P&D.IT
La S.C. con la sentenza ch si può
leggere in allegato , torna sul tema della
personalizzazione del danno non patrimoniale da
liquidare.
Ribadisce tre principi:
1) la necessità della
personalizzazione della parte del danno non patrimoniale
relativa al danno morale;
2) la possibilità di riferirsi alle
presunzioni (in specie in tema di risarcibilità del
danno non patrimoniale da uccisione o da lesione dello
stretto congiunto);
3) in ogni caso la possibilità di
risarcire i danni esistenziali.
Per la S.C., la sentenza deve
tendere all'obbiettivo della maggiore approssimazione
possibile all'integrale risarcimento. In particolare
riferendosi alle tabelle che, oggi , appaiono le più
aderenti, per la complessità del calcolo, alla
necessaria personalizzazione del danno, ossia le tabelle
milanesi.
Inoltre, il danno non patrimoniale
va sempre allegato e provato, e la prova, secondo le
regole generali, può essere formata con ogni mezzo,
anche tramite la prova presuntiva.
In particolare le presunzioni
rivestono un «un precipuo rilievo» in tema di danno non
patrimoniale da uccisione (o da lesione) del congiunto.
La forza che viene riconosciuta
alle presunzioni, in tema, è tale da onerare il
danneggiante della prova contraria.
Così, anche i pregiudizi
esistenziali, (da risarcire seguendo la Cass. del 2008,
all'interno del danno non patrimoniale), devono essere
risarciti. In altri termini, al di là della
terminologia, il danno esistenziale deve sempre essere
considerato nella liquidazione del danno, aiutando il
giudice nella necessaria personalizzazione del danno. In
effetti, proprio la considerazione del danno
esistenziale permette di adeguare la liquidazione del
danno agli effetti concreti che nella vita della persona
danneggaita ha avuto il comportamento considerato.
L'agenda di vita variata impone di considerare tutte le
poste relative alla vita effettivamente condotta dal
danneggiato, fatto che permette di "confezionare" la
liquidazione del danno con esclusivo riferimento alla
persona del danneggiato.
Corte di Cassazione, sez. III
Civile, sentenza 7 dicembre 2011 – 16 febbraio 2012, n.
2228
Presidente Trifone – Relatore
Scarano
Svolgimento del processo
Con sentenza del 3/6/2009 la Corte
d'Appello di Bologna respingeva il gravame interposto
dai sigg.ri G..G. e M.M., anche in nome e per conto del
figlio minore G.S., in relazione a pronunzia Trib. Forlì
21/10/2003 di parziale accoglimento della domanda
proposta nei confronti dei sigg.ri B.C. e Fa..Br. nonché
della Ausl n. XX di Cesena di risarcimento dei danni
patrimoniali e non patrimoniali rispettivamente sofferti
in conseguenza della paralisi ostetrica del braccio
destro subita dal suindicato minore all'esito di errato
intervento in sede di parto, avvenuto il 27/12/1997
presso l'Ospedale (omissis), che a quest'ultimo
cagionava la lesione del plesso nervoso brachiale.
Avverso la suindicata pronunzia
della corte di merito il G. e la M., anche nella
qualità, propongono ora ricorso per cassazione, affidato
a 10 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con separati
controricorsi la B. e la Ausl n. XX di Cesena, la quale
ultima ha presentato anche memoria.
L'intimato Br. non ha svolto
attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1 motivo i ricorrenti
denunziano violazione e/o falsa applicazione degli artt.
54 c.p., 2045 c.c., in riferimento all'art. 360, 1 co.
n. 3, c.p.c..
Con il 2 motivo denunziano
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1375 c.c.,
in riferimento all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Con il 3 motivo denunziano
violazione e/o falsa applicazione della L. n. 42 del
1999 e del D.M. 15/9/1975, n. 578500, in riferimento
all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Con il 4 motivo denunziano
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1218 e.e, in
riferimento all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Con il 5 motivo denunziano
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223,
1226, 2043, 2056, 2059 c.c., in riferimento all'art.
360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Con il 6 denunziano “motivazione
apparente” su punto decisivo della controversia, in
riferimento all'art. 360, 1 co. n. 5, c.p.c..
I motivi, che possono
congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono
inammissibili, in applicazione degli artt. 366, 1 co. n.
4, 366-bis e 375, 1 co. n. 5, c.p.c..
L'art. 366-bis c.p.c. dispone
infatti che nei casi previsti dall'art. 360, 1 co. nn.
1, 2, 3 e 4 c.p.c. l'illustrazione di ciascun motivo
deve, a pena di inammissibilità, concludersi con la
formulazione di un quesito di diritto (cfr. Cass.,
19/12/2006, n. 27130).
Una formulazione del quesito di
diritto idonea alla sua funzione richiede allora che con
riferimento ad ogni punto della sentenza investito da
motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo
riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed avere
indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima
la diversa regola di diritto sulla cui base il punto
controverso andrebbe viceversa risolto.
Il quesito di diritto deve essere
in particolare specifico e riferibile alla fattispecie
(v. Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), risolutivo del
punto della controversia - tale non essendo la richiesta
di declaratoria di un'astratta affermazione di principio
da parte del giudice di legittimità (v. Cass., 3/8/2007,
n. 17108) -, e non può con esso invero introdursi un
tema nuovo ed estraneo (v. Cass., 17/7/2007, n. 15949).
Il quesito di diritto di cui
all'art. 366 bis c.p.c. deve comprendere l'indicazione
sia della regula iuris adottata nel provvedimento
impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente
assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in
sostituzione del primo, sicché la mancanza anche di una
sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso
inammissibile, non potendo considerarsi in particolare
sufficiente ed idonea la mera generica richiesta di
accertamento della sussistenza della violazione di una
norma di legge (da ultimo v. Cass., 28/5/2009, n.
12649).
Orbene, nel non osservare i
requisiti richiesti dallo schema delineato in
giurisprudenza di legittimità (cfr. in particolare Cass.
Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 5/1/2007,
n. 36), i quesiti recati dal ricorso risultano formulati
in termini difformi dal suindicato schema, non recando
la riassuntiva indicazione degli aspetti di fatto
rilevanti, del modo in cui i giudici del merito li hanno
rispettivamente decisi, nonché della diverse regole di
diritto la cui applicazione avrebbe condotto a diversa
decisione, palesandosi astratti e generici,
sostanziandosi nella richiesta di generici principi di
diritto e a tale stregua privi di riferibilità al caso
concreto in esame e di decisività tali da consentire, in
base alla loro sola lettura (v. Cass., Sez. Un.,
27/3/2009, n. 7433; Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519; Cass.
Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., 7/4/2009, n. 8463),
di individuare la soluzione adottata dalla sentenza
impugnata e di precisare i termini della contestazione
(cfr. Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez.
Un., 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n.
20360), nonché di circoscrivere la pronunzia nei limiti
del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez.
Un., 26/03/2007, n. 7258), senza che essi debbano
richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in
più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass.,
23/6/2008, n. 17064).
L’inidonea formulazione del quesito
di diritto equivale invero alla relativa omessa
formulazione, in quanto nel dettare una prescrizione di
ordine formale la norma incide anche sulla sostanza
dell'impugnazione, imponendo al ricorrente di chiarire
con il quesito l'errore di diritto imputato alla
sentenza impugnata in relazione alla concreta
fattispecie (v. Cass., 7/4/2009, n. 8463; Cass. Sez.
un., 30/10/2008, n. 26020; Cass. Sez. un., 25/11/2008.
n. 28054), (anche) in tal caso rimanendo vanificata la
finalità di consentire a questa Corte il miglior
esercizio della funzione nomofilattica sottesa alla
disciplina del quesito introdotta con il d.lgs. n. 40
del 2006 (cfr., da ultimo, Cass. Sez. un., 10/9/2009, n.
19444).
La norma di cui all'art. 366 bis
c.p.c. è d'altro canto insuscettibile di essere
interpretata nel senso che il quesito di diritto possa,
e a fortiori debba, desumersi implicitamente dalla
formulazione del motivo, giacché una siffatta
interpretazione si risolverebbe nell'abrogazione tacita
della norma in questione (v. Cass. Sez. Un., 5/2/2008,
n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).
Quanto al pure denunziato vizio di
motivazione, a completamento della relativa esposizione
esso deve indefettibilmente contenere la sintetica e
riassuntiva indicazione: a) del fatto controverso; b)
degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe
dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti
logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe
stata necessaria (art. 366-bis c.p.c.).
Al riguardo, si è precisato che
l'art. 366-bis c.p.c. rispetto alla mera illustrazione
del motivo impone un contenuto specifico autonomamente
ed immediatamente individuabile, ai fini
dell'assolvimento del relativo onere essendo pertanto
necessario che una parte del medesimo venga a tale
indicazione “specificamente destinata” (v. Cass.,
18/7/2007, n. 16002).
Orbene, nel caso il 6 motivo non
reca la "chiara indicazione" - nei termini più sopra
indicati- delle relative "ragioni", inammissibilmente
rimettendosene l'individuazione all'attività esegetica
di questa Corte, con interpretazione che si risolverebbe
nell'abrogazione tacita della norma in questione (cfr.
Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un.,
26/03/2007, n. 7258).
I motivi si palesano pertanto privi
dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dai
sopra richiamati articoli, nella specie applicantisi nel
testo modificato dal D. Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
essendo stata l'impugnata sentenza pubblicata
successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in
vigore del medesimo.
Con il 7 motivo i ricorrenti
denunziano violazione degli artt. 1226, 2059 c.c., in
riferimento all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Lamentano che i giudici del merito
hanno liquidato il danno morale quale frazione del danno
biologico, a tale stregua omettendone la debita
personalizzazione.
Il motivo è fondato e va accolto
nei termini di seguito indicati.
Come questa Corte - in termini
generali in tema di liquidazione dei diversi aspetti o
voci di cui l'unitaria categoria del danno non
patrimoniale si compendia - ha già avuto modo di
affermare, l'applicazione dei criteri di valutazione
equitativa, rimessa alla prudente discrezionalità del
giudice, deve consentirne - sia in caso di adozione del
criterio equitativo puro che di applicazione di criteri
predeterminati e standardizzati (in tal caso previa la
definizione di una regola ponderale commisurata al caso
specifico: es., in base al valore medio del punto di
invalidità calcolato sulla media dei precedenti
giudiziari) -, la maggiore approssimazione possibile
all'integrale risarcimento.
A tal fine i criteri di
liquidazione adottati dal giudice debbono essere
pertanto idonei a garantire la c.d. personalizzazione
del danno (v. Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., Sez.
Un., 11/11/2008, n. 26972).
Questa Corte (oltre a porre in
rilievo che le tabelle del Tribunale di Milano risultano
essere, in ragione della loro "vocazione nazionale" in
quanto le statisticamente maggiormente testate, le più
idonee ad essere assunte quale criterio generale di
valutazione che, con l'apporto dei necessari ed
opportuni correttivi ai fini della c.d.
personalizzazione del ristoro, consenta di pervenire
alla relativa determinazione in termini maggiormente
congrui, sia sul piano dell'effettività del ristoro del
pregiudizio che di quello della relativa perequazione -
nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi
concreti - sul territorio nazionale: v. Cass., 7/6/2011,
n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 12/7/2006,
n. 15760) ha al riguardo sottolineato che il mero
riferimento ad una percentuale di quanto liquidato a
titolo di risarcimento del danno biologico non consente
invero di cogliere quale sia stato il punto di
riferimento dai giudici di merito in concreto preso in
considerazione nel caso di specie ai fini della debita
personalizzazione della liquidazione del danno morale
(cfr. Cass., 13/5/2011, n. 10528; Cass., 28/11/2008, n.
28423; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/7/2006, n.
15760), giacché l'adozione di meccanismi semplificativi
di : liquidazione di tipo automatico sono inidonei a far
intendere in quali termini si sia al riguardo tenuto
conto della gravità del fatto, delle condizioni
soggettive della persona, dell'entità della relativa
sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, al fine
di potersi essa considerare congrua ed adeguata risposta
satisfattiva alla lesione della dignità umana (cfr.
Cass., 10/3/2010, n. 5770; Cass., 12/12/2008, n. 29191.
V. altresì Cass., 12/9/2011, n. 18641; Cass., 19/1/2010,
n. 702).
Orbene, nell'affermare che “la
liquidazione del danno morale in favore del minore,
calcolata dal giudice in ragione della metà del danno
biologico, è da reputarsi congrua ed adeguata al caso
concreto ed in linea con i criteri utilizzati anche da
questa Corte”, la corte di merito ha invero disatteso i
suindicati principi, sicché della medesima s'impone la
cassazione in relazione.
Con l’8 motivo i ricorrenti
denunziano violazione degli artt. 1223, 2056, 2059 c.c.,
in riferimento all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Si dolgono che erroneamente la
corte di merito abbia nel caso negato il danno non
patrimoniale (morale e biologico) argomentando dal
rilievo che la lesione non incide sul rapporto
parentale.
Con il 9 denunziano “motivazione
apparente” su punto decisivo della controversia, in
riferimento all'art. 360, 1 co. n. 5, c.p.c..
Con il 10 motivo denunziano
violazione degli artt. 1223, 2059 c.c., in riferimento
all'art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..
Si dolgono che erroneamente si sia
dalla corte di merito negato il ristoro del danno
esistenziale, laddove il riverberare del loro patema
d'animo e della loro “angoscia” e del loro “timore per
il futuro della famiglia e del figlio” in relazioni
familiari di “carattere più cupo” era evincibile
mediante la prova per presunzioni, ulteriormente
lamentando come la circostanza che “la madre aveva
dovuto lasciare il lavoro per seguire il figlio” avesse
trovato invero conferma nella assunta prova
testimoniale.
I motivi, che possono
congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono
fondati e vanno accolti nei termini di seguito indicati.
Come le Sezioni Unite di questa
Corte hanno avuto modo di affermare nel 2008, il danno,
anche in caso di lesione di valori della persona, non
può considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe
snaturata la funzione del risarcimento che verrebbe ad
essere concesso non in conseguenza dell'effettivo
accertamento di un danno bensì quale pena privata per un
comportamento lesivo (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008,
n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass.,
Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26975), ma va provato dal danneggiato
secondo la regola generale ex art. 2697 c.c..
A tale stregua, (pure) il danno non
patrimoniale va dunque sempre allegato e provato, in
quanto, come osservato anche in dottrina, l'onere della
prova non dipende dalla relativa qualificazione in
termini di "danno-conseguenza", tutti i danni
extracontrattuali dovendo essere provati da chi ne
pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non
patrimoniale, nei suoi vari aspetti, e la prova può
essere data con ogni mezzo (v., in particolare,
successivamente alle pronunzie delle Sezioni Unite del
2008, Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 5/10/2009, n.
21223; Cass., 22/7/2009, n. 17101; Cass., 1/7/2009, n.
15405).
Trattandosi di pregiudizio (non
biologico) a bene immateriale, particolare rilievo
assume peraltro la prova presuntiva (v. Cass., Sez. Un.,
15/1/2009, n. 794; Cass., 19/12/2008, n. 29832).
Se attraverso il ricorso alle
presunzioni (nonché l'esplicazione, se del caso, dei
poteri istruttori attribuitigli dall'art. 421 c.p.c.)
non può sopperirsi al mancato esercizio dell'onere di
allegazione, concernente sia l'oggetto della domanda che
le circostanze in fatto su cui la stessa si fonda (cfr.
Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844;
Cass., Sez. Un., 6 marzo 2009, n. 6454), la prova in
particolare del danno non patrimoniale da uccisione o da
lesione dello stretto congiunto ben può essere data
anche a mezzo di presunzioni (v. Cass., 31/05/2003, n.
8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828; Cass., 19/8/2003, n.
12124; Cass., 15/7/2005, n. 15022; Cass., 12/6/2006, n.
13546), che in argomento assumono anzi "precipuo
rilievo" (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
In particolare, ove il danneggiato
abbia come nella specie allegato sia il fatto base della
normale e pacifica convivenza del proprio nucleo
familiare sia che le gravi lesioni subite dal proprio
congiunto all'esito del fatto/evento lesivo hanno
comportato una sofferenza inferiore tale da determinare
un'alterazione del proprio relazionarsi con il mondo
esterno, inducendolo a scelte di vita diverse, incombe
al danneggiante dare la prova contraria idonea a vincere
la presunzione della sofferenza interiore, così come
dello "sconvolgimento esistenziale" riverberante anche
in obiettivi e radicali scelte di vita diverse (c.d.
danno esistenziale: v. Cass., 13/572011, n. 10527;
Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 12/6/2006, n. 13546;
Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ), che dalla perdita
o anche solo dalla "lesione" (cfr. Cass., 3/4/2008, n.
8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass., 31/5/2003, n.
8827; Cass., Sez. Un., 1/7/2002, n. 9556) del rapporto
parentale secondo l’id quod plerumque accidit per lo
stretto congiunto normalmente discendono (v. Cass., Sez.
Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546;
Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
Il principio di integrante del
risarcimento del danno impone che nessuno degli aspetti
di cui si compendia la categoria generale del danno non
patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso
concreto accertata, rimanga priva di ristoro.
Orbene, nel caso la sig. M..M.,
madre del G.S. , ha domandato il ristoro (anche) del
lamentato danno non patrimoniale iure proprio
conseguentemente sofferto, in particolare deducendo e
allegando che la propria sofferenza interiore per le
gravi lesioni subite dal figlio convivente l'ha indotta
ad abbandonare il lavoro al fine di dedicarsi
esclusivamente alla cura del medesimo, bisognevole di
assistenza in ragione della gravità delle lesioni
psicofisiche riportate al momento della nascita.
Va per altro verso ribadito che il
danno non patrimoniale iure proprio del congiunto, è
ristorabile non solo in caso di perdita ma anche di mera
lesione del rapporto parentale (cfr., con riferimento al
danno morale in favore dei prossimi congiunti della
vittima di lesioni colpose, v. Cass., 3/4/2008, n. 8546;
Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass., 31/5/2003, n. 8827;
Cass., Sez. Un., 1/7/2002, n. 9556; Cass., 1/12/1999, n.
13358. E già Cass., 2/4/1998, n. 4186).
Emerge allora evidente come
nell'affermare che “Se è vero che ai prossimi congiunti
di persona che abbia subito a causa di fatto illecito,
costituente reato, lesioni personali spetta anche il
risarcimento del danno morale concretamente accertato in
relazione ad una particolare situazione affettiva con la
vittima... questi tipi di pregiudizi riflessi possono
ravvisarsi e quindi risarcirsi a condizione che le
lesioni, per la loro natura e gravità, incidano,
compromettendola sulla relazione affettiva tra la
vittima e i genitori. Nel caso all'esame non risulta, né
è stato provato, né può esserlo in questa fase di
giudizio con la richiesta del tutto nuova di ammissione
di una c.t.u. (che va quindi rigettata), che le lesioni
permanenti riportate da S., peraltro... concentrate solo
all'arto superiore del braccio destro, abbiano
riverberato i propri effetti negativi sul legame con i
genitori”, e nel conseguentemente negare il risarcimento
del danno non patrimoniale sulla base della ritenuta
mancanza di qualsiasi elemento idoneo a provare tale
specifico profilo relazionale o esistenziale, la corte
di merito ha nell'impugnata sentenza invero disatteso i
suindicati principi.
Anziché rigettare la domanda,
argomentando dalla ritenuta carenza di prova in
proposito, la corte di merito avrebbe dovuto invero
ritenere, in assenza di prova contraria, presuntivamente
provato anche il profilo di danno non patrimoniale in
questione.
A fortiori in considerazione della
circostanza, allegata dall'odierna ricorrente M. e
trovante riscontro nella riportata deposizione della
teste sig. Pa..Bo. resa all'udienza dell'8/3/2001 nel
corso del giudizio di primo grado (“La M ora non lavora
perché deve seguire il bambino; ha smesso di lavorare
praticamente da quando è nato S.”), deponente per un
radicale cambiamento di vita, dell'avere abbandonato
l'attività lavorativa svolta per molti anni alle
dipendenze della Cooperativa Copua con sede in … per
potersi dedicare esclusivamente alla continua cura e
assistenza del figlio che ne abbisognava in ragione
delle L gravi lesioni riportate sin dalla nascita (cfr.
Cass., 6/4/2011, n. 7844).
Dell'impugnata sentenza s'impone
pertanto (anche) in parte qua la cassazione, con rinvio
alla Corte d'Appello di Bologna che, in diversa
composizione, procederà a nuovo esame, facendo
applicazione dei seguenti principi di diritto:
“- La liquidazione del danno morale
operata mediante il meccanismo semplificativo del
riferimento ad una mera frazione di quanto liquidato a
titolo di risarcimento del danno biologico non consente
di cogliere quale sia stato il punto di riferimento dai
giudici di merito in concreto preso in considerazione ai
fini della debita personalizzazione della liquidazione
del danno morale ai cui fini, per potersi considerare
congrua ed adeguata risposta satisfattiva alla lesione
della dignità umana, è necessario che possa evincersi in
quali termini si sia tenuto conto della gravità del
fatto, delle condizioni soggettive della persona,
dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento
dello stato d'animo.
- Al genitore di persona che abbia
subito la paralisi ostetrica del braccio destro
all'esito di errato intervento in sede di parto spetta
il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto in
conseguenza di tale evento, dovendo ai fini della
liquidazione del relativo ristoro tenersi in
considerazione la sofferenza (o patema d'animo) anche
sotto il profilo della sua degenerazione in obiettivi
profili relazionali.
La prova di tale danno può essere
data anche con presunzioni. Ne consegue che in presenza
dell'allegazione del fatto-base delle gravi lesioni
subite dal figlio convivente, il giudice deve ritenere
provata la sofferenza inferiore (o patema d'animo) e lo
sconvolgimento dell'esistenza che (anche) per la madre
ne derivano, dovendo nella liquidazione del relativo
ristoro tenere conto di entrambi i suddetti profili, ivi
ricompresa la degenerazione della sofferenza interiore
di quest'ultima come nella specie riverberantesi nella
scelta di abbandonare il lavoro al fine di dedicarsi
esclusivamente alla cura del figlio, bisognevole di
assistenza in ragione della gravità della riportata
lesione. Incombe alla parte a cui sfavore opera la
presunzione dare la prova contraria idonea a vincerla,
con valutazione al riguardo spettante al giudice di
merito”.
Il giudice del rinvio provvederà
anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il 7, l'8, il 9
il 10 motivo di ricorso. Dichiara inammissibili gli
altri. Cassa in relazione l'impugnata sentenza e rinvia,
anche per le spese del giudizio di cassazione, alla
Corte d'Appello di Bologna, in diversa composizione.
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