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Demansionamento nel pubblico impiego e poteri del dirigente negli atti di macro-organizzazione- Tribunale di Aosta, Civile, Sezione L, Sentenza del 27-05-2011, n. 75-Lex 24.it

 

 

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Marco Proietti, Associate Studio Legale "Guidi Federzoni - Pereno" di Roma - (Lex24) 13 settembre 2011

  

La disciplina del demansionamento nel pubblico impiego ha seguito le orme del rapporto di lavoro privato assorbendo, nei limiti del possibile, aspetti dottrinali e pratici frutti di anni di interpretazione effettuate sull'art. 2103 cod. civ.; certamente, anche per le differenze abissali tra i due tipi di rapporto di lavoro, il pubblico impiego continua a mantenere un'autonomia propria ed una propria disciplina indissolubilmente legata alla diversa disciplina dei rapporto di lavoro, dalla fase genetica alla cessazione.

 

INTRODUZIONE

Se esiste un principio cardine della pubblica amministrazione esso è, certamente, quello del c.d. “buon andamento” che trova evidentemente il proprio presupposto nella Costituzione e, precipuamente, nell'art. 97: l'efficienza della pubblica amministrazione  – anche in ragione del disposto costituzionale – è stato il primo pensiero del legislatore negli ultimi anni, ed ha creato non pochi problemi di bilanciamento degli interessi in gioco.

A ben vedere, infatti, se da un lato si è cercato di snellire la nota complessità della macchina burocratica italiana, dall'altro lato si è cercato di far si di attribuire una serie di poteri ai dirigenti pubblici così da assimilare (per quanto possibile) quel ruolo a quello dei propri omologhi del lavoro privato: ciò comporta l'inevitabile assunzione, da parte del dirigente pubblico, di una serie di oneri e responsabilità prima nemmeno contemplate nel nostro ordinamento e che, invece, ora lo rendono – o quanto meno provano a renderlo – maggiormente competitivo sulla scena europea.

L'efficienza della pubblica amministrazione, pertanto, passa inevitabilmente attraverso la predisposizione di una serie di strumenti di gestione maggiormente incisivi che garantiscano, a chi ricopre ruoli di vertice, di poter ottenere il massimo risultato con le risorse a disposizione ; tra gli strumenti di gestione garantiti al dirigente pubblico rientra, certamente, il potere di mutare le mansioni dei dipendenti, pur con il massimo riguardo per la professionalità acquisita dai medesimi.

 

LA DISCIPLINA SUL DEMANSIONAMENTO

La disciplina relativa alle mansioni (e quindi ad un possibile demansionamento) è affidata – per quel che concerne il pubblico impiego – all'art. 52 del D.lgs. 30.3.2001, n. 165, la cui lettura va combinata con quanto disposto dall'art. 2103 cod. civ.

 

Entrambe le norme ribadiscono, senza contraddizioni, che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto” e vietano, in questo modo, ogni forma di mutamento in pejus delle mansioni, fosse anche pattizia, poiché lo stesso porterebbe ad una lesione alla professionalità acquisita dal prestatore; l'unico punto di divergenza tra la disciplina fissata dal codice civile e quella prevista dal Testo Unico sul pubblico impiego riguarda, non a caso, la progressione interna: nel pubblico impiego, infatti, le progressioni di carriera avvengono unicamente tramite concorso pubblico.

 

Questa prima distinzione, che poi si riprenderà più avanti, è essenziale: il pubblico dipendente eventualmente assegnato – per un breve periodo – allo svolgimento di mansioni proprie di un livello superiore, non ha diritto ad agire per il riconoscimento del superiore inquadramento ma solo per il pagamento delle differenze retributive spettanti: nel rapporto di lavoro privato, invece, accade esattamente il contrario .

 

Da questa premessa si può facilmente evincere che: (i)il lavoratore non può in alcun modo essere demansionato, nemmeno con accordo tra le parti; (ii) l'eventuale demansionamento comporta un danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, risarcibile e valutabile dal giudice in via equitativa; (iii) la mobilità interna, nell'ambito della pubblica amministrazione, è regolata dalla presenza di concorsi pubblici che divengono un ostacolo insormontabile sia in senso negativo che in positivo ovvero: il lavoratore non potrà ottenere dal giudice il riconoscimento di una qualifica superiore ma, al contempo, il dirigente non potrà assegnare al dipendente una qualifica diversa da quella ottenuta tramite il concorso; (iv) il demansionamento è ammesso solo in casi estremi – a tutela del posto di lavoro – e comunque solo nell'impiego privato; (v) in questo senso, le riforme recenti del pubblico impiego hanno eliminato la possibilità di assegnazione a mansioni inferiori, legittime nella precedente legislazione.

 

Infine, ogni rapporto di lavoro è sorretto da un principio fondamentale e costituzionalmente garantito dall'art. 36 Cost., ovvero la c.d. irriducibilità della retribuzione in ragione del quale la retribuzione percepita dal dipendente non può, in alcun modo, essere ridotta.

Si può pattiziamente prevedere una modifica dell'orario di lavoro, ma non si può stabilire una retribuzione inferiore per un dipendente, rispetto a quella ordinariamente conseguita con l'anzianità di servizio; anche in quest'ultimo caso ogni patto contrario è nullo e comporta un danno risarcibile in via equitativa.

 

Questo è lo scheletro normativo all'interno del quale si muove il rapporto di lavoro

 

LA DIFFERENZA TRA IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Come già accennato, la disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, a seguito della nota privatizzazione dello stesso, è stata in parte mutuata da quella del lavoro privato ma poi ha assunto delle caratteristiche proprie, determinate soprattutto dall'impossibilità del giudice di poter disporre l'assunzione in mancanza di un concorso pubblico: seppur affini, dunque, i due rapporto di lavoro seguono strade autonome.

 

Vediamo cosa resta di concreto.

 

Il nostro ordinamento vieta in senso assoluto ogni modifica in pejus delle mansioni del lavoratore e ciò sotto due profili: (i) mantenimento del livello retributivo raggiunto; (ii) tutela e miglioramento delle capacità professionali fino a quel momento conseguite.

 

La distinzione, in questo caso, tra il rapporto di lavoro pubblico e privato è essenziale: se nel privato un demansionamento comporta un rischio elettivo per il datore di lavoro (che dovrà inevitabilmente farsi carico di un giudizio innanzi al Giudice del Lavoro), nel caso del pubblico impiego la circostanza assume contorni molto più sfumati poichè viene ammessa dalla legge la mobilità in linea orizzontale, ovvero su piani retributivi e professionali identici.

Tribunale Aosta, Sezione Lavoro civile

Sentenza 27 maggio 2011, n. 75

 

 

DANNI NELL'AMBITO DEL RAPPORTO DI LAVORO - BANCA D'ITALIA - DIPENDENTE - RICORSO - RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO - DEMANSIONAMENTO - DANNI - INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO PER DIFETTO DI GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

TRIBUNALE DI AOSTA

 

SEZIONE CIVILE

 

In persona del Giudice Dr. Eugenio Gramola

 

in funzione di giudice del Lavoro

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nella causa civile iscritta al n. 126/2011 del ruolo generale Affari Contenziosi Civili Sezione Lavoro promossa da:

 

Pi.Ri., nato (...), residente ad Aosta, Via (...), rappresentato e difeso dall'Avv. Ma.Gh. e presso di lei elettivamente domiciliato in Aosta, Av. (...), in forza di procura a margine del ricorso introduttivo

 

ricorrente

 

contro

 

Ba.It. in persona del legale rappresentante Avenue (...) Aosta

 

domiciliata in Aosta (AO), presso la Filiale di Aosta rappresentata e difesa dagli avv.ti Co. e Pa. dell'Avvocatura della Banca con procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta;

 

convenuto

 

In punto: risarcimento danni.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

A) Natura della causa ricorso diretto a far dichiarare, ex art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro il quale, secondo l'esposto, attraverso condotte dirette a demansionare il ricorrente e a perseguitarlo, ne cagionava un grave danno alla salute.

 

Le specifiche conclusioni sono sopra riportate.

 

B) Motivi, in fatto ed in diritto, della decisione

 

La questione preliminare in ordine alla insussistenza della giurisdizione di questa A.G. è fondata

 

Va intanto premesso che i fatti esposti dal ricorrente sono stati compiuti nel corso del rapporto di lavoro, tanto che si chiede l'applicazione dell'art. 2087 c.c. e si espongono diffusamente, in ricorso, una serie di condotte poste in essere da parte datoriale nel corso del rapporto di lavoro.

 

Tali condotte vengono indicate come fonte diretta ed esclusiva dei danni dei quali si domanda il risarcimento.

 

Ha però stabilito la Suprema Corte (Sez. U, Sentenza n. 20475 del 24/10/2005) che Con riferimento al rapporto d'impiego dei dipendenti della Ba.It. - sottratto espressamente dalla legge (art. 68, comma quarto, in riferimento all'art. 2, comma quarto, del D.Lgs. n. 29 del 1993, ora trasfusi rispettivamente negli artt. 63, comma quarto, e 3, comma primo, del D.Lgs. n. 165 del 2001) alla disciplina della cosiddetta privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico - nel caso di assunzione con effetti giuridici decorrenti da data diversa dagli effetti economici, la domanda di risarcimento del danno per l'illegittimo ritardo (nella specie collegato ad accertamenti medici relativi alla idoneità fisica) nella decorrenza degli effetti economici, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo trattandosi di diritti patrimoniali connessi non occasionalmente con il rapporto di impiego. In effetti l'art. 63 c. 4 d.lgs. 165/2001 stabilisce: Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 3, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi.

 

A sua volta l'articolo 3, titolato Personale in regime di diritto pubblico (Art. 2, commi 4 e 5 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituiti dall'art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1993 e successivamente modificati dall'art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 80 del 1998) stabilisce che: 1. In deroga all'articolo 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990,

 

n. 287.

 

Le norme da ultimo indicate fanno tutte riferimento alla Ba.It., ad iniziare dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691 che statuisce: è istituito un comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, al quale spetta l'alta vigilanza in materia di tutela del risparmio, in materia di esercizio della funzione creditizia e in materia valutaria. Il comitato è composto dal ministro per il tesoro, che lo presiede, e dai ministri per i lavori pubblici, per l'agricoltura e foreste, per l'industria e commercio, per il commercio con l'estero. Si applicano, quanto alle competenze, alle facoltà e alle funzioni del comitato interministeriale, le norme del regio decreto - legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito nella legge 7 marzo 1938, n. 141, e successive modificazioni.

 

E' fuor di dubbio, infatti, che la Banca d'Italia svolga, al massimo livello, attività in materia di tutela del risparmio, in materia di esercizio della funzione creditizia e in materia valutaria.

 

Né può affermarsi come fatto dal ricorrente in sede di discussione orale, che la giurisdizione amministrativa non consentirebbe un'adeguata istruttoria e un'adeguata tutela delle legittime pretese risarcitone del ricorrente. Al di là del fatto che, anche se così fosse, questo giudicante non potrebbe certo disapplicare le norme in tema di ripartizione della giurisdizione ed istruire e/o decidere egli stesso il giudizio in piena violazione di legge, va comunque osservato che espressis verbis l'art. 7 d.lgs. 104/2010 statuisce che:

 

4. Sono attribuite atta giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma.

 

5. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall'articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi.

 

6. Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al (perito nelle controversie indicate dalla legge e dall'articolo 134. Nell'esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all'amministrazione.

 

7. Il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi.

 

Va quindi dichiarata l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice ordinario, appartenendo questa al giudice amministrativo.

 

C) Le spese

 

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, appartenendo questa al giudice amministrativo;

 

Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio,liquidate in Euro 3.000 complessive + IVA e cassa - Visto l'art. 53 cpv. d.l. 25.6.2008 n. 112

 

Indica in gg. 15 il termine per il deposito della motivazione.

 

Così deciso in Aosta il 12 maggio 2011.

 

Depositata in Cancelleria il 27 maggio 2011.

 

 

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