.
Sul piano sistematico,
poi, la norma così interpretata è coerente con la
riforma processuale introdotta dalla L. 26 novembre
1990, n. 353, che ridisegna un processo caratterizzato,
non solo dall'esigenza che sia subito determinato il
thema decidendum, ma anche dall'esigenza, strettamente
funzionale alla prima, che l'attore ponga subito a
disposizione dei convenuti la propria produzione
documentale.
La disposizione, così
ripercorsa, nei suoi aspetti essenziali, non è ambigua,
se si tiene conto delle peculiarità della fattispecie
che disciplina.
Non è neppure incompleta,
non consentendo, quindi, il ricorso all'analogia.
Il ricorso alla analogia,
infatti, è ammesso dall'art. 12 delle preleggi soltanto
quando manchi nell'ordinamento una specifica norma
regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi,
necessario porre rimedio ad un vuoto normativo,
altrimenti incolmabile in sede giudiziaria.
In questa ottica,
pertanto, il richiamo all'art. 369 cod. proc. civ.,
comma 1, - che prevede il deposito del ricorso per
cassazione nel termine di venti giorni dall'ultima
notificazione - non è significativo.
Non lo è sotto due
profili.
Il primo è che proprio i
fatto che l'art. 369 cod. proc. civ. detti una regola
dissonante rispetto alla previsione generale rende
evidente che, quando il legislatore ha inteso assumere
come punto di riferimento per la costituzione
dell'attore l'ultima notificazione, lo ha previsto
espressamente.
Il secondo si sostanzia
nella diversità del giudizio di cassazione, che non è un
giudizio soggetto ad istruzione, rispetto ai giudizi di
merito di primo grado e di appello, che, quindi,
necessitano di una puntuale, specifica e diversa
regolamentazione.
Nè il richiamo al D.Lgs.
n. 5 del 2003, art. 3, comma 2, in tema di processo
societario è invocabile.
Da un lato, infatti, è
difficilmente predicabile - in questo caso - richiamarsi
all'analogia; e ciò per essere il modello processuale
del rito societario un modello speciale rispetto a
quello ordinario, la cui introduzione ha avuto l'effetto
di sottrarre a quest'ultimo una certa tipologia di
controversie.
Non è, quindi, consentito
ravvisare una eadem ratio fra una norma appartenente ad
un sistema costituente lex specialis e quella generale.
Dall'altro, sotto questo
profilo, deve osservarsi che, dopo l'intervento del
D.Lgs. n. 5 del 2003, si è verificato un complesso
intervento normativo sul processo civile di cognizione
ordinario (D.L. n. 35 del 2005, convertito con
modificazioni nella L. n. 80 del 2005), in occasione del
quale il legislatore non ha ritenuto di modificare la
norma dell'art. 165 cod. proc. civ.; il che è
sintomatico della conferma della diversità delle regole.
Da ultimo, va segnalato
che il legislatore, con la recente L. 18 giugno 2009, n.
69, non solo ha abrogato (art. 54, comma 5) - sia pure
non con riferimento ai procedimenti pendenti alla data
di entrata in vigore della legge stessa - il D.Lgs. n. 5
del 2003, art. 3, comma 2, ma ha anche omesso di
intervenire sull'art. 165 cod. proc. civ.
Omissione di interventi
che ha investito anche l'art. 347 cod. proc. civ..
Eguali considerazioni
valgono per il processo amministrativo e contabile
richiamati.
L'art. 165 cod. proc. civ.
ha una valenza ed una rilevanza non eccezionale;
non regola la fattispecie
in modo incompleto e non compromette - secondo
l'interpretazione consolidatasi nel tempo -, nè il
principio della durata ragionevole del processo, nè il
diritto di difesa delle parti.
Anzi, in chiave di un equo
contemperamento degli interessi delle parti stesse
(balancing test), da un lato, la costituzione nei dieci
giorni dalla prima notificazione non è un onere
particolarmente gravoso da rispettare per l'attore.
Questi, infatti, può
costituirsi - immediatamente dopo la consegna
dell'originale dell'atto di citazione all'ufficiale
giudiziario ed indipendentemente dal perfezionamento
della sua notificazione - con l'immediata iscrizione a
ruolo, mediante deposito di copia non formale della
citazione.
Dall'altro, al convenuto,
invece, giova in termini di tutela dell'affidamento e di
conoscenza delle intenzioni che l'attore intende
perseguire.
La costituzione
dell'attore entro i dieci giorni dall'ultima
notificazione creerebbe, infatti, in ciascuno dei
convenuti che riceve la notificazione della citazione,
una situazione di incertezza.
Questi, non sapendo se sia
l'ultimo destinatario nei cui confronti la notifica si è
perfezionata, non ha un dato certo per ricostruire
quando l'attore si dovrà costituire.
La previsione della
costituzione nei dieci giorni dalla prima notificazione
- ignorando ognuno dei convenuti se egli sia il primo
destinatario raggiunto dalla notificazione - comporta,
viceversa, che lo stesso debba considerarsi,
nell'incertezza, il primo fra i destinatari, per il
quale si è perfezionata la notifica.
Se lo è effettivamente,
avrà un dato certo per accertare se vi sia stata
tempestiva costituzione dell'attore in relazione alla
notificazione eseguita nei suoi confronti. Altrimenti
troverà che la costituzione è già avvenuta, in relazione
ad una precedente notificazione nei confronti di altro
convenuto.
La costituzione entro un
termine dalla prima notificazione, quindi, appare anche
più funzionale all'esercizio del diritto di difesa di
ognuno dei convenuti, posto che pone ognuno di essi
nella condizione di dover supporre che la notificazione
eseguita nei suoi confronti sia la prima e che, quindi,
l'attore debba costituirsi in relazione ad essa.
Nè va sottovalutato che il
diverso decorso consentirebbe anche comportamenti non
lineari dell'attore, che potrebbe artatamente posporre
la propria costituzione, ritardando la notifica ai
convenuti successivi al primo.
4. L'esame del ricorso.
Alla luce dei principi
enunciati va, ora, esaminato il ricorso proposto.
Il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 347, 348,
101, 161, 168 c.p.c. e art. 72 disp. att. c.p.c..
Da atto, nel ricorso, che
la causa di appello era iscritta a ruolo dall'appellante
L.G. il 3.6.2005 con numero di R.G. 3226, e fissazione
dell'udienza del 21.9.2005 davanti al Giudice dott. C..
Ulteriore dato di fatto,
però, era che " il convenuto M. E. il 30.8.2005
ritenendosi evidentemente parte diligente, iscriveva a
ruolo la medesima causa con n. 4616/2005 di R.G. che
veniva assegnata alla terza sezione al giudice dott. P.
per l'udienza del 23.9.2005".
In tale udienza, nella
contumacia dell'appellante L. e degli altri appellati,
compariva esclusivamente l'appellato M.
Il giudizio si concludeva
con sentenza del 19.10.2005, con la quale, sul
presupposto dell'omessa costituzione in giudizio
dell'appellante L., e della costituzione dell'appellato
nel termine di cui all'art. 166 cod. proc. civ., era
dichiarata l'improcedibilità - ai sensi dell'art. 348
cod. proc. civ. - dell'appello proposto dal L..
Il ricorrente contesta che
l'iscrizione a ruolo effettuata su iniziativa
dell'appellato M. successivamente a quella effettuata
dall'appellante fosse conforme a legge; di qui la
nullità della sentenza impugnata.
Il motivo non è fondato
per le ragioni che seguono.
L'attuale ricorrente, nel
giudizio di appello di R.G. n. 3226/2005, si è
costituito iscrivendo la causa a ruolo il 2 giugno 2005.
La prima delle
notificazioni agli appellati si è perfezionata il 20
maggio 2005 (alla società Toro Assicurazioni).
La costituzione in tale
giudizio del L. - sulla base delle precedenti
considerazioni - era, quindi, tardiva.
L’unica corretta
iscrizione a ruolo, pertanto, restava quella ad opera
dell'appellato M..
Al che consegue
l'irrilevanza delle censure avanzate dal ricorrente in
ordine alle conseguenze di una duplice iscrizione a
ruolo.
Nè la tardività della
costituzione dell'appellante poteva ritenersi sanata
dalla tempestiva costituzione dell'appellato, posto che,
nel giudizio di appello, non valgono le corrispondenti
regole del giudizio di primo grado, di cui all'art. 171
cod. proc. civ..
La mancata costituzione in
termini dell'appellante, ai sensi dell'art. 348 cod.
proc. civ., comma 1, nel testo sostituito - con
efficacia dal 30 aprile 1995 - dalla L. 26 novembre
1990, n. 353, art. 54, infatti, determina
automaticamente l'improcedibilità dell'appello, senza
che possa trovare applicazione l'art. 171 cod. proc.
civ., comma 2, con la conseguente possibilità della
costituzione dell'appellante fino alla prima udienza,
qualora l'appellato si sia costituito nei termini.
Il richiamo alle forme ed
ai termini del procedimento avanti il tribunale,
contenuto nell'art. 347 cod. proc. civ., comma 1, deve
ritenersi riferito solo agli artt. 165 e 166 cod. proc.
civ., mentre la previsione dell'art. 171 cod. proc.
civ., comma 2, è incompatibile con il tenore dell'art.
348 cod. proc. civ., il quale esclude, in ogni caso, la
possibilità di una ritardata costituzione di una delle
parti, o l'applicazione dell'istituto dell'estinzione
per la loro inattività, stabilendo espressamente
l'improcedibilità dell'appello, senza attribuire alcun
rilievo al comportamento dell'altra parte (fra le tante
Cass. 21 gennaio 2010, n. 995; Cass. 14 dicembre 207, n.
26257; Cass. 24 gennaio 2006, n. 1322).
Correttamente, quindi, il
giudice del merito ha dichiarato l'improcedibilità
dell'appello proposto dal L..
Conclusivamente, il
ricorso è rigettato.
La complessità delle
questioni trattate giustifica la compensazione, fra le
parti costituite, delle spese del giudizio di
cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione,
pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
Compensa le spese.
Danno biologico: per la Cassazione si applicano le
tabelle milanesi
Cassazione civile , sez. III, sentenza 07.06.2011 n°
12408
Nuovi sviluppi in tema di risarcimento del danno
biologico; le tabelle milanesi sono l'unico parametro da
prendere in considerazione per tutto il territorio
nazionale. E' quanto ha deciso la Terza Sezione Civile
della Corte di Cassazione con la sentenza 7 giugno 2011,
n. 12408 con la quale si evidenzia come, per le c.d.
micropermanenti da lesioni stradali, sussista l'obbligo
di applicare la tabella aggiornata ogni anno dal
Ministero.
I giudici di legittimità prendono atto che mentre
alcuni uffici giudiziari si avvalgono del criterio
equitativo puro, altri liquidano il danno in esame col
sistema "а punto", prevalentemente ricavato dalla media
delle precedenti decisioni pronunciate in materia;
alcuni liquidano unitariamente il danno non patrimoniale
ed altri distinguono più voci; taluni pongono un tetto
massimo ed uno minimo alla personalizzazione del
risarcimento, altri non lo fanno.
Accentuate divergenze si registrano anche sul piano
dei valori tabellari, idonee a dar luogo ad una
giurisprudenza per zone, difficilmente compatibile con
l'idea stessa di equità la quale ha anche la funzione dì
garantire l'intima coerenza dell'ordinamento,
assicurando che casi uguali non siano trattati in modo
diseguale, o viceversa; sotto questo profilo l'equità
vale ad eliminare le disparità di trattamento e le
ingiustizie.
Tale fenomenologia, incidendo sui fondamentali
diritti della persona, vulnera elementari prncipi di
eguaglianza, mina la fiducia dei cittadini
nell'amministrazione della giustizia, lede la certezza
del diritto, affida in larga misura al caso lrentità
dell'aspettativa risarcitoria, ostacola le conciliazioni
e le composizioni transattive in sede stragiudiziale,
alimenta per converso le liti, non di rado fomentando
domande pretestuose (anche in seguito a scelte mirate:
cosiddetto "forum shopping") o resistenze strumentali.
Di conseguenza, la liquidazione equitativa dei danni
alla persona deve evitare due estremi: a) in primo
luogo, che i criteri di liquidazione siano rigidamente
fissati in astratto e sia sottratta al giudice qualsiasi
seria possibilità di adattare i criteri legali alle
circostanze del caso concreto in quanto, seguendo tale
orientamento, l'ordinamento garantirebbe sì la massima
uguaglianza, oltre che la prevedibilità delle decisioni,
ma impedirebbe nello stesso tempo un'adeguata
personalizzazione del risarcimento; b) che il giudizio
di equità sia completamente affidato alla intuizione
soggettiva del giudice, al di fuori di qualsiasi
criterio generale valido per tutti i danneggiati a
parità di lesioni.
I valori di riferimento per la liquidazione del
danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano
costituiranno d’ora innanzi, per la giurisprudenza di
legittimità, il valore da ritenersi equo, ovvero quello
in grado di garantire la parità di trattamento e da
applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta
non presenti circostanze idonee a aumentarne o ridurne
l’entità.
(Altalex,)
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danno biologico |
tabelle |
Simone Marani |
SUPREMA
CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIIVLE
Sentenza
7 giugno 2011, n. 12408
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Eigg.ri Magistrati:
...omissis...
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
...omissis...
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Il 7.4.1992, nei pressi di Trani, il
ventiquattrenne ****, a seguito della collisione tra la
vettura che conduceva ed un furgone del quale il
conducente **** aveva perso il controllo su asfalto
bagnato dalla pioggia, invadendo la corsìa dell'opposto
senso di marcia, riportò lesioni che ne provocarono
l'invalidità permanente totale (grave tetraparesi
spastica, turbe mnesiche, disordini del linguaggio,
importanti turbe di tipo vegetale indotte da un grosso
infarto celebrale che occupa quasi tutto l'emisfero di
destra).
Definito con sentenza di patteggiamento del 26.1.1995
il procedimento penale instaurato a carico del **** per
lesioni colpose, il 24.7.1995 il **** agì giudizialmente
per il risarcimento nei confronti della ****
(assicuratrice del furgone per la r.c.a.) e del ****.
Domandò che i convenuti fossero condannati:
- **** al pagamento di ulteriori £ 308.310.000
rispetto al massimale di 1 miliardo di lire versato il
27.10.1994;
- e il *** a risarcirgli il danno residuo, quantificato
in L 1.347.075.000.
Entrambi i convenuti resistettero.
Con sentenza n. 303 del 1999 il tribunale di Trani
rigettò la domanda sul rilievo che, dovendosi presumere
il paritetico apporto causale colposo dei due conducenti
in difetto dell'accertamento in concreto delle
rispettive condotte, la somma già riscossa dal Pantaleo
fosse ampiamente satisfattiva, pur computando
svalutazione ed interessi per il tempo intercorso tra
sinistro e pagamento.
2.- La corte d'appello di Bari, decidendo sugli
appelli di tutte le parti con sentenza n. 944 del 2005,
ha bensì
determinato nel 75% la percentuale di responsabilità del
**** ma, riconosciuto nel minore importo di £
955.999.420 la somma in tale frazione dovuta al **** a
titolo di risarcimento del danno "biologico, morale e
patrimoniale", ha a sua volta ritenuto che quanto già
ricevuto avesse estinto il suo credito complessivo.
3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione ****,
affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso la **** s.p.a. (già ****),
che propone ricorso incidentale basato su un unico
motivo.
Resiste con controricorso anche **** che a sua volta
propone ricorso incidentale fondato su un unico motivo.
Il **** e la **** hanno depositato memorie
illustratve.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1- I ricorsi vanno riuniti, in quanto proposti avverso
la stesse sentenza.
2- Col primo motivo del ricorso principale il ****
-denunciando violazione e falsa applicazione degli artt.
2043 e 2059 c.c., nonché omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione su latto controverso e
decisivo costituito dalla sua responsabilità concorrente
si duole che la corte d'appello, pur dopo aver concluso
che
"certamente l'urto si verificò nella corsia di
pertinenza del ****, invasa dal ****, che procedeva in
senso
inverso, dopo aver sbandato a causa del fondo stradale
bagnato", abbia tuttavia mantenuto l'affermazione di
responsabilità del danneggiato, sia pur rideterminata
nella misura del 25%, per non avere quegli offerto la
prova che "il suo comportamento fu pienamente conforme
alle norme di circolazione e di comune prudenza e che
fece tutto il possibile per evitare il danno".
2.1.- Il ricorso incidentale del **** censura la
sentenza per violazione dell'art. 2054 c.c. e per ogni
possibile tipo di vizio della motivazione per aver
ravvisato il maggior apporto causale colposo del
medesimo in ordine alla verificatasi collisione tra i
veicoli.
2.2.- Il primo motivo del ricorso principale è
fondato ed e correlativamente infondato quello del
Correttamente il ricorrente si chiede "quale prova
avrebbe dovuto offrire l'attorer quando è stato
accertata inequivocabilmente l'invasione della corsia di
marcia di sua competenza da parte di un veicolo privo di
controllo per causa ragionevolmente imprevedibile".
Il consolidato principio secondo il quale, in tema di
scontro tra veicoli о di applicazione dell'art. 2054
c.c., l'accertamento in concreto della colpa di uno dei
conducenti non comporta di per sè il superamento della
presunzione di colpa concorrente dell'altro (all'uopo
occorrendo che quest'ultimo fornisca la prova
liberatoria, ovvero la dimostrazione di essersi
uniformato alle norme sulla circolazione e a quella
della comune prudenza, e di essere stato messo in
condizioni di non potere fare alcunché per evitare il
sinistro) non può essere inteso nel senso che, ancha
quando questa prova non sia in concreto possibile e sia
positivamente accertata la responsabilità, di uno dei
conducenti per avere tenuto una condotta in sè del tutto
idonea a cagionare l'evento, l'apporto causale colposo
dell'altro conducente debba easere, comunque, in qualche
misura riconosciuto.
La corte d'appello, infatti, dopo un'analitica,
approfondita e niente affatto contraddittoria disamina,
condotta dalla pagina 8 alla pagina 15 della sentenza,
di tutti i molteplici e convergenti elementi che la
avevano indotta a ricostruire come sopra indicato la
dinamica del sinistro (elementi fra i quali è annoverata
anche l'omessa richiesta di risarcimento da parte del
conducente e proprietario dell'altro veicolo), ha
concluso che "diversamente da quanto affermato dal
giudice di prime cure può concludersi che certamente
l'urto si verificò nella corsia di pertinenza del ****
invasa dal **** che procedeva in senso inverso, dopo
aver sbandato a causa del fondo stradale bagnato".
Ha, tuttavia, quantificato nel 25% il presunto
apporto causale colposo del **** per l'esclusiva ragione
che egli non aveva tuttavia "provato che, nelle
circostanze di tempo e di luogo indicate, il suo
comportamento fu pienamente conforme alle norme sulla
circolazione stradale e dì comune prudenza e che fece
tutto il possibile per evitare il danno". Ma si tratta
di frase di stile, priva di ogni anche solo ipotetico
riferimento a ciò che sarebbe stato possibile fare e che
non ora stato fatto dal conducente che viaggiava sulla
propria corsia, sicché l'applicazione dell'art. 2054
c.c. ha assunto l'impropria valenza di clausola
limitativa della responsabilità piuttosto che di norma
volta a sollecitare La cautela dei conducenti ed a
risolvere ì casi dubbi.
Ne consegue la cassazione della sentenza sul punto
per violazione di legge, difettando i presupposti di
fatto per affermare il concorso causale presunto della
stessa vittima.
3.- Col secondo motivo sono dedotte violazione o falsa
applicazione degli artt. 1223, 122G, 1227 e 2056 c.c.,
nonché omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione in punto di liquidazione del danno. Si duole
in particolare il ricorrente:
a) che la corte d'appello, "in accoglimento
dell'appello incidentale del ****, si sia discostata dai
parametri di
liquidazione del danno generalmente adottati (ossia le
cd. tabelle di Milano) in favore del criterio di calcolo
del punto unico nazionale";
b) che nulla sia stato riconosciuto per danno
"esistenziale";
c) che, in punto di liquidazione del danno
patrimoniale da danno emergente, la corte d'appello
abbia immotivatamente riconosciuto solo le spese mediche
documentate escludendo gli esborsi futuri e, quanto al
lucro cessante, che non abbia considerato i presumibili
incrementi futuri dei guadagni che sarebbero derivati
dalla perduta capacità lavorativa.
Sostiene, infine, che il riconoscimento del
risarcimento del danno in misura superiore ad €
516.000,00 (n.d.e.: equivalenti al massimale di un
miliardo di lire già versato) "non potrà che determinare
la condanna della compagnia al pagamento degli interessi
legali sul massimale dalla data di scadenza del termine
di 60 giorni dalla costituzione, in mora fino alla data
del pagamento".
3.1.- Va premesso che, se si verificasse quanto
appena prospettato, si renderebbero applicabili i
prìncipi enunciati, tra le altre, da Cass. 8 Luglio
2003, n 10715 e 13 ottobre 2009, n. 21628, in senso
conforme all'assunto del ricorrente.
La doglianza (sub 3b) relativa al mancato
riconoscimento del danno ed. "esistenziale" quale
autonoma voce di danno è infondata alla luce di quanto
chiarito da Cass., sez. un., 11 novembre 2003, n.n.
26972, 26973, 26974 e 26975, cui s'è uniformata la
giurisprudensa successiva.
Quelle relative alla liquidazione del danno
patrimoniale emergente (di cui sub 3c) sono infondate
poiché - a parte l'erronea affermazione della corte
d'appello cho le spese future non integrano un danno
emergente (prime tre righe di pag, 21 della sentenza,
che va sul punto corretta) - le ulteriori osservazioni
della corte territoriale nel senso che l'appellante non
aveva documentato ulteriori prevedibili interventi (le
spese relative ai quali avrebbero potuto essere
eventualmente richieste in separata sede) e che pensione
di invalidità ed indennità di accompagnamento aliunde
percepite erano già sufficienti a fronteggiare i costi
da affrontare per un accompagnatore, integrano
apprezzamenti di fatto tali da escludere la smessa
sussistenza del danno patrimoniale intesa come
conseguenza pregiudizievole di un evento effettivamente
incidente sul patrimonio del danneggiato.
E' invece fondata quella relativa alla liquidazione
del lucro cessante da mancalo reddito da lavoro,
determinato in € 338.400, al lordo della quota del 25%
da detrarre, "sulla base del reddito percepito dal
danneggiato nel '91, senza tenere conto di eventuali
successivi incrementi incerti nell'an e nel quantum"
(così la sentenza impugnata a pag. 21). La motivazione è
effettivamente insufficiente ad eseludere, sulla base
delle nozioni di comune esperienza delle quali il
giudice deve tener conto in quanto integranti una
regola, di giudizio (Cass. 28 ottobre 2010, n. 22022),
che fosse possibile il ricorso alla presunzione in
ordine all'incremento nel futuro dei guadagni di un
agente di commercio di 24 anni.
3.2.- Va a questo punto esaminato il motivo di
censura sub За.
La corte d'appello ha affermato: "le c.d. tabelle
milanesi non costituiscono criterio codificato per la
liquidazione del danno biologicor pur venendo applicate
in. diversi tribunali. In particolare questa corte
d'appello non le utilizza, facendosi carico delle
differenze oggettive riscontrabili tra le condizioni di
vita a Milano e quelle locali, ditalché reputa
maggiormente equo il criterio del calcolo di punto unico
nazionale, elaborato attraverso la comparazione delle
liquidazioni espresse da numerosi tribunali, equamente
distribuiti tra nord, centro, sud e isole" (cosi la
sentenza inpugnata, a pag. 19, primo capoverso). Ha
conseguentemente liquidato il danno biologico, in
relazione all'epoca del fatto, nella sua interezza, in £
604.000.000 (a fronte della somma di £ 932.875.000 che
sarebbe risultata dall'applicazione delle tabelle
milanesi), riconoscendo al danneggiato € 453.000.000
(pari al 75%) e liquidando il danno morale spcttantegli
in 1/3 del predetto importo, dunque in £ 151.000.000.
З.2.1.- Conviene prendere le mosse dal preliminare
rilievo che 1'osservazione della giurisprudenza di
merito mostra marcate disparità non solo nei valori
liquidati a titolo di risarcimento del danno non
patrimoniale da lesione dell'integrità psicofisica (e, a
favore dei congiunti, da morte), ma anche nel metodo
utilizzato per la liquidazione.
Taluni uffici giudiziari sì avvalgono, infatti, del
criterio equitativo pure, altri liquidano il danno in
esame col sistema "а punto", prevalentemente ricavato
dalla media delle precedenti decisioni pronunciate in
materia; alcuni liquidano unitariamente il danno non
patrimoniale ed altri distinguono più voci; taluni
pongono un tetto massimo ed uno minimo alla
personalizzazione del risarcimento, altri non lo fanno.
Pure sul piano dei valori tabellari di punto si
registrano divergenze assai accentuate, che di fatto
danno luogo ad una giurisprudenza per zone,
difficilmente compatibile con l'idea stessa dell'equità,
nel senso che sarà appresso chiarito: accade, ad
esempio, che ad un giovane macroleso invalido all'80% si
possa riconoscere, in base alle diverse tabelle in uso
ad indipendentemente dalla personalizzazione, un
risarcimento che oscilla tra i 430.000 ed i 700.0O0
euro; che per la morte di un figlio la forbice possa
variare da 30,000 a 300.000 euro; che alcuni tribunali
attribuiscano maggior peso alla morte di un figlio
rispetto a quella della moglie e che altri facciano il
contrario.
Si tratta di un fenomeno che, incidendo sui
fondamentali diritti della persona, vulnera elementari
principi di eguaglianza, mina la fiducia dei cittadini
nell'amministrazione della giustizia, lede la certezza
del diritto, affida in larga misura al caso lrentità
dell'aspettativa risarcitoria, ostacola le conciliazioni
e le composizioni transattive in sede stragiudiziale,
alimenta per converso le liti, non di rado fomentando
domande pretestuose (anche in seguito a scelte mirate:
cosiddetto "forum shopping") o resistenze strumentali.
E' noto che gli artt. 138 e 139 del codice delie
assicurazioni private (di cui al decreto legislativo 7
settembre 2005, n. 209) dettano criteri per la
liquidazione del danno biologico per lesioni da sinistri
stradali, rispettivagente, di non lieve e di lieve
entità, queste ultime concernenti i postummi pari o
inferiori al 9% della complessiva validità
dell'individuo; e che, mentre l'art. 139 ha ricevuto
attuazione ed è stato, talora, analogicamente applicato
alle lesioni derivate anche da cause diverse dalla
circolazione stradale, non è stata per contro mai
emanata la pur prevista "specifica tabella unica su
tutto il territorio della Repubblica", che avrebbe
dovuto indicare (ex art. 138, primo comma, d. lgs. cit.)
sia le "menomazioni all'integrità psicofisica comprese
tra dieci e cento punti" che il "valore pecuniario da
attribuire ad ogni singolo punto di invalidità,
comprensiva dei coefficienti di variazione
corrispondenti all'età del soggetto leso"- della
perdurante mancanza di riferimenti normativi per le
invalidità dal 10 al 100% e considerato che il
legislatore ha comunque già espresso, quanto meno per le
lesioni da sinistri stradali, la chiara opzione per una
tabella unica da applicare su tutto il territorio
nazionale, la Corte di cassazione ritiene che sia suo
specifico compito, al fine di garantire l'uniforme
tnterpretazicne del diritto (che contempla anche l'art.
1226 cod. civ., relativo alla valutazione equitativa del
danno), fornire ai giudici di merito 1'indicazione di un
unico valore medio di riferimento da porre a base del
risarcimento del danno alla persona, quale che sia la
latitudine in cui si radica le controversia.
Ciò sulla base delle considerazioni che seguono.
3.2.2.- Vanno anzitutto ribaditi i principi secondo i
quali la liquidazione equitativa del danno può ritenersi
sufficientemente motivata - ed è pertanto insuscettibile
di sindacato in sede di legittimità - allorquando il
giudice dia l'indicazione di congrue, anche se sommarie,
ragioni del processo logico seguito; e che essa è invece
censurabile se sia stato liquidato un Importo
manifestamente simbolico o non correlato alla effettiva
natura od entità del danno; o quando nella sentenza di
merito non si dia conto del criterio utilizzato, o la
relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso
concreto, o la determinazione del danno sia palesemente
sproporzionata per difetto o per eccesso.
Ma equità non vuol dire arbitrio, perché quest'
ultimo, non scaturendo da un processo logico deduttivo,
non potrebbe mai essere sorretto da adeguata
motivazione. Affermare allora che la liquidazione
equitativa è insindacabile a condizione che risulti
congruamente motivata equivale ad ammettere che
dell'equità possa darsi una giustificazione razionale a
posteriori, Di conseguenza, il controllo in sede di
legittimità del giudizio equitativo esige che
preliminarmente si stabilisca quale sia la nozione di
"equità" recepita dall'ordinamento nell'art. 1226
cod.civ.
Il concotto di equità ricorre in numerose norme del
codice civile: oltre al già ricordato art. 1226 - che,
come l'art. 2056, consente la liquidazione equitativa
del danno quando non sia possibile provarne il preciso
ammontare - l'art. 1374 include l'equità tra le fonti di
integrazione del contratto, l'art. 1450 consente la
riduzione ad equità del contratto per evitarne la
rescissione, l'ultimo corona dell'art. 1467 permette la
riduzione ad equità del contratto risolubile per
eccessiva onerosità sopravvenutaF gli artt. 1733, 1748 e
1755 cod. civ. consentono di fissare secondo equità la
misura della provvigione dovuta al commissionario
all'agente ed al mediatore, gli artt. 2045 e 2047
attribuiscono alla vittima di illeciti causati in stato
di necessità o dall'incapace il diritto ad un'equa
indennità, gli artt. 2263 e 2500 quater fissano secondo
equità la ripartizione dei guadagni e delle perdite nei
confronti del socio d'opera nella società semplice e la
quota spettante al socio d'opera nel caso di fusione
societaria.
Il principio di equità è altresì richiamato da
numerose, ulteriori disposizioni: così, l'art. 2, comma
2, lettera
e), del menzionato codice del consumo riconosce il
diritto "all'equità nei rapporti contrattuali" come
diritto
fondamentale del consumatore; l'art. 7, comma 1, d.lgs.
9 ottobre 2002, n. 231 (sul ritardo di pagamento nelle
transazioni commerciali) commina la sanzione della
nullità all'accordo sulla data del pagamento o sulle
conseguenze del ritardato pagamento che risulti
"gravernante iniquo" in danno del creditore; l'art. 493
cod. nav. prevede l'erogazione di un indennizzo
equitativo a chi abbia effettuato il salvataggio di
persona in mare.
Dalle previsioni che precedono scaturisce un concetto di
equità che racchiude in sé due caratteristiche.
La prima è l'essere essa uno strumento di adattamento
della legge al caso concreto». La norma giuridica
infatti, in quanto astratta, non può mai prevedere tutte
le ipotesi concretamente verificabili: il che si designa
con la tradizionale affermazione secondo la quale
l'equità sarebbe la regola del caso concreto,
individuata non attraverso un'interpretazione o
estrapolazione del testo della legge, ma dello spirito
di quest'ultima, inteso quale regola di adeguatezza
della fattispecie astratta al caso sub iudice. Ma
l'adattamento dell'ordinamento al caso concreto,
attraverso la creazione di una regola ad hoc in difetto
della quale pretese meritevoli di tutela resterebbero
insoddisfatte (com'è per gli artt. 1226, 1374 e 2056
cod. civ.) non esaurisce il senso ed il contenuto della
nozione di equità.
Essa - ed è la caratteristica che viene qui
specificatamente in rilievo - ha anche la funzione dì
garantire l'intima coerenza dell'ordinamento,
assicurando che casi uguali non siano trattati in modo
diseguale, o viceversa; sotto questo profilo l'equità
vale ad eliminare le disparità di trattamento e le
ingiustizie. Alla nozione di equità è quindi
consustanziale non solo l'idea di adeguatezza, ma anche
quella di proporzione. Lo attestano inequivocabilmente,
tra gli altri, gli artt. 1450, 1467, 1733, 1748, 1755,
2045, 2047, 2263 e 2500 quuater cod. civ.; che
consentono tutti di ristabilire un equilibrio turbato,
quindi una "proporzione" tra pretese contrapposte.
Così intesa, l'equità costituisce strumento di
eguaglianza, attuativo del precetto di cui all'art. 3
Cost., perché consente di trattare i casi dissimili in
modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in
quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della
medesima norma o dello stesso principio.
Equità, in definitiva, non vuol dirà soltanto "regola
del caso concreto", ma anche "parità di trattamento".
Se, dunque, in casi uguali non è realizzata la parità di
trattamento, neppure può dirsi correttamante attuata
l'equità, essendo la disuguaglianza chiaro sintomo della
inapproprìatezza della regola applicata.
Ciò è tanto più vero quando, come nel caso del danno non
patrimoniale, ontologicamente difetti, per la diversità
tra l'interesse leso (ad esempio, la salute o
l'integrità morale) e lo strumento compensativo (il
denaro), la possibilità di una sicura commisurazione
della liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal
danneggiato; e tuttavia i diritti lesi si presentino
uguali per tutti, sicché solo un'uniformità pecuniaria
di base può valere ad assicurare una tendenziale
uguaglianza di trattamento, ad un tempo sintomo e
garanzia dell'adeguatezza della regola equitativa
applicata nel singolo caso, salva la flessibilità
imposta dalla considerazione del particolare.
3.2.3.- La regola della proporzione, intesa quale
parità di trattamento, è già stata affermata in numerose
occasioni sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte
di cassazione, con riferimento alla liquidazione del
danno biologico.
Nella motivazione della sentenza 14 luglio 1986, n.
184, la Consulta chiari che nella liquidazione del danno
alla salute il giudice deve combinare due elementi: da
un lato una "uniformità pecuniaria di base", la quale
assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato
in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto;
dell'altro elasticità e flessibilità, per adeguare la
liquidazione all'effettiva incidenza della menomazione
sulle attività della vita quotidiana.
Il criterio della compresenza di uniformità e
flessibilità è stato condiviso da questa Corte, la quale
ha ripetutamente affermato che nella liquidazione del
danno biologico il giudice del merito deve innanzitutto
individuare un parametro uniforme per tutti, e poi
adattare quantitativamente o qualitativamente tale
parametro alle circostanze del caso concreto.
In definitiva la liquidazione equitativa dei danni
alla persona deve evitare due estremi:
- da un lato, che i criteri di liquidazione siano
rigidamente fissati in astratto e sia sottratta al
giudice qualsiasi seria possibilità di adattare i
criteri legali alle circostanze del caso concreto (in
questo modo L'ordinamento garantirebbe sì la massima
uguaglianza, oltre che la prevedibilità delle decisioni,
ma impedirebbe nello stesso tempo un'adeguata
personalizzazione del risarcimento);
- dall'altro, che il giudizio di equità sia
completamente affidato alla intuizione soggettiva del
giudice, al di fuori di qualsiasi criterio generale
valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni
(sarebbe, infatti, bensì teoricamente assicurata
un'adeguata personalizzazione del risarcimento, ma
verrebbe meno la parità di trattamento e, con essa, la
prevedibilità dell'esito del giudizio, costituente uno
dei più efficaci disincentivi alle liti giudiziarie).
Il conseguimento di una ragionevole equità nella
liquidazione del danno deve perciò ubbidire a due
principi che, essendo tendenzialmente contrapposti (la
fissazione di criteri generali e la loro adattabilità al
caso concreto), non possono essere applicati in modo
"puro". Il contemperamento delle due esigenze di cui si
è detto richiede sistemi di liquidazione che associno
all'uniformità pecuniaria di base del risarcimento ampi
poteri equitativi del giudice, eventualmente entro
limiti minimi e massimi, necessari al fine di adattare
la misura del risarcimento alle circostanze del caso
concreto.
Non sarebbe infatti possibile ritenere rispettata la
regola di uguaglianza per il solo fatto che i criteri
standard per la liquidazione del danno non patrimoniale
risultino uniformi per le controversie decise dal
medesirrc ufficio giudiziario o dal medesimo giudice; e
costituirebbe una contradictìo in adiecto l'affermare
che l'equità in linea di princìpio esige (anche) parità
di trattamento e l'accettare poi che tale parità possa
appagarsi di un'uniformità solo locale. La circostanza
che lesioni della stessa entità, patite da persone della
stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate
- come sopra s'è rilevato - in modo fortemente difforme
non può ritenersi una mera circostanza di fatto, come
tale indeducibile al rospetto della Corte di cassazione
e da questa incensurabile; deve, al contrario,
apprezzarsi come violazione della regola di equità, per
come sopra ricostruita, in quanto tale soggetta al
giudizio di legittimità: come l'"equità-adeguatezza"
costituisce esclusivo appannaggio del giudice di merito
quale organo giudicante chiamato ad apprezzare tutte le
peculiarità del caso concreto, sicché
quell'apprezzamento è incensurabile in sede di
legittimità se correttamente motivato, cosi spetta alla
Corte di cassazione stabilire quali siano i criteri
generali cui i giudici di merito devono attenersi nel
loro delicato ufficio per far si, da un lato, che
l'equità non rischi di trasmodare in involontario
arbitrio e, dall'altro, che cessi finalmente
l'insopportabile disparità di trattamento tra cittadino
e cittadino.
E' dunque possibile affermare che:
a) intesa l'equità anche come parità di trattamento,
non può essere sottratta al sindacato in sede di
legittimità la corretta applicazione da parte del
giudice del merito delle regole di equità di cui agli
artt. 1226 e 2056 c.c,, come sopra ricostruite;
b) il rispetto dei principi di adeguatezza e di
proporzione di cui si è detto presuppone l'adozione di
un parametro di liquidazione uniforme, che possa essere
modulato a seconda delle circostanze del caso concreto;
c) poiché, ai.sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento
giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, è
compito della corte di cassazione assicurare l'esatta
osservanza, "l'uniforme interpretazione della legge" e
"l'unità del diritto oggettivo nazionale", non esula dai
suoi poteri-doveri quello di dettare i criteri necessari
affinché sia garantita l'interpretazione uniforme delle
menzionate disposizioni normative, riguardate come
affermative anche del princìpio della parità di
trattamento. La correttezza della conclusione in ordine
al potere dellaCorte di dettare valori medi di
riferimento per la stima del danno alla persona a
seguito dell'operata interpretazione dell'art. 1226 cod.
civ. è avallata dall'art. 3 Cost. che, imponendo la
parità di trattamento tra i cittadini, non consento
interpretazioni della legge che quella parità violino
proprio in materia di diritti fondamentali; dall'art. 32
Cost. che, proclamando solennemente la inviolabilità del
diritto alla salute, non sarebbe coerentemente applicato
se il ristoro del danno derivato dalla sua lesione
ubbidisse a diversi criteri in relazione alla
localizzazione del giudice competente; dal novellato
art. 111, comma 2, Cost., volta che la prevedibilità
delle decisioni giudiziarie, garantita dall'esistenza di
un minimo comune denominatore dell'equità risarcitoria,
è il principale strumento in grado di deflazionare il
contenzioso, smorzando da un lato appetiti indebiti,
dall'altro resistenze ingiustificate.
Questa Corte del resto, nella parte in cui ha
ammesso, sia pure sotto il profilo del vìzio di
motivazione, che la liquidazione equitativa compiuta dal
giudice di merito possa essere sindacata se incongrua e
quindi "sproporzionata" rispetto al caso concreto, ha in
qualche modo già riconosciuto quanto si è venuti fin qui
dicendo; che, cioè, l'equità è anche "proporzione" e che
non possono essere accettate liquidazioni equitative che
si discostino da un minimo comune denominatore
dell'equità risarcitoria (cfr., tra le tante, Cass. 12
dicembre 2009, n. 21191, 28 novembre 2008, n. 28407; 29
settembre 2005, n. 19171; 3 agosto 2005, n. 16225; 23
febbraio 2005, n. 3766; 21 maggio 1996, n. 4671).
3.2.4.- Va dunque stabilito quale il comune
denominatore sia e, prirn'ancora, se per i danni alla
salute che abbiano causato soltanto postumi temporanei,
ovvero postumi permanenti pari o inferiori al 9% cella
complessiva validità dell' individuo, si debba o no
operare l'applicazione analogica dell'art. 139 del
codice delle assicurazioni, dettato per il ristoro dei
danni alla persona causati da sinistri stradali.
Tre linee di pensiero si contendono il campo.
La prima, favorevole all'applicazione analogica, si
basa sul rilievo che tra lesioni derivanti dalla
circolazione stradale e lesioni derivanti da altre cause
non v'è altra differenza che il mezzo col quale le
lesioni sono state inferte; e proclama tale differenza
giuridicamente irrilevante, salva la valutazione di
conformità della disposizione citata alla Costituzione
nella parte in cui pone un tetto alla personalizzazione
del danno e rende potenzialmente inadeguata la somma
complessivamente riconoscibile a titolo di risarcimento
(la Corte costituzionale, investita dal giudice di pace
di Torino della relativa questione di legittimità
costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76
Cost., l'ha dichiarata manifestamente inammissibile con
ordinanza 23 aprile 2011, n. 157 per ravvisate carenze
di prospettazione da parte del giudice di pace a quo).
La seconda, contraria all'applicazione analogicar fa
leva sulla collocazione dalla disposizione nel "Codice
delle assicurazioni private" e, in particolare, nel
"Titolo X: Assicurazione obbligatoria per i veicoli a
motore e i natanti", e sulla ratio legis, volta a dare
una risposta settoriale al problema della liquidazione
del danno biologico al fine del contenimento dei premi
assicurativi, specie se si considera che, nel campo
della r.c.a., i costì complessivamente affrontati dalle
società di assicurazione per l'indennizzo delle
cosiddette micropermanenti sono di gran lunga superiori
a quelli sopportati per i risarcimenti da lesioni
comportanti postumi più gravi.
La terza linea di pensiero si fonda sul riferimento
del codice delle assicurazioni al solo danno
"biologico", sicché resterebbero comunque estranei
all'ambito applicativo della disposizione in commento i
pregiudizi di carattere non patrimoniale consistenti
nelle sofferenze fisiche o psichiche patite dalla
vittima (il "vecchio" danno corale), che sarebbero
indennizzabili anche in ambita di r.c.a., mediante il
riconoscimento di una somma ulteriore a titolo di
personalizzazione del risarcimento.
La corretta soluzione òè la seconda, fondata su
considerazioni che questa Corte considera preclusive di
un'applicazione analogica: per i postumi di lieve entità
non connessi alla circolazione varranno dunque i criteri
di cui al paragrafo successivo, indipendentemente dalla
gravità dei postumi (inferiori o superiori al 9%), e non
quelli posti dall'art. 139 del codice delle
assicurazioni.
Quanto ai postumi di lieve entità derivati invece da
lesioni verificatesi per sinistri stradali, il citato
art, 139 va applicato in linea coi principi enunciati
dalle Sezioni unite del 2008, le quali (al paragrafa 4.9
delle sentenze più volte citate) hanno affermato; che
costituisce componente del danno biologico "ogni
sofferenza fisica o psichica per sua natura intrinseca";
che determina dunque duplicazione del risarcimento la
congiunta attribuzione del danno biologico e del danno
morale inteso come turbamento dell'animo e dolore
intimo; che il giudice che si avvalga delle note tabelle
dovrà procedere ad un'adeguata personalizzazione del
risarcimento al fine di indennizzare le sofferenze
fisiche o psichiche patite dal soggetto leso.
Ora, l'art. 139, comma 2r cod. assic., stabilendo che
"per danno biologico si intende la lesione temporanea o
permanente all'integrità psicofisica della persona
suscettibile di accertamento medicolegale che esplica
un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli
aspetti dinamico-relazionali della vita del
danneggiato...", ha avuto riguardo ad una concezione del
danno biologico anteriore alle citate sentenze del 2008r
nel quale il limite della personalizzazione -
costituente la modalità attraverso la quale, secondo le
Sezioni unite, è possibile riconoscere le varie "voci
del danno biologico nel suo aspetto dinamico" - è
fissato dalla legge: e lo è in misura non superiore ad
un quinto".
Quante volte, dunque, la lesiona derivi dalla
circolazione di veicoli a motore e di natanti, il danno
non patrimoniale da micro permanente non potrà che
essere liquidato, per tutti i pregiudizi areddituali che
derivino dalla lesiona del diritto alla salute, entro i
limiti stabiliti dalla legge mediante il rinvio al
decreto annualmente emanato dal Ministro delle attività
produttiva (ex art. 139, comma 5), salvo l'aumento da
parte del giudice, "in misura non superiore ad un
quinto, con equo e motivato apprezzamento delle
condizioni soggettive del danneggiato" (art. 139, comma
3).
Solo entro tali limiti il collegio ritiene di poter
condividere il principio enunciato da Cass. 17 settembre
2010, n, 19816, che ha accolto il ricorso in un caso nel
quale il risarcimento del danno "morale" era stato
negato sul presupposto che la tabella normativa non ne
prevede la liquidazione.
3.2.5- In un sistema caratterizzato da divergenti
applicazioni del concetto di equità, la Corte di
cassazione è dunque chiamata ad effettuare un'opzione
tra i tanti criteri concretamente adottati dalla
giurisprudenza. Criteri che si pongono tutti su un piano
di pari dignità concettuale e che costituiscono il
frutto degli spontanei, lodevoli e spesso assai faticosi
sforzi dei giudici di merito volti al perseguimento, in
ambito necessariamente locale, degli stessi scopi che si
intende ora realizzare sul piano nazionale. Il criterio
della media aritmetica, al quale vien fatto
immediatamente di pensare e che in teoria consentirebbe
di indicare come equo un valore rispetto al quale le
liquidazioni previgenti presentano il minore scostamento
in termini assoluti, trova molteplici e determinanti
controindicazioni.
La prima è che la media sarebbe arbitrariamente
effettuata tra valori con pesi ponderali assai diversi.
Ignoto sostanzialmente essendo il numero delle
precedenti decisioni alla quali ciascun ufficio
giudiziario ha fatto riferimento per elaborare le
proprie tabelle, sta il fatto che ogni ufficio ha un suo
proprio organico di magistrati, che il numero del casi
decisi è profondamente diverso tra i vari tribunali, che
gii ambiti territoriali dei vari circondari e distretti
presentano marcatissime differenze, cosi come il numero
degli abitanti e quello degli avvocati in ognuno di essi
operanti. Sarebbe, cosi, privo di qualsiasi senso logico
fare una media, considerando paritetica l'incidenza dei
valori indicati in ciascuna tabella, fra quelle
elaborate da tribunali cui siano addetti poche decine di
giudici e quelle adottate presso uffici giudiziari dove
operino diverse centinaia di magistrati. Difettano, del
pari, indici di sicura attendibilità al fine
dell'attribuzione di pesi ponderali diversificati.
La Seconda controindicazione è insita nei rilievo che
una media è possibile solo tra valori aritmetici e non
anche tra criteri di liquidazione, spesso non omogenei.
La terza controindicazione è costituita dalla
inopportunità che la Corte di legittimità contrapponga
una propria scelta a quella già effettuata dai giudici
di merito di ben sessanta tribunali, anche di grandi
dimensioni (come, ad esempio, Napoli) che, al di là
delle diversità delle condizioni economiche e sociali
dei diversi contesti territoriali, hanno posto a base
del calcolo medio ì valori di riferimento per la
liquidazione del danno alla persona adottati dal
Tribunale di Milano, dei quali è dunque già nei fatti
riconosciuta una sorta di vocazione nazionale. Essi
costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza di
questa Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè
quello in grado di garantite la parità di trattamento e
da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie
concreta non preganti circostanze idonee ad aumentarne o
ridurne l'entità.
Consta, d'altronde, che anche delle menzionate
diversità l'Osservatorio sulla giustizia civile del
Tribunale di Milano ha tenuto conto allorché, a seguito
di un dibattito al quale hanno partecipato giudici ed
avvocati (taluni anche fiduciari di importanti compagnie
assicurative), il 25 giugno 2009 ha adottato la nuova
tabella, significativamente denominata - in ossequio ai
principi enunciati dalle sezioni unite del 2008, dunque
considerati, in una alle conseguenze macroeconomiche
delle decisioni assunte, in termini di costi e benefici
sìa sociali che assicurativi - non più "Tabella per la
liquidazione del danno biologico", bensì "Tabella per la
liquidazione del danno non patrimoniale derivante da
lesione all'integrità psico-fisica", di recente
aggiornata (il 23.3.2011) in riferimento alle variazioni
del costo della vita accertate dall'I.s.T-A-T. nel
periodo 1.1.2009 - 1.1.2011.
Sono Stati contestualmente approvati i nuovi "Criteri
orientativi per liquidazione del danno non patrimoniale
derivante da lesione all'integrità psico-fisica e dalla
perdita/grave lesione del rapporto parentale", ai quali
pure occorrerà fare riferimento, anche per quanto
attiene alla personalizzazione del risarcimento.
3.2.6.- Va qui chiarito che l'avere assunto, con
operazione di natura sostanzialmente ricognitiva, la
tabella milanese a parametro in linea generale
attestante la conformità della valutazione equitativa
dsl danno in parola alle disposizioni di cui agli artt.
1226 e 2056, primo comma, cod civ. non comporterà la
ricorribilità in cassazione, per violazione di legge,
delle sentenze d'appello che abbiano liquidato il danno
in base a diverse tabelle per il solo fatto che non sia
stata applicata la tabella di Milano e che la
liquidazione sarebbe stata di maggiora entità se fossa
stata effettuata sulla base dei valori da quella
indicati.
Perché il ricorso non sia dichiarato inammissibile per
la novità della questione posta non sarà infatti
sufficiente che in appello sia stata prospettata
1'inadeguatezza della liquidazione operata dal primo
giudice, ma occorrerà che il ricorrente si sia
specificamente doluto in secondo grado, sotto il profilo
della violazione di legge, della mancata liquidazione
del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a
Milano; e che, inoltre, nei giudìzi svoltisi in luoghi
diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono
comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato
in atti.
In tanto, dunque, la violazione della regula iuris
potrà essere fatta valere in seda di legittimità ex art.
360, n. 3, cod. proc. civ. in quanto la questione sia
stata specificamente posta nel giudizio di merito (come
accaduto nel caso di specie).
4.- La **** Assicurazioni si duole col ricorso
incidentale di essere stata ritenuta obbligata al
pagamento di rivalutazione ed interessi, senza adeguata
motivazione che ne ponesse in luce il colpevole ritardo
nell'adempinento, "al di là della somma costituente il
già corrisposto massimale".
4.1.- La censura è inammissibile per difetto di
interesse.
Presupposto ne sarebbe che la società assicuratrice
(allora ****) fosse stata effettivamente condannata al
pagamento, per interessi e maggior danno da
svalutazione, oltre i limiti del già versato massimale
di £.1.000.000.000. Ebbene, non solo cosi non è, ma la
corte d'appello ha espressamente detto infondata la
relativa domanda del ****, dichiarando poi in
dispositivo che il medesimo era stato completamente
risarcito con la riscossione della somma suddetta.
5.- Conclusivamente, accolti il primo e, per quanto
di ragione, il secondo motivo del ricorso principale, va
rigettato il ricorso incidentale del **** e dichiarato
inammissibile quello della ****.
La sentenza è cassata in relazione alle censure
accolte con rinvio alla stessa corte d'appallo in
diversa composizione, che deciderà in base ai seguenti
principi di-diritto:
"a) il principio secondo il quale, in tema di scontro
tra veicoli e di applicazione dell'art. 2054 c.c.,
l'accertamento in concreto della colpa di uno dei
conducenti non comporta di per sè il superamento della
presunzione di colpa concorrente dell'altro non può
essere inteso nel senso che, anche quando questa prova
non sìa in concreto possibile e sia positivamente
accertata la responsabilità di uno dei conducenti per
avere tenuto una condotta in sé del tutto idonea a
cagionare l'evento, l'apporto causale colposo dell'altro
conducente debba essere, comunque, in qualche misura
riconosciuto;
b) poiché l'equità va intesa anche come parità di
trattameneo, la liquidazione del danno non patrimoniale
alla persona da lesione dell'integrità psico-fisica
presuppone l'adozione da parte di tutti i giudici di
merito di parametri di valutazione uniformi che, in
difetto di previsioni normative (come l'art. 139 del
codice delle assicurazioni private, per le lesioni di
lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei
veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in
quelli tabellari elaborati presso il tribunale di
Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del
caso concreto".
Al giudice del rinvio è demandata anche la
regolazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
riunisce i ricorsi, accoglie il primo e, per
quanto di ragione, il secondo motivo del ricorso
principale, rigetta
il ricorso incidentale del **** e dichiara inammissibile
quello della **** Assicurazioni, cassa in relazione alle
censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla corte
d'appello di Bari in diversa composizione.
Roma, 25 febbraio 2011.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2011. |