L’omessa dichiarazione Ici, o la
denuncia per valori assolutamente irrisori, non deve
riverberarsi sull’indennità di esproprio che a tale
denuncia è rapportata. Viceversa si sancirebbe la totale
elisione di qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore
venale del suolo espropriato e l’ammontare della
indennità, così pregiudicando il diritto ad un serio
ristoro dell’espropriato. Lo ha stabilito la Corte
costituzionale con la sentenza 338/2011 dichiarando
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, comma
1, del Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti
territoriali); nonché l’illegittimità costituzionale, in
via consequenziale, dell’articolo 37, comma 7, del Dpr
327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità).
SENTENZA N. 338
ANNO
2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA;
Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino
CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,
Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio
MATTARELLA,
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 16,
comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.
504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a
norma dell’articolo 4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421),
sostituito dall’art. 37, comma 7, del decreto del
Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità),
promossi dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite
civili, con due ordinanze del 14 aprile 2011, iscritte
ai nn. 158 e 159 del registro ordinanze 2011 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
30, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti
gli atti di costituzione del Consorzio per l’Area di
Sviluppo Industriale Sassari-Porto Torres-Alghero e
dell’Astaldi S.p.a., nonché gli atti di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica dell’8 novembre 2011 e nella
camera di consiglio del 9 novembre 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Tesauro;
uditi
gli avvocati Federico Isetta per il Consorzio per l’Area
di Sviluppo Industriale Sassari-Porto Torres-Alghero,
Vittorio Biagetti per l’Astaldi S.p.a. e l’avvocato
dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— La
Corte di cassazione a Sezioni Unite, con due ordinanze
del 14 aprile 2011, iscritte al reg. ord. n. 158 e n.
159 del 2011, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 16, comma 1, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della
finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4
della L. 23 ottobre 1992, n. 421) — norma abrogata
dall’art. 58, comma 1, numero 134), del decreto del
Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilità), come modificato dal decreto
legislativo 27 dicembre 2002, n. 302 (Modifiche ed
integrazioni al d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante
testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità) a decorrere dal 30 giugno 2003, in virtù
dell’art. 3 del decreto-legge 20 giugno 2002, n. 122
(Disposizioni concernenti proroghe in materia di
sfratti, di edilizia e di espropriazione), convertito
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 1°
agosto 2002, n. 185 — oggi riversata nell’art. 37, comma
7, del citato d.P.R. n. 327 del 2001, in riferimento
agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 ed
all’art. 1 del primo protocollo addizionale della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali.
1.1.—
Con la prima ordinanza il giudice a quo premette in
fatto che L.M.G. ha proposto ricorso per la cassazione
della sentenza della Corte di appello di Catania, che
aveva rideterminato l’indennità dovutale dal Comune di
Caltagirone per l’esproprio di terreni di sua proprietà,
siti nel predetto Comune, destinati alla realizzazione
di alloggi per scopi sociali. A sostegno del ricorso,
venivano prospettati due motivi. Con il primo si
denunciava la violazione di legge per avere la sentenza
fatto applicazione dell’art. 5-bis della legge 8 agosto
1992, n. 359 (Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), di
cui si sosteneva la illegittimità costituzionale. Con il
secondo motivo si denunciava la violazione dell’art. 24
della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocato
e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia
civile), per avere liquidato le spese processuali
violando i minimi tariffari. Il Comune di Caltagirone
resisteva con controricorso e proponeva a sua volta
ricorso incidentale denunciando la mancata decurtazione
della indennità, nella misura del 40%, a norma del
citato art. 5-bis, non avendo l’espropriata accettato la
somma offertale. Con il secondo motivo veniva poi
denunciata la violazione dell’art. 16 del
decreto-legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino
della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art.
4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), in quanto
all’espropriata non avrebbe dovuto essere liquidato
nulla, a titolo di indennità, avendo omesso di
presentare la dichiarazione ICI.
1.2.—
Con la seconda ordinanza la Corte rimettente premette
che A.C., comproprietario pro indiviso di un terreno
situato nel Comune di Sassari, interessato da un
procedimento di espropriazione per pubblica utilità,
aveva proposto opposizione alla stima, dinanzi alla
Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di
Sassari, ai sensi dell’art. 19 della legge 22 ottobre
1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia
residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per
pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi
17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29
settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per
interventi straordinari nel settore dell’edilizia
residenziale, agevolata e convenzionata), nei confronti
del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale
(A.S.I.) Sassari? Porto Torres?Alghero.
Il
Consorzio A.S.I., aveva chiesto nel merito il rigetto
dell’opposizione e la riduzione dell’indennità entro i
limiti dei valori dichiarati ai fini ICI, ovvero
l’esclusione del diritto all’indennità in caso di omessa
dichiarazione, in forza dell’art. 16 del d.lgs. n. 504
del 1992. La Astaldi S.p.a., chiamata in causa dal
Consorzio A.S.I., aveva eccepito, a sua volta, il
difetto di legittimazione aderendo nel resto alle difese
del consorzio.
La
Corte di appello adita aveva proceduto alla
determinazione della indennità di esproprio e di
occupazione dell’area ritenuta edificabile. Quanto alla
richiesta di riduzione dell’indennità entro i limiti dei
valori dichiarati ai fini ICI, ovvero di totale rigetto
della domanda di A.C., per la perdita del diritto alla
indennità, in caso di omessa dichiarazione, la Corte di
appello aveva escluso che nella specie potesse trovare
applicazione il disposto dell’art. 16 del d.lgs. n. 504
del 1992. Ciò, in quanto la norma sarebbe stata
applicabile soltanto nel caso di presentazione della
dichiarazione ICI, nel mentre A.C. «[aveva] dichiarato
di non avere mai presentato alcuna dichiarazione ICI in
relazione ai terreni di cui è causa, di talchè incombeva
al Consorzio A.S.I., che ha domandato la riduzione
dell’indennità di esproprio, dimostrare sia che tale
dichiarazione era stata, invece,
presentata […], sia che
il valore dichiarato era inferiore all’indennità
calcolata ex art. 5-bis, legge n. 359 del 1992)».
Avverso tale decisione proponeva ricorso il Consorzio,
per ottenere la cassazione della sentenza della Corte di
merito.
In
particolare, con il settimo motivo, denunciando la
violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del d.lgs.
n. 504 del 1992, il Consorzio ribadiva la tesi che, in
forza della citata disposizione di legge, l’espropriato,
avendo omesso di presentare la dichiarazione ICI,
relativa ai terreni in questione, non avrebbe potuto
vantare alcun diritto alle indennità di esproprio. A
giudizio del ricorrente, laddove l’art. 16 fosse
applicabile soltanto al caso di denuncia infedele e non
anche al caso di omessa dichiarazione, il sistema
sarebbe irrazionalmente sbilanciato a favore degli
evasori totali, il cui trattamento sanzionatorio sarebbe
paradossalmente migliore di quello riservato agli
evasori parziali. In questo senso il Consorzio ha
eccepito l’incostituzionalità di una simile
interpretazione della norma, con riferimento all’art. 3
Cost.
1.3.—
In entrambi i giudizi la prima sezione civile della
Corte di cassazione, alla quale i ricorsi erano stati
originariamente assegnati, con ordinanze rispettivamente
n. 880 e n. 15317 del 2010, dopo avere rilevato che la
giurisprudenza di legittimità si era conformata
all’indirizzo interpretativo fornito dal giudice delle
leggi, secondo il quale il pagamento dell’indennità di
esproprio deve essere subordinato, in ogni caso, alla
regolarizzazione degli obblighi fiscali, relativi
all’ICI, evidenziava problemi applicativi di non facile
soluzione. In particolare veniva esaminato il
condizionamento reciproco delle procedure, sul piano
della pregiudizialità incrociata delle questioni, con il
correlato rischio di conflitti di giudicati e di cumulo
dei tempi delle due procedure, difficilmente compatibile
con la ragionevole durata dei processi.
Trattandosi di questione di massima di particolare
importanza, le cause erano state rimesse al Primo
Presidente, il quale le aveva poi assegnate alle SS.UU.
1.4.—
Le Sezioni Unite civili hanno quindi sollevato, con le
ordinanze in epigrafe, la questione di legittimità
costituzionale con identica motivazione in diritto,
partendo da una approfondita ricostruzione della
interpretazione dell’art. 16, primo comma, del d.lgs. n.
504 del 1992, nella parte in cui impone la riduzione
della indennità di espropriazione delle aree
fabbricabili, in relazione all’obbligo di dichiarazione
(iniziale) o denuncia (per le variazioni) ICI (art. 10
del d.lgs. n. 504 del 1992, vigente ratione temporis).
La
Corte di cassazione muove dall’interpretazione che della
norma è stata fornita dalla Corte costituzionale, con la
sentenza n. 351 del 2000, che a suo giudizio avrebbe
escluso che la apparente incompletezza della disciplina
dettata dall’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992
(circoscritta alla sola ipotesi della dichiarazione
infedele) fosse in contrasto con l’art. 3 Cost.,
ipotizzando che anche il contribuente evasore totale (al
pari del contribuente infedele) dovesse regolarizzare la
propria posizione fiscale, prima di ottenere il
pagamento dell’indennità di esproprio. Tale tesi
interpretativa, pur seguita anche dagli stessi giudici
di legittimità, tuttavia, non troverebbe il conforto del
tenore letterale della norma, specie alla luce della
costituzionalizzazione del principio del giusto processo
e della sua ragionevole durata. L’interpretazione
seguita dalla sentenza n. 351 del 2000, infatti, pur
avendo il merito di evidenziare che la norma impugnata
debba esplicare i suoi effetti anche sull’evasore
totale, non sarebbe condivisibile perché finirebbe per
introdurre una «inedita procedura di necessitata
conciliazione fiscale, che assurge a condizione di
pagamento dell’indennità di esproprio», laddove
specifica che, «l’evasore totale non viene affatto
avvantaggiato, in quanto è destinato a subire in ogni
caso le sanzioni per la omessa dichiarazione, nonché
l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di evadere;
inoltre, la erogazione dell’indennità di espropriazione
non può intervenire, se non dopo la verifica che non
superi il tetto massimo ragguagliato al ―valore‖
denunciato per l’ICI, e, quindi, solo dopo la
presentazione della denuncia ICI e la conseguente
regolarizzazione della posizione tributaria, con
concreto avvio del recupero dell’imposta e delle
sanzioni. Il che presuppone in ogni caso che si tratti
di area fabbricabile (tale al momento della
dichiarazione) e che il soggetto espropriato, fosse,
alla data di riferimento dell’indennità, tenuto
all’ICI».
A giudizio della Corte
rimettente una simile interpretazione non potrebbe in
questi termini essere seguita, in primo luogo perché la
collocazione sistematica (a ridosso degli artt. 14 e 15
che disciplinano le sanzioni ed il contenzioso ICI) ed
il tenore letterale della norma in esame ne
evidenzierebbero la chiara connotazione sanzionatoria,
collegata al comportamento tenuto dal soggetto.
L’effetto sanzionatorio atipico ed indiretto, costituito
dalla misura extratributaria della riduzione
dell’indennità di esproprio, si aggiunge alle sanzioni
tributarie dirette previste dal precedente art. 14, nel
caso in cui l’area edificabile venga interessata da una
procedura di esproprio (sanzione eventuale).
All’apparato sanzionatorio tipico del sistema tributario
si aggiungerebbe quindi una sanzione accessoria,
atipica, della ―confisca‖ parziale o totale della
indennità o del suolo. Inoltre, l’effetto dell’art. 16,
primo comma, del d.lgs. n. 504 del 1992, opererebbe come
sanzione che non incide sui criteri primari di
determinazione dell’indennità di esproprio ed il
contenzioso tributario sviluppatosi a seguito della
rettifica, da parte dell’ufficio, della dichiarazione o
della denuncia presentata dal contribuente, o
dell’accertamento in caso di omessa dichiarazione o
denuncia, non rileverebbe ai fini dell’ammontare della
eventuale riduzione da praticare sulla indennità.
Il
―fatto illecito‖ sanzionato dalla norma in esame sarebbe
costituito, a giudizio della Corte di cassazione, dalla
presentazione della dichiarazione infedele o dalla
omessa presentazione della stessa. Tutto quanto segue
andrebbe considerato un post factum irrilevante, non in
grado di vanificare o sanare l’illecito già consumato e
perfezionato, a pena del totale svuotamento della forza
cogente della norma.
I
rimettenti ritengono poi, che neppure potrebbe venire in
rilievo l’emendabilità della dichiarazione, non potendo
farsene applicazione in un caso in cui la modificazione
sia giustificata dal solo fine della convenienza di
eludere la riduzione dell’indennità. Infatti, laddove si
spostasse «il baricentro dell’art. 16 dal momento
formale dell’assolvimento degli obblighi fiscali
(dichiarazione denuncia) a quello delle procedure di
verifica dell’ammontare della obbligazione tributaria e
del relativo assolvimento», verrebbe vanificata la
funzione, evidenziata pure dalla Corte costituzionale,
di «incentivare fedeli autodichiarazioni di valore delle
aree fabbricabili ai fini ICI».
1.4.1.— Ciò posto, la Corte rimettente procede ad una
ricognizione dei propri precedenti ed in particolare
quello che aveva seguito l’interpretazione fornita dalla
Corte costituzionale.
A
giudizio delle Sezioni Unite civili, per le ragioni
innanzi esposte, tale orientamento andrebbe rivisto, dal
momento che renderebbe del tutto irrilevante il
comportamento del contribuente contrariamente ad ogni
interpretazione letterale o sistematica, determinando
peraltro un vulnus al principio della ragionevole durata
del processo.
Sulla
base di tutte queste considerazioni, la Corte rimettente
ritiene che l’art. 16, la cui ratio è quella di
rafforzare l’obbligo di dichiarare fedelmente il valore
delle aree fabbricabili, sia basato sul rapporto
sinallagmatico tra valore dichiarato ai fini dell’ICI ed
indennità di esproprio erogabile al contribuente
espropriato. Il contribuente evasore totale, quindi, non
potrebbe pretendere una indennità di esproprio, in
quanto la omessa dichiarazione dovrebbe essere
equivalente alla dichiarazione a valore irrisorio e le
conseguenze non potrebbero essere dissimili. Tanto più
che il comportamento dell’evasore parziale appare
certamente meno grave, avendo perlomeno l’effetto di
esporlo al controllo della dichiarazione.
Conclusivamente, la Corte afferma che l’art. 16 del
d.lgs. n. 504 del 1992, oggi art. 37 del testo unico in
materia di espropriazione per pubblica utilità, deve
essere interpretato nel senso che la ―sanzione‖ della
riduzione dell’indennità di esproprio, in caso di
dichiarazione infedele debba trovare applicazione, con
riferimento all’ultima dichiarazione o denuncia
presentata, prima della determinazione formale
dell’indennità, restando irrilevanti eventuali
successivi atti di ravvedimento o di autorettifiche.
Tale disciplina, inoltre, riguarda anche le ipotesi di
omessa dichiarazione/denuncia ICI, con la conseguenza
che, in caso di omessa dichiarazione ICI, al
contribuente fiscalmente inadempiente, espropriato, non
spetti alcuna indennità.
1.5.—
Tale conclusione, tuttavia, a giudizio della Corte
rimettente appare a sua volta porsi in contrasto con
altri parametri costituzionali, in ragione, per un verso
del mutato quadro normativo
(con riferimento all’art.
117, primo comma Cost., come sostituito dall’art. 3
della legge costituzionale n. 3 del 2001, in relazione
all’art. 42, terzo comma, Cost.), per l’altro
dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte
costituzionale. Secondo tale giurisprudenza, infatti, le
norme che non prevedono un ―serio ristoro‖ del danno
subito per effetto dell’occupazione o
dell’espropriazione di aree edificabili, si pongono in
contrasto con l’art. 42, terzo comma Cost., e con gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. l del primo
protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è
tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, primo comma,
Cost. (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
Il
giudice a quo, inoltre, esclusa ogni possibilità di
un’interpretazione che possa condurre ad individuare una
sorta di «valore minimo garantito», anche in caso di
omessa dichiarazione o di dichiarazione di valore
irrisorio, ritiene che la norma in questione alteri il
rapporto diretto tra l’entità della sanzione e la
gravità della violazione. Pertanto, la disciplina
censurata, condizionando, sulla base di elementi e
circostanze che nulla hanno a che vedere con il danno
conseguente all’esproprio e con i criteri che attengono
alla congruità della indennità dovuta all’espropriato,
sarebbe per ciò stesso incostituzionale, potendo
determinare persino la vanificazione del ristoro. E ciò,
anche prendendo in considerazione la giurisprudenza
della Corte costituzionale, secondo cui l’art. 42, terzo
comma, Cost., pur non imponendo al legislatore il dovere
di commisurare integralmente l’indennità di
espropriazione al valore di mercato del bene ablato,
attesa la «funzione sociale» della proprietà, necessita
comunque che sia conservato un «ragionevole legame» con
il valore venale, a garanzia di un «serio ristoro».
1.6.—
La Corte rimettente ha chiesto quindi di dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1,
del d.lgs. n. 504 del 1992 (oggi art. 37, comma 7,
d.P.R. n. 327 del 2001), nella parte in cui, in caso di
omessa dichiarazione/denuncia ICI o di
dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori,
non stabilisce un limite alla riduzione dell’indennità
di esproprio, idoneo ad impedire la totale elisione di
qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del
suolo espropriato e l’ammontare della indennità,
pregiudicando in tal modo anche il diritto ad un serio
ristoro, spettante all’espropriato.
2.— In
entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri con atti di identico contenuto
depositati il 28 luglio 2011, chiedendo che la questione
proposta sia dichiarata inammissibile o, comunque,
infondata.
Secondo l’Avvocatura dello Stato l’interpretazione
seguita dalla Corte di cassazione, che esclude la
possibilità del cosiddetto pentimento premiale,
condurrebbe a conclusioni paradossali. Nel caso di
omessa dichiarazione, infatti, la mancanza di una
indicazione circa il valore dell’immobile, utile come
parametro per la determinazione dell’indennità di
esproprio, comporterebbe, alternativamente, o il mancato
riconoscimento di un’indennità di espropriazione o il
riconoscimento di un trattamento più favorevole rispetto
al dichiarante infedele. Ciò in quanto, alla luce
dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, il quale
prevede che l’indennità di esproprio sia determinata in
misura pari al valore venale del bene, colui che abbia
omesso la dichiarazione ICI potrebbe vedersi comunque
riconoscere, nonostante un comportamento obiettivamente
non conforme agli obblighi di legge, un’indennità di
esproprio pari addirittura al valore venale del bene
immobile.
In
alternativa alla soluzione prospettata dal rimettente,
dunque, proprio il ravvedimento operoso, ben potrebbe
fungere da elemento equilibratore della posizione dei
contribuenti che abbiano adempiuto all’obbligazione
tributaria e dei contribuenti lato sensu infedeli.
In
conclusione, il Presidente del Consiglio dei ministri,
non ritiene che vi siano sufficienti ragioni per
discostarsi dall’interpretazione che della norma
censurata ha già offerto la Corte costituzionale,
sicchè, essendo possibile procedere a tale lettura
costituzionalmente orientata della disposizione
censurata, la questione sarebbe inammissibile.
Inoltre, l’Avvocatura dello Stato osserva che la
disposizione di cui al comma 7 dell’art. 37 del d.P.R.
n. 327 del 2001 andrebbe letta in combinato con il
successivo comma 8, il quale dispone il rimborso
dell’imposta maggiore pagata negli ultimi cinque anni
dall’espropriato rispetto
all’indennità di
esproprio liquidata, in quanto la ratio legis delle due
disposizioni consiste nel rendere coerente il carico
fiscale sull’immobile espropriato con l’indennità di
esproprio liquidata, nel primo caso (comma 7)
coordinando le conseguenti obbligazioni, nel secondo
caso (comma 8) «correggendo automaticamente violazioni
al principio della capacità contributiva che si rendano
evidenti in occasione dell’esproprio». Anche in
quest’ottica, dunque, l’interpretazione offerta dalla
giurisprudenza costituzionale sul punto, consentirebbe
di rispettare i principi della Costituzione e della
CEDU, con la conseguenza che la censura prospettata
sarebbe nel merito comunque infondata.
3.—
Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2011, si è
costituito il Consorzio Industriale e provinciale di
Sassari (già Consorzio per l’Area di Sviluppo
Industriale di Sassari–Porto Torres–Alghero), con atto
depositato il 2 agosto 2011.
Secondo la difesa consortile l’interpretazione della
norma censurata non potrebbe non tener conto del fatto
che essa incide in realtà sulla determinazione del
valore di mercato del bene, attraverso una parziale
considerazione della dichiarazione resa dal proprietario
ai fini dell’adempimento del proprio obbligo tributario.
In altri termini l’attenzione dell’interprete dovrebbe
spostarsi dall’ipotesi di una sanzione atipica e
aggiuntiva, a quella dell’accertamento del valore del
bene ai fini della determinazione dell’indennità
espropriativa. La stessa Corte costituzionale,
nell’ordinanza (recte: sentenza) n. 351 del 2000 ha
infatti affermato che «non è estranea all’ordinamento
giuridico la utilizzazione, in base a legge, di un
valore dichiarato anche ad altri fini e persino al di
fuori del rapporto intersoggettivo in cui è reso,
soprattutto quando il valore prezzo assuma la funzione
di corrispettivo per trasferimenti a carattere coattivo.
Sarebbe sufficiente, a tal fine, il richiamo
esemplificativo alle ipotesi di prelazione legale e
riscatto sia nel campo dei fondi rustici per lo sviluppo
della proprietà coltivatrice (legge 26 maggio 1965, n.
590), sia per gli immobili urbani in locazione (legge 27
luglio 1978, n. 392, art. 39), sia nell’ambito delle
aree protette a favore dell’ente parco (legge 6 dicembre
1991, n. 394) ed infine alla prelazione dello Stato ai
sensi della legge 1° giugno 1939, n. 1089, in caso di
alienazione di bene storico-artistico vincolato
(sentenza n. 269 del 1995) (v. ora d.lgs. 29 ottobre
1999, n. 490)». Conseguentemente, trattandosi di
determinazione del valore del bene ablato effettuata
anche tenendo conto della dichiarazione a sé sfavorevole
(di carattere confessorio) resa dal proprietario,
sarebbe insussistente la dedotta illegittimità
costituzionale.
4.—
Nel medesimo giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del
2011, si è costituita anche la Astaldi S.p.a., con atto
depositato il 20 luglio 2011, concludendo per
l’infondatezza della questione.
La
parte costituita ritiene che tra i limiti alla proprietà
privata finalizzati a garantirne la funzione sociale vi
sarebbe anche quello introdotto dall’art. 16, comma 1,
del d.lgs. n. 504 del 1992, poi ribadito dall’art. 37
del d.P.R. n. 327 del 2001, e che la legittimità della
disposizione non potrebbe essere revocata in dubbio dal
richiamo all’art. 1 del primo protocollo addizionale
alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale norma,
infatti, nel garantire il libero esercizio del diritto
di proprietà, espressamente dispone che «Le disposizioni
precedenti non portano pregiudizio al diritto degli
Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute
necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo
conforme all’interesse generale o per assicurare il
pagamento delle imposte o di altri contributi o delle
ammende».
In
siffatto contesto, la «totale vanificazione
dell’indennità» di espropriazione, che le Sezioni Unite
della Corte di cassazione mirano a scongiurare,
discenderebbe da un comportamento imputabile in via
esclusiva al proprietario dell’immobile oggetto della
procedura ablativa che abbia omesso l’essenziale
adempimento in discussione, violando il «principio
secondo cui il soggetto privato, nei rapporti con la
pubblica amministrazione, necessariamente improntati a
lealtà, correttezza e collaborazione, in quanto siano in
gioco gli obblighi di solidarietà, economici e sociali
(art. 2 della Costituzione), tra i quali quelli in
materia tributaria, non può sottrarsi alle conseguenze
di una sua dichiarazione» (sentenza n. 351 del 2000).
Tale
meccanismo risulterebbe, al contrario, incrinato da
un’eventuale pronuncia di illegittimità delle norme
impugnate, con ingiusto vantaggio per il soggetto che si
è sottratto ai propri doveri di leale collaborazione con
l’Amministrazione.
5.— In prossimità
dell’udienza, hanno presentato memorie il Presidente del
Consiglio dei ministri e la Astaldi S.p.a.
Considerato in diritto
1.— Le
Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, con due
ordinanze di contenuto in larga parte identico (reg.
ord. n. 158 e n. 159 del 2011) — la seconda trattata
all’udienza pubblica dell’8 novembre 2011 e la prima
nella camera di consiglio del successivo 9 novembre —
hanno sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti
territoriali, a norma dell’articolo 4 della L. 23
ottobre 1992, n. 421), successivamente, a decorrere dal
30 giugno 2003, riversato con analoga formulazione
nell’art. 37, comma 7, decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità), in riferimento
agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, in relazione all’art. 6 ed all’art. 1 del
primo protocollo addizionale della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, nella parte in cui, in caso di
omessa dichiarazione/denuncia ai fini dell’imposta
comunale sugli immobili (ICI) o di
dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori,
non stabilisce un limite alla riduzione dell’indennità
di esproprio, idoneo ad impedire la totale elisione di
qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del
suolo espropriato e l’ammontare della indennità,
pregiudicando il diritto ad un serio ristoro, spettante
all’espropriato.
1.1.—
In virtù dell’identità delle questioni sollevate va
disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica
trattazione e di un’unica pronuncia.
2.—
Secondo entrambe le ordinanze di rimessione,
l’interpretazione della norma censurata offerta da
questa Corte, con la sentenza n. 351 del 2000, non
potrebbe essere seguita, nella parte in cui detta
pronuncia ha ritenuto che l’indennità di espropriazione,
nel caso di omessa dichiarazione ICI, potrebbe essere
corrisposta soltanto dopo la regolarizzazione della
posizione tributaria. Tale esegesi non sarebbe, infatti,
consentita dalla lettera della disposizione e
dall’interpretazione sistematica, anche perché
renderebbe irrilevante l’originaria condotta del
contribuente, recando altresì un vulnus al principio
della ragionevole durata del processo.
2.1.—
I giudici a quibus, dopo avere analiticamente esaminato
gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità
formatasi successivamente alla citata sentenza,
ritengono che l’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992 debba
essere interpretato nel senso che la ―sanzione‖ della
riduzione dell’indennità di esproprio, in caso di
dichiarazione infedele, trovi applicazione, con
riferimento all’ultima dichiarazione o denuncia
presentata, prima della determinazione formale
dell’indennità, restando irrilevanti eventuali
successivi atti di ravvedimento o di spontanee
rettifiche e che tale disciplina debba necessariamente
riguardare anche le ipotesi di omessa
dichiarazione/denuncia ICI, con la conseguenza che in
questa fattispecie, al contribuente fiscalmente del
tutto inadempiente, non spetterebbe alcuna indennità di
esproprio.
2.2.—
Secondo le Sezioni Unite civili, siffatta
interpretazione della norma censurata, assunta come la
sola possibile, violerebbe, tuttavia, i parametri
costituzionali evocati, in ragione sia della loro
parziale modifica — quanto all’art. 117, primo comma,
Cost., come sostituito dall’art. 3 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
titolo V della parte seconda della Costituzione), in
relazione all’art. 42, terzo comma, Cost. —, sia
dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte
costituzionale. Secondo tale giurisprudenza, infatti, le
norme che non prevedono un ―serio ristoro‖ del danno
subito per effetto dell’occupazione o
dell’espropriazione di aree edificabili, si pongono in
contrasto con l’art. 42, terzo comma, Cost., e con gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. l del
protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, che il legislatore è tenuto a rispettare
in forza del dell’art. 117, primo comma, della
Costituzione.
I giudici a quibus,
esclusa ogni possibilità di un’interpretazione della
norma censurata che consenta di individuare una sorta di
«valore minimo garantito» anche in caso di omessa
dichiarazione o di dichiarazione di valore irrisorio,
ritengono che essa altererebbe il rapporto tra l’entità
della sanzione e la gravità della violazione. Pertanto,
il citato art. 16, stabilendo l’indennità di esproprio
in base ad elementi e circostanze in alcun modo
correlati al danno conseguente all’esproprio ed ai
criteri che attengono alla congruità della indennità
dovuta all’espropriato, sarebbe costituzionalmente
illegittimo, potendo determinare persino la
vanificazione del ristoro.
3.—
Preliminarmente, con riferimento al giudizio relativo
all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 158 del 2011, va
rilevato che il rimettente si limita, in fatto, a
ricordare che il giudizio principale è stato promosso
con ricorso per la cassazione della sentenza n. 928 del
5 ottobre 2004 della Corte di appello di Catania, senza
specificare la data dell’espropriazione e della
liquidazione dell’indennità, rilevante ai fini di
stabilire l’applicabilità ratione temporis della norma
impugnata, sostituita dall’art. 37, comma 7, del d.P.R.
n. 327 del 2001.
La
questione è, quindi, manifestamente inammissibile, in
quanto, come più volte precisato dalla giurisprudenza di
questa Corte, l’omessa o insufficiente descrizione della
fattispecie, non emendabile mediante la diretta lettura
degli atti, impedita dal principio di autosufficienza
dell’atto di rimessione, preclude il necessario
controllo in punto di rilevanza (ex plurimis: ordinanze
nn. 6 e 3 del 2011; nn. 343, 318 e 85 del 2010; nn. 211,
201 e 191 del 2009).
4.—
Nel merito la questione sollevata dall’ordinanza reg.
ord. n. 159 del 2011 è fondata.
5.— Il
rimettente, nel prospettare la questione di legittimità
costituzionale, muove da un’esegesi del citato art. 16,
da lui ritenuta la sola possibile. A suo avviso, la
lettera della medesima e gli ordinari criteri
ermeneutici non consentirebbero, infatti,
un’interpretazione costituzionalmente orientata di detta
norma.
Siffatta premessa richiede, quindi, un preliminare esame
della giurisprudenza formatasi sull’applicabilità della
norma alle ipotesi di omessa dichiarazione/denuncia a
fini ICI del valore di terreni edificabili.
5.1.—
L’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992, rubricato
―indennità di espropriazione‖, al comma 1 così
disponeva: «In caso di espropriazione di area
fabbricabile l’indennità è ridotta ad un importo pari al
valore indicato nell’ultima dichiarazione o denuncia
presentata dall’espropriato ai fini dell’applicazione
dell’imposta qualora il valore dichiarato risulti
inferiore all’indennità di espropriazione determinata
secondo i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti»
— articolo poi abrogato dall’art. 58, comma 1, numero
134), del d.P.R. n. 327 del 2001, come modificato dal
decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 302 a decorrere
dal 30 giugno 2003 (in virtù dell’art. 3 del
decreto-legge 20 giugno 2002, n. 122, convertito con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 1°
agosto 2002, n. 185).
La
norma prevedeva dunque, per le sole aree fabbricabili,
una riduzione della indennità di espropriazione, quando
il valore venale, dichiarato o denunciato
dall’espropriato ai fini ICI, risultasse inferiore
all’indennità. Quale effetto ulteriore era prevista
(senza una distinzione tra aree fabbricabili e altri
immobili) una maggiorazione della indennità, pari alla
differenza (con l’aggiunta degli interessi) tra
l’importo della imposta (ICI) pagata dall’espropriato o
dal suo avente causa per il medesimo bene, negli ultimi
cinque anni, e quello risultante dal computo
dell’imposta sulla base della indennità liquidata.
5.2.—
Questa Corte ha preso in esame la disciplina stabilita
dal citato art. 16 censurato, tra l’altro, in
riferimento all’art. 3 Cost., con la sentenza n. 351 del
2000 e con le ordinanze n. 401 del 2002, n. 539 del 2000
e n. 333 del 1999. Secondo tali pronunce,
nell’interpretazione di detta norma, sarebbe irrilevante
accertare se essa prevedesse o no una misura
sanzionatoria, ovvero se presupposto della stessa fosse
una dolosa evasione d’imposta o un errore. Siffatta
disposizione costituiva, infatti, «ragionevole
applicazione del principio secondo cui il soggetto
privato, nei rapporti con la pubblica amministrazione,
necessariamente improntati a lealtà, correttezza e
collaborazione, in quanto siano in gioco gli obblighi di
solidarietà politici, economici e sociali (art.
2 della Costituzione),
tra i quali quelli in materia tributaria, non può
sottrarsi alle conseguenze di una sua dichiarazione».
In
particolare, individuata la finalità della norma nel
recupero dell’evasione fiscale e nella sua
disincentivazione, si è affermato che «il fatto che
questa evasione sia totale o parziale, ovvero dipendente
o meno da volontà consapevole o da mero errore nella
dichiarazione, poco interessa ai fini della legittimità
costituzionale», sicché le «varie ipotesi di evasore
totale o parziale formulate nelle ordinanze di
rimessione sono tutte erronee nei presupposti». La norma
avrebbe dovuto, quindi, essere correttamente
interpretata nel senso che «l’evasore totale non viene
affatto avvantaggiato, in quanto è destinato a subire in
ogni caso le sanzioni per la omessa dichiarazione,
nonché l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di
evadere». Soprattutto, per quanto qui rileva, la
determinazione dell’indennità di espropriazione non
avrebbe potuto essere effettuata se non dopo avere
verificato che questa non eccedeva il tetto massimo
ragguagliato al ―valore‖ denunciato per l’ICI, e,
quindi, solo dopo la presentazione della relativa
denuncia ICI e la conseguente regolarizzazione della
posizione tributaria, con l’effettivo avvio del recupero
dell’imposta e delle sanzioni. In ogni caso, ciò
presupponeva che si trattasse di area fabbricabile (e
tale al momento della dichiarazione) e che il soggetto
espropriato, fosse, alla data della liquidazione
dell’indennità, tenuto al pagamento dell’ICI.
5.3.—
La giurisprudenza di legittimità successiva alla
sentenza interpretativa di rigetto n. 351 del 2000 di
questa Corte ha tenuto conto in vario modo delle
argomentazioni nella stessa sviluppate, dando vita a
molteplici orientamenti, diversi soprattutto quanto alle
modalità applicative del meccanismo correttivo elaborato
da questa Corte.
Le
Sezioni Unite civili, con l’ordinanza di rimessione,
hanno provveduto ad un’analitica ricognizione di tali
indirizzi, ricordando in primo luogo quello coevo alla
citata sentenza, orientato a negare l’applicabilità del
citato art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992 all’ipotesi di
omessa presentazione della denuncia o della
dichiarazione ai fini dell’ICI.
Inoltre, esse hanno dato atto che la successiva
giurisprudenza di legittimità, dopo aver ribadito la
pregressa esegesi della norma, anche alla luce della
pronuncia della Corte costituzionale, ha prevalentemente
seguito l’interpretazione fornita da questa Corte, nel
senso che l’evasore totale non perde il suo diritto
all’indennizzo espropriativo, ma è unicamente destinato
a subire le sanzioni per l’omessa dichiarazione e
l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di evadere,
potendo l’erogazione dell’indennità di espropriazione
intervenire solo dopo la verifica che essa non superi il
tetto massimo ragguagliato al valore accertato per
l’ICI, a seguito della regolarizzazione della posizione
tributaria.
6.— Le
Sezioni Unite civili, investite «della questione di
massima di particolare importanza, vertente sul tema dei
rapporti tra liquidazione dell’indennità di esproprio e
soggezione all’ICI», con l’ordinanza di rimessione
ritengono, quindi, che proprio tale orientamento debba
essere rivisto, nel senso che la lettera e la ratio
della norma impongono di ritenere che essa si applichi
all’evasore totale, senza alcuna possibilità di evitare
il vulnus ai parametri costituzionali evocati.
Pertanto, in presenza di un orientamento non univoco, le
Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, hanno
ritenuto, nell’esercizio della propria funzione
nomofilattica, di cui questa Corte deve tenere conto, di
superare in tal modo il contrasto. Siffatta
interpretazione costituisce, pertanto, «diritto
vivente», del quale si deve accertare la compatibilità
con i parametri costituzionali evocati.
7.—
Posta tale premessa, e ritenuta applicabile la norma sia
ai casi di omessa dichiarazione a fini ICI, sia al caso
di una dichiarazione per un valore irrisorio, il
rimettente ha concluso che l’originario comportamento
tenuto a fini fiscali influisce necessariamente sulla
quantificazione dell’indennità di espropriazione.
7.1.—
Nel delibare le censure prospettate dal rimettente,
giova ricordare che sia la giurisprudenza di questa
Corte che quella della Corte EDU hanno individuato in
materia di indennità di espropriazione un nucleo minimo
di tutela del diritto di proprietà, garantito dall’art.
42, terzo comma, Cost., e dall’art. 1 del primo
protocollo addizionale della CEDU, in virtù del quale
l’indennità di espropriazione non può ignorare «ogni
dato valutativo inerente ai requisiti specifici
del bene», né può eludere
un «ragionevole legame» con il valore di mercato (da
ultimo sentenza n. 181 del 2011 e prima ancora, sentenza
n. 348 del 2007).
In
applicazione di tale principio, l’ingerenza nel diritto
al rispetto dei beni deve realizzare, in primo luogo, un
«giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse
generale della comunità e il requisito della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In
secondo luogo, nonostante che al legislatore ordinario
spetti un ampio margine, l’acquisizione di beni senza il
pagamento di indennizzo in ragionevole rapporto con il
loro valore costituisce normalmente un’ingerenza
sproporzionata.
Il
legislatore, quindi, sebbene non abbia il dovere di
commisurare integralmente l’indennità di espropriazione
al valore di mercato del bene ablato, non può sottrarsi
al «giusto equilibrio» tra l’interesse generale e la
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui.
Tale
principio conserva validità anche con riferimento alle
misure che lo Stato adotta in questa materia al fine di
«assicurare il pagamento delle imposte o di altri
contributi o delle ammende» di cui al capoverso
dell’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU.
Questa norma, interpretata anche alla luce
dell’orientamento della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, attribuisce ampia discrezionalità ai
legislatori nazionali nel definire le proprie politiche
fiscali e, tuttavia, non consente di ritenere legittime
misure di prevenzione e dissuasione fiscale qualora non
siano prevedibili (ovvero siano meramente eventuali) o
pretendano dal soggetto dichiarante un eccessivo onere
o, infine, comportino una eccessiva conseguenza
sanzionatoria, come nel caso in cui possano giungere ad
una sostanziale espropriazione senza indennizzo
(sentenza 22 settembre 1994, n. 13616188, Hentrich c.
Francia).
Nel
quadro di tali principi, la norma censurata,
nell’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite civili,
viola sia l’art. 42, terzo comma, Cost., sia l’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo
protocollo addizionale alla CEDU. La disciplina
stabilita dall’art. 16 non è, infatti, compatibile con
il citato nucleo minimo di tutela del diritto di
proprietà, in quanto non contempla alcun meccanismo che,
in caso di omessa dichiarazione/denuncia ICI, consenta
di porre un limite alla totale elisione di tale
indennità, garantendo comunque un ragionevole rapporto
tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare
della indennità. Peraltro, tale vulnus si determina
anche per il caso di dichiarazione/denuncia di valori
irrisori, o di valori che potrebbero condurre comunque
ad elidere il necessario vincolo di ragionevolezza e
proporzionalità fra il comportamento tributario illecito
e la sanzione, e quindi la pronuncia di illegittimità
costituzionale deve necessariamente riguardare anche
siffatto profilo della disciplina. Resta ferma la
discrezionalità del legislatore di stabilire sanzioni
che, eventualmente, incidano anche sull’indennità di
espropriazione, purchè non realizzino una sostanziale
confisca del bene, sacrificando illegittimamente il
diritto di proprietà all’esclusivo interesse finanziario
leso dal contribuente, tenuto conto della diversità di
procedimenti e di garanzie che sovrintendono
all’accertamento tributario ed alle relative sanzioni,
peraltro già autonomamente previste dal d.lgs. n. 504
del 1992.
8.— In
definitiva, va dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992.
9.— Ai
sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale), deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale,
anche dell’art. 37, comma 7, del d.P.R. n. 327 del 2001,
che disciplina la riduzione dell’indennità a decorrere
dal 30 giugno 2003. Tale norma, infatti, contiene una
disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto
con la Costituzione dalla presente sentenza.
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, comma
1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504
(Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma
dell’articolo 4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421);
2)
dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale,
dell’articolo 37, comma 7, del decreto del Presidente
della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità);
3)
dichiara manifestamente inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 1,
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504
(Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma
dell’articolo 4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421),
sollevata dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite
civili, con ordinanza del 14 aprile 2011 (reg. ord. n.
158 del 2011), in riferimento agli artt. 42, terzo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 dicembre 2011.
Il
Direttore della Cancelleria
F.to:
MELATTI
Per la Consulta, infatti, la
disciplina stabilita dall’articolo 16 è incompatibile
con la tutela minima del diritto di proprietà, in quanto
“non contempla alcun meccanismo che, in caso di omessa
dichiarazione/denuncia ICI, consenta di porre un limite
alla totale elisione di tale indennità, garantendo
comunque un ragionevole rapporto tra il valore venale
del suolo espropriato e l’ammontare della indennità”.
“Peraltro - prosegue la Corte - tale vulnus si determina
anche per il caso di dichiarazione/denuncia di valori
irrisori, o di valori che potrebbero condurre comunque
ad elidere il necessario vincolo di ragionevolezza e
proporzionalità fra il comportamento tributario illecito
e la sanzione, e quindi la pronuncia di illegittimità
costituzionale deve necessariamente riguardare anche
siffatto profilo della disciplina”.
Ciò detto, resta ferma la
discrezionalità del legislatore di stabilire sanzioni
che, eventualmente, incidano anche sull’indennità di
espropriazione, “purché non realizzino una sostanziale
confisca del bene, sacrificando illegittimamente il
diritto di proprietà all’esclusivo interesse finanziario
leso dal contribuente, tenuto conto della diversità di
procedimenti e di garanzie che sovrintendono
all’accertamento tributario ed alle relative sanzioni,
peraltro già autonomamente previste dal d.lgs. n. 504
del 1992”.
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