I litigi tra coniugi sono
abbastanza frequenti e, spesso, sfuggono parole forti.
Niente di che, poi le parti si rappacificano. Ma, dire
alla moglie “ti ammazzo”, anche se il coniuge che ha
proferito l’espressione non ha alcuna seria intenzione
di uccidere la moglie, configura il reato, penalmente
perseguibile, di ingiuria e minaccia. Così, l’uomo viene
condannato, dal Tribunale di Roma, alla pena di Euro 700
di multa e al risarcimento dei danni nei confronti della
parte civile. Il marito tenta la via della Cassazione e
promuove ricorso, denunciando che quanto all’espressione
“ti ammazzo”, va escluso che questa abbia determinato
nella donna il timore del verificarsi del male
prospettato, tenendo conto della sua condotta
immediatamente successiva.
La moglie, infatti, solo dopo dieci
giorni, ha denunciato il fatto ai carabinieri, ma ha
continuato a vivere con l’imputato per diverse
settimane. L’esimente va riconosciuta in quanto è emerso
che i coniugi erano soliti insultarsi reciprocamente e
non ha rilievo l’aspetto cronologico, nel senso
dell’individuazione di chi abbia ingiuriato per primo.
Con la Sentenza n. 46452/2011, la Suprema Corte rigetta
il ricorso. La rilevanza penale della minaccia a norma
dell’art. 612 c.p., “Minaccia ” chiunque minaccia a
altri un ingiusto danno è punito, a querela della
persona offesa, è determinata dalla configurazione della
minaccia quale reato di pericolo: per la sua
integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia
realmente leso, essendo sufficiente che il male
prospettato possa incutere timore nel destinatario,
menomandone potenzialmente, secondo un criterio di
medianità riecheggiante le reazioni della donna e
dell’uomo comune, la sfera di libertà morale. Pertanto,
razionalmente riconosciuta alla prospettazione di morte
violenta un carica potenzialmente paralizzante della
libertà morale della donna, nessun rilievo può avere la
concreta sussistenza di questa limitazione.
La reciprocità delle offese e il
nesso di dipendenza delle ingiurie del marito da altre
della moglie sono affermate, ma assolutamente non
provate dal ricorrente, rendendo quindi del tutto
inconsistente la richiesta dell’affermazione
dell’esimente. Una presunzione di pari volgarità nelle
espressioni critiche della donna è radicalmente
ingiustificabile.
Anna Teresa Paciotti
Corte di Cassazione – Sentenza n. 46542/2011
Dicembre
15, 2011 · Categoria
Leggi e Sentenze Circolari
Minaccia la moglie “ti ammazzo” - Ha rilevanza penale il
fatto che il male prospettato incute timore nel
destinatario
Corte di Cassazione Sez. Quinta Pen. - Sent. del
15.12.2011 n. 46542
Fatto e diritto
Con sentenza 17.6.2010, il tribunale di Roma, sezione
distaccata di Ostia, ha confermato la sentenza 13.2.09
del giudice di pace della stessa sede con la quale M.M.
era stato condannato alla pena di Euro 700 di multa, al
risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese, in
favore della parte civile, in quanto ritenuto
responsabile dei reati, uniti dal vincolo della
continuazione, di lesioni ingiuria, minaccia in danno
della moglie Ma.Ba. Il tribunale ha accolto il ricorso
incidentale della parte civile e ha condannato il M.
alla rifusione delle spese da questa sostenute nel primo
grado di giudizio.
Il M. ha presentato ricorso per i seguenti motivi:
1. violazione di legge in riferimento all’art. 43 c.p.:
l’imputato, in sede di interrogatorio, ha escluso la
volontarietà del comportamento da cui sono derivate le
lesioni e il giudice non ha valutato gli elementi di
prova emersi dall’istruttoria dibattimentale, con
particolare riguardo alla diagnosi contenuta nel
certificato medico, e ha respinto la tesi difensiva,
sulla base del presupposto della carenza di prova a suo
sostegno, invertendo così l’onere della prova.
2. violazione di legge in riferimento alla valutazione
dell’attendibilità della persona offesa: il giudice ha
riconosciuto credibilità alla Ma. , senza tener conto
della sua posizione di parte civile, interessata a un
determinato esito del processo; il vaglio della sua
credibilità avrebbe dovuto essere tanto più rigoroso, in
ragione della pendenza tra le parti del procedimento di
separazione.
3. vizio di motivazione in relazione alla valutazione
della portata offensiva delle parole, che sono state
considerate penalmente rilevanti senza specificare se a
norma dell’art. 594 o 612 c.p.
Il ricorrente ha negato di aver pronunciato queste
parole e, quanto all’espressione “ti ammazzo”, va
escluso che abbia determinato nella donna il timore del
verificarsi del male prospettato, tenendo conto della
sua condotta immediatamente successiva. La Ma. ,
infatti, solo dopo dieci giorni, ha denunciato il fatto
ai carabinieri, e ha continuato a vivere con l’imputato
per diverse settimane.
4. violazione di legge in riferimento all’art. 599 co. 1
c.p.: l’esimente va riconosciuta in quanto è emerso che
i coniugi erano soliti insultarsi reciprocamente e non
ha rilievo l’aspetto cronologico, nel senso
dell’individuazione di chi abbia ingiuriato per primo;
5. violazione di legge in riferimento all’accoglimento
della richiesta di rifusione delle spese del primo grado
di giudizio, in quanto l’appello incidentale avrebbe
dovuto costituire atto autonomo e non atto presentato in
via incidentale.
Il ricorso non merita accoglimento.
Va rilevato, in via di premessa, che le due sentenza di
merito, avendo seguito un iter argomentativo comune,
sono da considerare un unico risultato di un organico e
inscindibile accertamento giudiziale. Pertanto la
seguente analisi si basa sulle argomentazioni fattuali e
sulle valutazioni configurate da questo complesso
accertamento.
Il carattere doloso delle lesioni emerge in maniera
netta e incontestabile dalla ricostruzione del
comportamento aggressivo dell’imputato, effettuato dai
giudici di merito sulla base delle dichiarazioni della
persona offesa e della certificazione medica. Tali
elementi di fatto sono stati valutati con rigorosa e
lineare razionalità e le correlate conclusioni sono
assolutamente insindacabili in sede di giudizio di
legittimità.
Quanto alla credibilità riconosciuta alla donna, la
censura formulata dal ricorrente si pone in
ingiustificato contrasto con il consolidato e
condivisibile orientamento interpretativo, secondo cui
questa fonte conoscitiva non presenta una affidabilità
ridotta, bisognevole di conferme dei cosiddetti
riscontri. La testimonianza della persona offesa, al
pari di tutte le testimonianze, deve essere sottoposta
al generale controllo sulle capacità percettive e
mnemoniche del dichiarante, nonché sulla corrispondenza
al vero della sua rievocazione dei fatti, desunta dalla
linearità logica della sua esposizione e dall’assenza di
risultanze processuali incompatibili, caratterizzate da
pari o prevalente spessore di credibilità. Questo
controllo è stato effettuato in maniera esaustiva dalla
sentenza del giudice di appello, che, confermando le
valutazioni del primo giudice, ha rilevato
l’inconsistenza delle censure formulata nell’atto di
gravame.
Le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte
civile, sono ugualmente valutabili e utilizzabili ai
fini della tesi di accusa, poiché, a differenza di
quanto previsto nel processo civile, circa l’incapacità
a deporre del teste che abbia la veste di parte, il
processo penale risponde all’interesse pubblicistico di
accertare la responsabilità dell’imputato, e non può
essere condizionato dall’interesse individuale rispetto
ai profili privatistici, connessi al risarcimento del
danno provocato dal reato, nonché da inconcepibili
limiti al libero convincimento del giudice.
Quanto all’interpretazione delle parole pronunciate del
M. e alla loro specifica rilevanza penale, va rilevato
che, da un lato, la carica lesiva delle parole di cui al
capo B), in danno della rettitudine e della dignità
della donna, una volta riconosciuta la loro pronuncia da
parte dell’imputato, non necessitano di alcuna ulteriore
argomentazione, da parte del giudice di appello, ai fini
della conferma della sua responsabilità.
Quanto all’espressione “ti ammazzo”, la sua rilevanza
penale, a norma dell’art. 612 c.p., è determinata dalla
configurazione della minaccia come reato di pericolo:
per la sua integrazione non è richiesto che il bene
tutelato sia realmente leso, bastando che il male
prospettato possa incutere timore nel destinatario,
menomandone potenzialmente, secondo un criterio di
medianità riecheggiante le reazioni della donna e
dell’uomo comune, la sfera di libertà morale. Pertanto,
razionalmente riconosciuta alla prospettazione di morte
violenta un carica potenzialmente paralizzante della
libertà morale della donna, nessun rilievo può avere la
concreta sussistenza di questa limitazione.
La reciprocità delle offese e il nesso di dipendenza
delle ingiurie del M. da altre della moglie sono
affermate, ma assolutamente non provate dal ricorrente,
rendendo quindi del tutto inconsistente la richiesta
dell’affermazione dell’esimente. Una presunzione di pari
volgarità nelle espressioni critiche della donna è
radicalmente ingiustificabile.
Nessuna irregolarità formale è infine ravvisabile
nell’impugnazione incidentale presentata dalla parte
civile, la cui richiesta di rifusione delle spese è
stata ingiustamente trascurata dal primo giudice.
L’ammontare delle spese, indicate nelle relative note,
redatte dal difensore della Ma. è stato ritenuto congruo
dal giudice di appello, che non ha ritenuto necessario
apporvi alcuna riduzione.
I motivi sono quindi radicalmente infondati a tale
livello da giustificare la dichiarazione di
inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle
Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Depositata in Cancelleria il 15.12.2011
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