(Pres. Mannino – Rel. Lanza)
Ritenuto in fatto e considerato in
diritto
T.S., M.V. e Me.Li. ricorrono, a
mezzo del loro difensori, avverso la sentenza 10 maggio
2010 della Corte di appello di Firenze, che ha
confermato la sentenza 2 luglio 2008 del Tribunale di
Pistoia (che aveva condannato i primi due per il reato
continuato di concussione del capo sub A e, la terza,
per il reato di falso ideologico del capo sub C),
deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella
decisione impugnata, nei termini critici che verranno
ora riassunti e valutati,
1.) le conformi decisioni dei
giudici di merito in punto di responsabilità degli
accusati.
Con sentenza 2 luglio 2008 del
Tribunale di Pistoia T.S., M.V., C.R., e M.L. venivano
giudicati responsabili dei reati loro rispettivamente
ascritti e condannati ciascuno alla pena di anni due di
reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali,
i primi tre per il delitto di concussione, commesso sino
all'aprile del 1998, la quarta, per il delitto di falso
in relazione alla redazione di un certificato di morte
contenente dati falsi.
Per gli imputati T., M., C. e Ca.
inoltre vi è stata pronuncia di non doversi procedere
per essere estinto per prescrizione il fatto del capo
sub B) qualificato come corruzione, originariamente loro
contestato come concussione.
Per i giudici di merito i fatti
nascono da indagini della Polizia di Stato di Pistoia
presso l'Ospedale di Pistoia riguardo alla gestione dei
servizi dell'Obitorio, effettuate mediante
intercettazioni telefoniche ed ambientali nei locali
dell'obitorio stesso.
In particolare, il 17 aprile 1998,
personale della Squadra Mobile assisteva alla consegna
di danaro da parte di P.L., collaboratore della impresa
di onoranze funebri" C. di R. G. & C. s.n.c. nelle mani
del necroforo C.R..
Il P. aveva avvertito la Polizia
Giudiziaria della operazione e, pertanto, all'arresto
del C., seguiva una perquisizione presso i locali
dell'Obitorio; sempre il 17.4.1998, la perquisizione
consentiva di evidenziare che nel registro dei deceduti
l'ultima registrazione risultava essere quella di C.A.,
il cui decesso era avvenuto alle 5,20 del (omissis), ma
per la quale risultavano la visita necroscopica e la
certificazione della morte come eseguite il (omissis)
alle ore 6,50.
Per questo episodio veniva
denunciata la Dott.ssa Me., che aveva redatto il
certificato di morte, attestando un'ora che ancora
doveva raggiungersi.
Al momento dell'arresto del C., con
la consegna della busta contenente L. 900.000 si
rinveniva altro danaro ed un foglio manoscritto con
l'indicazione di varie cifre. L'ultima annotazione
recava - 900.000/135.000.
Nell'ulteriore corso del
procedimento, nell'interrogatorio di garanzia il C.
ammetteva che effettivamente vi era l'abitudine da parte
delle imprese di onoranze funebri di elargire mance ai
necrofori per L. 50.000 o L. 100.000, abitudine che
valeva anche per i suoi colleghi T. e M..
Per il primo giudice anche le
intercettazioni telefoniche confermavano le
dichiarazioni del P., che avevano avuto sostegno anche
dalla testimonianza del direttore sanitario
dell'Ospedale di Pistoia, Dott. D..
I fatti raccontati dal P., inoltre
erano stati confermati dalle dichiarazioni del teste R.,
titolare delle onoranze funebri. Egli evidenziava come
ad ulteriore riprova dell'atteggiamento ostruzionistico
la circostanza della mancanza del saluto con il M. ed il
T.. Egli stesso, in passato, aveva consegnato danaro a
costoro sia prima che dopo il sistema della turnazione.
La pretestuosità delle difficoltà allorquando erano
cessati i pagamenti era stata evidente allorquando
ripreso il sistema delle mance, le difficoltà erano
cessate.
Il Tribunale rilevava come le
dichiarazioni dei testi R. e P. erano state concordanti,
avevano evidenziato quale fosse il clima dentro
all'Obitorio e le condizioni a cui erano costretti tutti
a cedere per continuare a lavorare e le intercettazioni
ambientali confermavano questa situazione.
Da ciò la declaratoria di
responsabilità dei tre necrofori e la dichiarazione di
colpevolezza per il reato di falso per la dr.ssa Me..
Appellata la sentenza del Tribunale
di Pistola, la Corte di appello con la sentenza oggi
impugnata confermava la decisione del primo giudice,
rilevando che il reato di falso addebitato alla dr.ssa
Me. non era estinto per prescrizione.
2.) i motivi di impugnazione e le
ragioni della decisione di questa Corte.
Tutti i condannati, ad esclusione
di C.R. hanno proposto ricorso per cassazione.
2.1) l'impugnazione di T.S. e le
ragioni della decisione della Corte di legittimità.
Con un articolato unico motivo di
impugnazione il T. deduce inosservanza ed erronea
applicazione della legge, nonché vizio di motivazione
sotto il profilo che la decisione della corte
distrettuale ha dedicato una sola pagina alla
valutazione dei motivi di appello, ignorando le precise
deduzioni dell'atto d'appello del T. e concernenti: a)
il concorso fra i coimputati; b) la individualità delle
dazioni di denaro; l'individualità dei rapporti; il
rapporto fra dazioni e segnalazione di decessi; c) il
divieto di frequentazione dell'obitorio; d) la
segnalazione da parte dei necrofori e, in particolare,
del T.S. ; e) la destinazione delle somme (£.900.000)
consegnate, e poi sequestrate, al C. ; f) i motivi
dell'interruzione dei rapporti fra il T. ed il R.; g) i
presunti pagamenti da parte anche della m.; h) il
periodo di entrata in funzione delle cappelle del
commiato e l'asserito impedimento all'uso delle stesse;
i) il rilascio delle salme attraverso l'uso dell'ECG; l)
l'asserito ritardo nella consegna dei documenti; m) la
qualificazione del reato in relazione alle condotte
tenute dal ricorrente; n) sulla inutilizzabilità delle
dichiarazioni del C..
Tutti questi temi critici -
sostiene il ricorrente - sono stati completamente
pretermessi nella sentenza della Corte d'Appello con la
conseguenza che non esiste una motivazione, avendo di
fatto la Corte avallato acriticamente la sentenza di
primo grado, senza confrontarsi con i motivi di appello,
plurimi e decisivi anche in relazione alla
qualificazione giuridica dei fatti.
In ogni caso, le dazioni di denaro
non erano frutto di concussione bensì conseguenza della
preoccupazione di resistere e sopravvivere
commercialmente, in un quadro nel quale i necrofori
svolgevano la funzione di procacciatori di affari dietro
compenso per ogni decesso segnalato e "aggiudicato".
Il motivo unico di ricorso del T.,
che è comune al primo motivo di ricorso del M., è
fondato.
Invero, come questa Corte ha avuto
modo di ribadire in tema di motivazione della sentenza,
le esigenze di una esaustiva argomentazione sono
soddisfatte anche da una succinta esposizione dei motivi
di fatto e di diritto, a nulla rilevando il numero o la
lunghezza delle proposizioni destinate a tale scopo,
quanto, invece, il contenuto, la chiarezza e la validità
argomentativa delle stesse, derivante dalla logicità
delle connessioni e delle inferenze valutative (cfr in
termini: Cass. pen. sez. 6, 14407/ 2009, r.v. 243266).
Peraltro nella specie tale
risultato di giustificazione è stato si espresso in modo
sintetico in una sola pagina di motivazione, ma senza
alcun riferimento alle plurime e specifiche censure
degli atti d'appello sia dell'imputato T. che del M..
Sussiste infatti il vizio di
mancanza di motivazione ai sensi dell'art. 606, comma
primo, lett. e), c.p.p., non solo quando vi sia un
difetto grafico della stessa, ma anche quando le
argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della
fondatezza del suo convincimento siano prive di
completezza in relazione a specifiche doglianze
formulate dall'interessato con i motivi d'appello e
dotate del requisito della decisività (Cass. pen. sez.
6, 35918/2009 Rv. 244763. Massime precedenti Conformi:
N. 4830 del 1995 Rv. 201268, N. 6945 del 2000 Rv.
216765).
Nella specie invero, non solo la
corte distrettuale nella sua motivazione non ha neppure
richiamato per sintesi la sentenza di primo grado, ma ha
prospettato lo schema di giustificazione della sua
deliberazione (le 26 righe di pag.10) nella totale
indifferenza delle doglianze, anche risolutive, in punto
di responsabilità e qualificazione delle condotte, nei
termini evidenziati in modo specifico negli appelli del
T. e del M., e con le quali la decisione impugnata non
si è affatto confrontata.
Dalla suindicata invalidità della
motivazione consegue l'annullamento della sentenza
impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di
appello di Firenze per nuovo giudizio in ordine al reato
di concussione (capo A dell'imputazione), la quale,
nella piena libertà delle valutazioni di merito di
competenza, dovrà porre rimedio all'accertato deficit
argomentativo.
3.2) l'impugnazione di M.V. e le
ragioni della decisione della Corte di legittimità.
Con un primo motivo di impugnazione
viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della
legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo
della insufficiente e inadeguata motivazione della
decisione di condanna, non essendovi stata nella specie
una disamina critica delle dichiarazioni dei testi P. e
R., ed una corretta valutazione della qualificazione
giuridica dei fatti, da derubricarsi in corruzione,
nonché una risposta alle doglianze sulla ricorrenza
dell'elemento psicologico del reato del capo B.
Con un secondo motivo si lamenta
l'omessa valutazione della testimonianza di B.R. idonea
a disarticolare la deposizione del dr. R..
Con un terzo motivo si prospetta
violazione dell'art. 513 c.p.p. in quanto le
dichiarazioni rese dall'imputato C., oggi non
ricorrente, avanti al G.I.P. in sede di convalida
dell'arresto, non potevano essere utilizzate nei
confronti del M., a fronte dell'esercizio da parte dello
stesso della facoltà di non rendere esame in
dibattimento, dato che il difensore del C. non aveva
prestato alcun consenso. Al contrario i giudici di
merito hanno "indirettamente usato" dette affermazioni
come termine di paragone per validare le testimonianze
di R. e P..
I primi due motivi del M. vanno
accolti, nei termini dianzi spiegati per la posizione
del T., attese le evidenti gravi carenze motivazionali,
ed il terzo motivo rimane assorbito dall'annullamento
con rinvio.
Con un quarto motivo si evidenzia
ancora vizio di motivazione e violazione di legge con
riferimento alle disposizioni degli artt. 498 (esame
diretto e controesame dei testimoni), 499 (regole per
l'esame testimoniale), 500 (contestazioni nell'esame
testimoniale) e 111 comma 2 Costituzione (norme sulla
giurisdizione).
Per il ricorrente la violazione
delle regole fissate dall'art. 500 c.p.p. da parte del
Presidente del collegio di primo grado, il quale "faceva
contestazioni guidando l'esame verso uno scopo
determinato" determinerebbe la inutilizzabilità delle
dichiarazioni espresse al di fuori dei limiti stabiliti
dai commi 3, 4, 5, 6 e 7 del citato art. 500 c.p.p..
Il motivo non può essere accolto in
quanto l'inosservanza delle formalità prescritte dalla
legge, ai fini della legittima acquisizione della prova
nel processo, non è, di per sé, sufficiente a rendere
quest'ultima inutilizzabile, per effetto di quanto
disposto dal primo comma dell'art. 191 c.p.p..
Ed invero, tale norma, se ha
previsto l'inutilizzabilità come sanzione di carattere
generale, applicabile alle prove acquisite in violazione
ai divieti probatori, non ha, per questo, eliminato lo
strumento della nullità, in quanto le categorie della
nullità e dell'inutilizzabilità, pur operando nell'area
della patologia della prova, restano distinte e
autonome, siccome correlate a diversi presupposti: la
prima attenendo sempre e soltanto all'inosservanza di
alcune formalità di assunzione della prova - vizio che
non pone il procedimento formativo o acquisitivo
completamente al di fuori del parametro normativo di
riferimento, ma questo non rispetta in alcuni dei suoi
peculiari presupposti - la seconda presupponendo,
invece, la presenza di una prova "vietata" per la sua
intrinseca illegittimità oggetti va, ovvero per effetto
del procedimento acquisitivo, la cui manifesta
illegittimità lo pone certamente al di fuori del sistema
processuale (Cass. pen. sez. Sez. U, 5021/1996 Rv.
204644).
In conclusione, a parte, la
genericità del motivo e la sua non "autosufficienza", va
ribadito che la violazione delle regole fissate
dall'art. 500 c.p.p. da parte del Presidente del
collegio di primo grado, il quale secondo l'assunto
difensivo, “faceva contestazioni guidando l'esame verso
uno scopo determinato" non produce l'inutilizzabilità
dell'esito della prova stessa, né integra la sussistenza
di una nullità in forza del principio della tassatività
delle nullità stesse.
3.3) l'impugnazione di Me.Li. e le
ragioni della decisione della Corte di legittimità.
Con un primo motivo di impugnazione
viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della
legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo
dell'intervenuta prescrizione del reato, risalendo il
fatto al 17 aprile 1998 e non essendo all'imputata
applicabile l'effetto sospensivo di cui all'art. 159 n.3
c.p.p. che riguardava il difensore di uno dei tre
imputati di concussione.
Con un secondo motivo si lamenta la
mancata derubricazione del delitto nella violazione
dell'art. 480 c.p..
Con un terzo motivo si prospetta
vizio di motivazione e violazione di legge per mancato
espletamento di una perizia grafologica sulla scrittura
attinente alla data e all'ora della visita, dalla
ricorrente non redatta ma lasciata in bianco all'atto
della consegna del certificato di morte ai necrofori.
Con un quarto motivo si evidenzia
che la declaratoria di prevalenza delle circostanze
attenuanti generiche riducendo la pena edittale,
riconferma ulteriormente l'avvenuta prescrizione del
reato contestato.
Con un quinto motivo si sostiene
che la data e l'ora (false) risultanti dal certificato
non hanno efficacia costitutiva che è limitata al solo
fatto materiale della "visita" sicuramente avvenuta.
Con un sesto motivo si illustra
vizio di motivazione in ordine all'omessa immotivata
riduzione della sanzione irrogata in primo grado.
Tanto premesso va subito affermato
che la sussistenza della condotta dr.ssa Me., e la sua
qualificazione sotto il paradigma della violazione
dell'art. 479 c.p. risultano del tutto corrette,
considerato che il certificato di morte, rilasciato dal
sanitario (in virtù del regolamento di polizia mortuaria
e del regolamento per la revisione e la semplificazione
dell'ordinamento dello stato civile, ex art. 74, d.p.r.
n. 396 del 2000), è atto pubblico, ai sensi dell'art.
479 c.p., in quanto espressione della funzione
attestatrice dell'accertamento diretto del sanitario
stesso e, nel contempo, riveste funzione costitutiva
perché preordinato al rilascio dell'autorizzazione alla
sepoltura, autorizzazione che,a sua volta, è subordinata
non solo all'accertamento della morte, ma anche alla
verifica dell'inesistenza di condizioni che
giustifichino interventi dell'Autorità sanitaria o
giudiziaria (Cass. pen. sez. 5, 21837/2008 Rv. 240101).
Nella specie peraltro, il Tribunale
e la Corte di appello, nel determinare la sanzione hanno
erroneamente considerato l'ipotesi del capoverso
dell'art. 476 c.p. come un'ipotesi autonoma di reato,
cui hanno applicato la riduzione massima per effetto
delle circostanze attenuanti generiche.
In realtà si tratta di
un'aggravante speciale che in concreto è stata elisa e
dichiarata subvalente rispetto alle riconosciute
circostanze attenuanti generiche.
Tale fatto peraltro rileva
favorevolmente agli effetti della individuazione de,
termine massimo di compimento del tempo necessario a
prescrivere, che nella specie, applicato il nuovo
regime, risulta ampiamente maturato, essendo i fatti
risalenti al 17 aprile 1998 e non ricorrendo in al
all'art. 129 capoverso c.p.p..
Da ciò - come richiesto anche dal
Procuratore generale in udienza - la necessaria
pronuncia di annullamento senza rinvio della impugnata
sentenza a carico della dr.ssa Me. per essere il reato
estinto per intervenuta prescrizione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei
confronti di Me.Li. perché il reato è estinto per
prescrizione.
Annulla la medesima sentenza nei
confronti di T.S. e M.V. e rinvia ad altra sezione della
Corte di appello di Firenze per nuovo giudizio in ordine
al reato di concussione (capo A dell'imputazione).
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