Se le intercettazioni telefoniche
sono inservibili perché disposte in assenza dei
presupposti richiesti dalla legge, è comunque possibile
utilizzarle per condurre ulteriori indagini qualora
dall’ascolto delle stesse emergano altri reati. Lo ha
stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza
64/2011, bocciando il ricorso di un indagato per mafia
contro l’ordinanza del tribunale della Libertà di
Palermo che ne disponeva la custodia cautelare in
carcere.
Nel ricorso alla Suprema corte, la
difesa dell’imputato aveva sostenuto che essendo stato
ritenuto nullo il primo decreto che autorizzava le
intercettazioni - perché i “gravi indizi di
colpevolezza” posti alla base del provvedimento erano
desunti esclusivamente da informazioni confidenziali -,
ciò avrebbe dovuto automaticamente comportare
l’annullamento anche del secondo decreto che aveva
autorizzato il proseguimento delle indagini sulla base
degli indizi emersi durante l’ascolto.
Per i giudici di Piazza Cavour,
però, in tema di intercettazioni, il decreto
autorizzativo può fondarsi su “qualsiasi notizia di
reato, anche desunta da precedenti dichiarazioni
inutilizzabili”. Dunque, “l’inutilizzabilità degli esiti
di intercettazioni telefoniche non preclude affatto la
possibilità di condurre indagini per l’accertamento dei
fatti reato eventualmente emersi dalle stesse”. Infatti,
in questo campo non opera il principio della
trasmissibilità del vizio agli atti consecutivi a quello
dichiarato nullo.
Insomma le intercettazioni
telefoniche, pur fuori gioco per quello specifico reato,
sopravvivono come “fatto storico” alla luce del quale è
possibile proseguire l’attività investigativa che nel
caso specifico ha portato,
attraverso l’ausilio di
intercettazioni ambientali, alla registrazioni di un
incontro di matrice mafiosa tra l’indagato ed altri due
soggetti di “rilevante spessore crimin |