(Pres. Vittoria – Rel. Morelli)
Svolgimento del processo
La Regione Basilicata propone,
innanzi a questa Corte, ricorso avverso la sentenza n. 1
del 7 gennaio 2009, con la quale il T.S.A.P. - esclusa
la fondatezza di sollevate eccezioni di
incostituzionalità della L.R. n. 7 del 1999, in
riferimento agli artt. 23 e 117 Cost. - ha comunque
annullato la delibera giuntale di essa Regione, n. 2628
del 2003, recante aumento della misura del canone di
concessione di derivazione di acque pubbliche, adottata
sulla base della predetta legge regionale, e che aveva
formato oggetto di impugnazione da parte della ENEL
Produzione s.p.a., in proprio e quale successore a
titolo particolare di Enel Green Power s.p.a.,
concessionarie appunto, di derivazioni di acque
pubbliche regionali per la produzione di energia
elettrica.
Resistono le predette società, con
formulazione di preliminare eccezione di tardività della
avversa impugnazione, e con proposizione, altresì, di
ricorso incidentale condizionato, reintroduttivo, in via
subordinata, della questione di costituzionalità della
L.R., in riferimento al solo art. 117 Cost..
Entrambe le parti hanno anche
depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Sulla questione pregiudiziale di
tardività, o meno, del ricorso in relazione al dies a
quo di decorrenza del termine breve per l'impugnazione
delle sentenze del T.S.A.P. 1. Il dato normativo di
riferimento.
La non tempestività, e conseguente
inammissibilità, del ricorso della Regione, è stata
eccepita dalle resistenti società sul rilievo che la
correlativa notifica è stata effettuata (il 5 gennaio
2010) “dopo la scadenza del termine di decadenza (di 45
giorni)”, decorrente dalla data (17 febbraio 2009) di
ricezione, da parte della Regione, della copia integrale
del dispositivo della sentenza del TSAP (n. 1 del 7
gennaio 2009), notificatale ad istanza della cancelleria
del detto giudice.
La normativa che viene nella
fattispecie in applicazione - ed in relazione alla quale
è formulata la riferita eccezione - è quella costituita
dal combinato disposto degli artt. 183, 200, 201 e 202
del r.d. 1775/1933 (T.U. sulle acque e impianti
elettrici).
Dispone, in particolare, il citato
art. 183, ai suoi terzo e quarto comma, che "il
cancelliere annota in apposito registro il deposito
(della sentenza) ed entro tre giorni da tale deposito
trasmette la sentenza con gli atti all'ufficio del
registro e ne da avviso alle parti perché provvedano
alla registrazione.
Restituiti la sentenza e gli atti
dall'ufficio del registro, il cancelliere entro cinque
giorni ne esegue la notificazione alle parti, mediante
consegna integrale del dispositivo, nella forma
stabilita per la notificazione degli atti di citazione".
A loro volta, gli artt. 200 e 201
stabiliscono, rispettivamente, che contro le decisioni
del Tribunale Superiore delle acque pubbliche
pronunciate in grado di appello (avverso le sentenze
definitive dei Tribunali Regionali delle acque
pubbliche) e contro le decisioni nelle materie
contemplate nell'art. 143 (che appartengono alla
cognizione diretta di detto Tribunale Superiore) è
ammesso il ricorso alle sezioni unite della Corte di
Cassazione.
Il successivo art. 202 disciplina,
infine, il termine per proporre tale ricorso, stabilendo
che "i termini indicati nell'art. 518 del codice di
procedura civile (il codice di procedura civile vigente
all'epoca prevedeva il termine di 90 giorni) sono
ridotti alla metà e decorrono dalla notificazione della
sentenza, fatta a norma dell'art. 183".
Il problema che si è posto, in sede
di esegesi della predetta normativa, è se la notifica
della copia integrale del dispositivo della sentenza
comporti, o meno, la decorrenza, indipendentemente dalla
sua registrazione, del termine breve ex art. 326 c.p.c.
per impugnare la decisione del T.S.A.P..
1.1. L'iniziale, risalente, e poi
consolidatasi, interpretazione dei citati articoli 183
ss. T.U. 1775/1933.
Al quesito interpretativo di cui
sopra è stata data soluzione - con la sentenza n. 11095
del 1991, ribadita dalle successive conformi pronunzie
nn. 12150/92, 394/99, 10892/01, 13710/05, 12084/06,
6063/09 - nel senso che “la notifica, che il cancelliere
fa alle parti, dell'avviso di trasmissione della
sentenza del T.S.A.P. all'Ufficio del registro, ai sensi
del comma terzo dell'art. 183 del r.d. 1775/1933, è
inidonea, ancorché tale avviso contenga anche la
trascrizione del dispositivo, a far decorrere il termine
per la proposizione del ricorso per cassazione, che
decorre invece, dalla notifica, eseguita a norma del
successivo quarto comma della stessa norma”, atteso che
solo con tale successiva notifica - che presuppone la
restituzione della sentenza e degli atti da parte
dell'Ufficio del registro - la parte che intende
impugnare è messa in grado di apprestare compiutamente
le proprie difese (In tal senso, anche le precedenti nn.
13/86 e 8534/90, nonché 3853/92, con riguardo al dies a
quo di decorrenza del termine previsto dall'art. 189,
T.U. 1995/33 per la proposizione dell'appello avverso le
sentenze del Tribunale Regionale).
1.2. Il rovesciamento della
precedente esegesi di cui alla successiva sentenza n.
7607/2010.
Con la più recente citata pronunzia
n. 7607 depositata il 30 marzo 2010 (in data successiva,
per quel che in prosieguo risulterà rilevare, a quella
dell'odierno ricorso) queste Sezioni unite hanno però
ribaltato quel proprio, pur consolidato, pregresso
indirizzo. E ciò sulla base, e in considerazione, del
mutamento, nel frattempo intervenuto, del quadro
normativo di riferimento in tema di imposta di registro.
A riguardo della quale già la sentenza n. 80 del 1966
della Corte costituzionale aveva rimosso il divieto, ai
funzionari di cancelleria, di rilascio di copie od
estratti di sentenze prima della loro registrazione, e
la successiva decretazione legislativa di settore (DD.P.R.
nn. 634/72; 131/86) aveva ulteriormente innovato,
“atteso che, mentre in base alla legge di registro del
1923, tutte le sentenze andavano registrate...
attualmente vi sono sentenze che vanno registrate e
sentenze che non vanno registrate, ed anche per le prime
il cancelliere è tenuto a rilasciarne copia prima della
registrazione se ciò è necessario per la prosecuzione
del giudizio” (artt. 10 e 66/2 tabella allegata, d.P.R.
1986 n. 131).
Per cui, dunque, si è escluso, alla
luce della illustrata evoluzione normativa, che la
preventiva registrazione della sentenza, prevista
dall'art. 183 più volte menzionato, possa essere ancora
ritenuta condizione essenziale per la decorrenza del
termine breve di impugnazione derivante dalla notifica
della copia dell'estratto integrale della sentenza.
Dal che, quindi, la conclusione che
“avvenuta la comunicazione dell'avviso di deposito della
sentenza (certamente questo inidoneo, ancorché
contenente il dispositivo della stessa, a far decorrere
il termine breve di 45 giorni, di cui all'art. 202 del
R.D. n. 1775 del 1993) la successiva notifica della
copia integrale del dispositivo della sentenza stessa,
fa decorrere, comunque, indipendentemente dalla
registrazione della sentenza, il termine breve per la
sua impugnazione, rilevando la effettuazione della sua
registrazione esclusivamente ai fini fiscali”.
Principio, quello così enunciato,
cui questo Collegio non può che dare continuità, in
quanto si risolve in una rilettura della normativa in
esame che (in senso correttivo rispetto al precedente
indirizzo rimasto fermo anche dopo il 1986) ne disvela -
compatibilmente con il dato testuale - il diverso
contenuto evolutivamente assunto, per effetto e in
correlazione al sopravvenuto mutamento di disciplina
(quella, appunto, dell'imposta di registro) con essa
interagente, nel complessivo quadro delle disposizioni
regolatrici del settore di riferimento.
2. Se sopravvenuto mutamento di
esegesi della norma processuale di riferimento possa
comportare la tardività di un ricorso altrimenti
tempestivo alla stregua del diverso diritto vivente alla
data della sua proposizione.
Il quesito che, su prospettazione
della ricorrente Regione, si pone, infatti, a questo
punto, è se debba o non operare [o se non possa,
altrimenti, comunque ovviarsi a] la decadenza che, nei
suoi confronti, deriverebbe dall'applicazione del nuovo
indirizzo interpretativo, atteso che, come detto, il suo
ricorso è stato proposto oltre il quarantacinquesimo
giorno dalla ricevuta notifica della copia integrale del
dispositivo (ancorché in termini rispetto al dies a quo
in precedenza individuato in correlazione alla
successiva notifica della sentenza ex comma quarto art.
183 cit.).
Il problema, nel suo profilo più
generale, attiene, sul piano diacronico, alla dimensione
temporale (in concreto: alta operatività solo "prò
futuro" ovvero anche retroattiva) di un arresto
innovativo, di pregressa consolidata giurisprudenza,
nell'ambito del diritto processuale, dal quale derivi
resistenza, in precedenza esclusa, di una decadenza o di
una preclusione in danno di una parte del giudizio:
secondo la puntuale perimetrazione che, di tale
questione, si rinviene nell'ordinanza 8 gennaio 2011 n.
2067, di queste Sezioni unite. Ove, appunto, si precisa,
a contrario, che non vengono, per il profilo di cui
sopra, in rilievo mutamenti di esegesi di disposizioni
processuali [nella specie: dell'art. 37 c.p.c, con
riguardo agli enucleati limiti alla deducibilità del
difetto di giurisdizione] che non rappresentino "una
svolta inopinata e repentina rispetto ad un [precedente]
diritto vivente consolidato" ma solo Testo di un
processo di rilettura da tempo in itinere", e che,
comunque, non si risolvano in una compromissione del
diritto di azione e di difesa di una parte.
2.1. L'emersione del problema nella
giurisprudenza di legittimità e in quella di merito.
Il tema, così delineato, era già
stato, per altro, intercettato dalla precedente
ordinanza n. 14627 del 17 giugno 2010. Nella quale, con
il ricorso alla suggestiva metafora del non consentito
"cambiamento delle regole del gioco a partita già
iniziata", si è escluso che il (recente) mutamento di
indirizzo di cui a Sez. un, n. 19161/09 - in tema di
impugnabilità in Cassazione, di provvedimenti relativi a
compensi liquidati a consulenti in sede penale, nelle
forme non più del rito penale, bensì di quello civile -
possa pregiudicare la parte che abbia adito la Corte
attenendosi alle forme indicate dalla precedente
giurisprudenza, non ancora, all'epoca, sul punto,
innovata; individuandosi lo strumento tecnico, utile ad
evitare un siffatto pregiudizio, nell'istituto della
remissione in termine.
Il problema è, comunque, poi
entrato in circolo, in tutta la complessità delle sue
implicazioni, con la sentenza SS.UU. n. 19246 del 9
settembre 2010, che ribaltando un cinquantennale
contrario indirizzo interpretativo delle disposizioni
sub art. 645 c.p.c. - ha ridotto - in ogni caso alla
metà i termini del giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo.
E ben vero - diversamente che
nell'ipotesi di cui alla citata ordinanza n. 14627/2010,
in cui le conseguenze del mutamento, in via
interpretativa, del rito per l'accesso in Cassazione
venivano ad essere, per così dire, gestite direttamente
dalla stessa Corte regolatrice - nel caso da ultimo
richiamato la nuova lettura dell'art. 645 c.p.c. finiva
con il condizionare la sorte delle migliaia di giudizi
di opposizione in corso, suscettibili, nel caso di sua
immediata applicazione, di essere definiti con la
sanzione di improcedibilità conseguente al mancato
rispetto dei termini come sopra dimidiati.
Evenienza, questa, che la
maggioranza dei giudici di merito si è orientata però ad
evitare sia pure con varietà di soluzioni.
In taluni casi, invero,
attestandosi sulla praticabilità dell'istituto della
rimessione in termini; in altri casi, attribuendo
efficacia vincolante alla giurisprudenza precedente ed
assimilando il nuovo arresto ad una sorta di ius
superveniens, operante, come tale, solo pro futuro; in
altri ancora, ravvisando nella giurisprudenza della
Corte Europea, che impone la “conoscibilità della regola
di diritto e la ragionevole prevedibilità della sua
applicazione”, un ostacolo insormontabile alla
retroattività del dictum di Sez. un. 19246/2010; in
altri casi, infine, privilegiando la lettura esegetica
precedente all'overruling (sulla base, per altro, di
argomenti che trovano eco nella ordinanza interlocutoria
n. 6514 del 22 marzo 2011, con cui la Sezione Terza ha
nuovamente rimesso a queste Sezioni unite la questione
interpretativa dell'art. 645 c.p.c.).
2.2. Il contributo della dottrina.
Le richiamate pronunzie di
legittimità, ed i seguiti nella giurisprudenza di
merito, hanno dato occasione anche alla dottrina di
approfondire le problematiche del mutamento di
giurisprudenza di norme processuali, riflettendo, con
varietà di spunti, ora critici ora adesivi, sulle
soluzioni già emerse in tema e su quelle ulteriormente
possibili.
L'opzione di fondo, che ha visto
divisi anche gli Autori, resta quella tra il ritenere
rituale (insuscettibile, quindi, di invalidazione ex
post) l'atto compiuto nel vigore e in conformità alla
precedente giurisprudenza, ed il considerarlo, invece,
ora per allora, invalido, per difformità alla norma di
riferimento come successivamente reinterpretata, con
l'attivazione, in questo secondo caso, di meccanismi di
tutela dell'affidamento che la parte abbia riposto in un
pregresso diritto vivente di cui non fosse prevedibile
il mutamento.
La scelta tra le due soluzioni
ruota intorno al nodo del valore del precedente e
dell'efficacia temporale della c.d. overruling: che, a
sua volta, incrocia le problematiche, di più ampio
respiro, della funzione, meramente dichiarativa o
(concorrentemente) creativa, riconosciuta alla
giurisprudenza, del suo (eventualmente possibile)
inquadramento tra le fonti di implementazione e
conformazione dell'ordinamento giuridico e del
discrimine tra modificazione del contenuto della norma
per via interpretativa e novum ius; per coinvolgere,
ancor più a monte, la definizione del ruolo del giudice
nel sistema costituzionale di divisione dei poteri.
2.3. Premesse sui temi presupposti
o implicati dal quesito in esame.
Dalla varietà e complessità dei
temi così aggregati intorno alla questione (sub 1.2) in
esame, non può prescindersi ai fini della correlativa
soluzione, che va quindi ricercata su un piano di logica
consequenzialità rispetto alle opzioni di principio, o
comunque, alle precisazioni che, in ordine ai temi
stessi, preliminarmente esigono di essere operate.
A tal fine si osserva quanto segue;
a) La norma giuridica - che, nella
sua effettività, è l'espressione di un pensiero diffuso
che si forma ascoltando le istanze della comunità
territoriale e ne metabolizza le esigenze - trova
propriamente la sua fonte di produzione nella legge (e
negli atti equiparati), in atti, cioè, di competenza
esclusiva degli organi del Potere legislativo.
Nel quadro degli equilibri
costituzionali (ispirati al principio classico della
divisione dei poteri) giudici (estranei al circuito di
produzione delle norme giuridiche) sono appunto (per
disposto dell'art. 101, comma 2, Cost.), "soggetti alla
legge". Il che realizza l'unico collegamento possibile,
in uno Stato di diritto, tra il giudice, non elettivo né
politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di
cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e
politicamente responsabili, è l'espressione prima; ma
sono soggetti anche alle legge "soltanto", il che, a sua
volta, realizza la garanzia della indipendenza
funzionale del giudice, nel senso che, nel momento
dell'applicazione, e della previa interpretazione, a lui
demandata, della legge, è fatto divieto a qualsiasi
altro soggetto od autorità di interferire, in alcun
modo, nella decisione del caso concreto.
b) La suitas della norma giuridica
sta poi nella sua struttura ternaria, essendo in essa
individuabile un significante (l'insieme, cioè, dei
frammenti lessicali di che si compone), un significato,
o più possibili significati (e, cioè, il contenuto
precettivo, in termini di comando - divieto - permesso,
che il significante esprime) ed un giudizio di valore
(di avvertita positività, cioè, di un dato bene -
interesse, che postula la meritevolezza della creazione
di un congegno di protezione del bene stesso all'interno
della collettività).
c) In ragione, appunto, di tale
collegamento tra norma giuridica e valore (che segna il
discrimine tra legge fisica o di natura e il diritto
come legge assiologica), ed anche del suo inevitabile
porsi come elemento (di settore) di un sistema
ordinamentale, la norma, una volta posta in essere, non
resta cristallizzata in sé stessa, ma è soggetta, ex se,
a dinamiche evolutive.
Nel senso che, nel tempo, essa è
suscettibile di assumere una molteplicità di contenuti,
in relazione ed entro il limite dei significati resi
possibili dalla plurivocità del significante testuale -
per un duplice ordine di fattori propulsivi, interni ed
esterni.
In relazione al primo profilo viene
in rilievo, infatti, la considerazione che l'interesse
dalla norma protetto - per la sua insopprimibile
connotazione dinamica legata al suo esprimere una
tensione della collettività verso un bene della vita -
non può evidentemente restare imprigionato nella gabbia
del testo della regola iuris, ma di questa invece
costituisce l'elemento mobile, quasi linfa vitale, che
ne orienta il processo di crescita e ne determina i
percorsi evolutivi.
Vale a dire che - entro il limite
ovviamente già sottolineato di tolleranza ed elasticità
del significante testuale - la norma di volta in volta
adegua il suo contenuto, in guisa da conformare il
predisposto meccanismo di protezione alle nuove
connotazioni, valenze e dimensioni che l'interesse
tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche
nel bilanciamento con contigui valori di rango
superiore, a livello costituzionale o sovranazionale.
Parallelamente, per quanto poi
attiene all'incidenza di fattori esterni, è decisivo
l'aspetto strutturale - sistematico della regola iuris,
quale elemento non in sé autoconchiuso, ma segmento
invece di una complessa architettura giuridica,
coordinata secondo postulati di unitarietà e
completezza.
In questo articolato mosaico, ogni
disposizione si trova così inserita in settori e
subsettori normativi ed investe una serie di relazioni
reciproche con norme contigue.
Per cui è ben comprensibile come,
in prospettiva diacronica, le eventuali successive
modificazioni, abrogazioni, sostituzioni delle
disposizioni interferenti abbiano una possibile ed
automatica ricaduta sul contenuto della disposizione in
questione, anche per questa via quindi innescandone
processi modificativi.
Per cui, in realtà, quello (sotteso
alla formula plasticamente descrittiva) del diritto
vivente è fenomeno oggettivo: per un verso legato alla
natura assiologica della norma e, per altro verso,
determinato dalle dinamiche evolutive interne al sistema
ordinamentale. Fenomeno che, per la sua complessità,
esige la mediazione accertativa della giurisprudenza,
che quindi lo disvela, ma non per questo lo crea; nel
senso, dunque, che il “diritto vivente” esiste al
momento - ma non (solo) per effetto - della
interpretazione dei giudici. Nella sequenza dei cui
arresti viene, per continenza, così individuato, sul
piano storico, il diritto vivente, in senso formale
(cfr. Corte cost. nn. 276/74; 129/75 e successive
conformi).
d) L'interpretazione della regola
iuris, che si riflette in siffatte decisioni, può
definirsi "evolutiva", ma ciò per traslato, in quanto,
appunto, volta ad accertare il significato
evolutivamente assunto dalla norma nel momento in cui il
giudice è chiamato a farne applicazione (e con risalenza
a quello di inveramento di tale evoluzione):
accertamento che, a livello di intervento nomofilattico
della Corte regolatrice, ha anche vocazione di
stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta
prospettiva di supporto al valore delle certezze del
diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374) e 2009 (art.
360 bis n. 1 c.p.c.), ma stabilità pur sempre relativa,
perché la vivenza della norma (anche fuori dalla
metafora morfologica) è una vicenda, per definizione,
aperta.
e) Diversa dalla esegesi evolutiva
è invece l’interpretazione "correttiva". Con la quale il
giudice torna direttamente sul significante, sul testo
cioè della disposizione, per desumerne -
indipendentemente da vicende evolutive che l'abbiano
interessata - un significato diverso da quello
consacrato in un una precedente esegesi
giurisprudenziale.
E ciò o perché il nuovo significato
sia ritenuto preferibile rispetto a quello - pur
compatibile con il testo - precedentemente enucleato [ma
una tale opzione trova ora netta controindicazione nella
recente Sez. Un. n. 10864/2011, secondo cui, su un
piano, per così dire, di etica del cambiamento, "una
diversa interpretazione non ha ragione d'essere
ricercata, e la precedente abbandonata, quando l'una e
l'altra siano compatibili con la lettera della legge,
essendo preferibile e conforme ad un economico
funzionamento del sistema giudiziario l'interpretazione
sulla cui base si è già formata una pratica di
applicazione"], ovvero perché l'interprete ritenga che
la precedente lettura del testo sia errata, perché
frutto di non corretta applicazione dei canoni di
ermeneutica della legge.
f) Alla luce di tali premesse, nel
caso, in particolare, che la overruling correttiva
interessi una norma processuale, è difficile sfuggire
allora alla conseguenza che l'atto compiuto dalla parte,
od il comportamento da esso tenuto, in conformità
all'orientamento ovveruled, risulti - ora per allora -
non rituale, "inidoneo per effetto [appunto] del
mutamento di indirizzo giurisprudenziale" (così già Sez.
2^ 14627/2010 cit.).
Ad una diversa conclusione potrebbe
invero giungersi solo ove si ritenga che la precedente
interpretazione, ancorché poi corretta, costituisca il
parametro normativo immanente per la verifica di
validità dell'atto compiuto in correlazione temporale
con essa (ut lex temporis acti).
Ma con ciò, all'evidenza, si
trasformerebbe una sequenza di interventi accertativi
del contenuto della norma in una operazione di creazione
di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con
sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore
di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice:
soluzione non certo coniugabile con il precetto
costituzionale dell'art. 101 Costituzione.
g) Quid iuris, però, ove il
mutamento di giurisprudenza di regola del processo sia
(come nel caso che qui viene in rilievo) duplicemente
connotato dalla sua imprevedibilità (per il carattere
consolidatosi nel tempo, del pregresso indirizzo) e da
un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa
della parte che sulla stabilità del precedente abbia
ragionevolmente fatto affidamento?
In tal caso, sono proprio le
peculiari connotazioni dell'overruling che, per la loro
eccezionalità (ed auspicabile non reiterabilità),
giustificano una scissione tra il fatto (il
comportamento della parte risultante ex post non
conforme alla corretta regola del processo) e l'effetto,
di preclusione, che dovrebbe derivarne.
Ma che l'ordinamento, appunto, non
tollera che ne derivi, trovando il dispiegarsi
dell'effetto retroattivo insuperabile ostacolo, in una
siffatta evenienza, nel valore superiore del giusto
processo, "la cui portata" - come precisato da Sez. 2^
14627 cit. – “non si esaurisce in una mera sommatoria
delle garanzie strutturali formalmente enumerate nel
secondo comma dell'art. 111 Cost. (contraddittorio,
parità delle parti, giudice terzo ed imparziale, durata
ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una
sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento
reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto
di azione e di difesa), la quale risente anche
dell’effetto espansivo" dell'art. 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali e della corrispondente
giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Corte
cost., sentenza n. 317 del 2009, punto 8 del Considerato
in diritto)”. Innegabilmente contrario essendo, infatti,
alla garanzia di effettività dei mezzi di azione o di
difesa e delle forme di tutela che rimanga priva della
possibilità di vedere celebrato un giudizio, che conduca
ad una decisione sul merito delle proprie istanze, la
parte che quella tutela abbia perseguito con
un'iniziativa processuale conforme alla legge del tempo,
nel significato attribuitole dalla coeva giurisprudenza
di legittimità, ma divenuta poi inidonea per effetto del
correlativo mutamento.
Conforta tale soluzione anche la
considerazione dell'esigenza, su cui induce a riflettere
autorevole dottrina, del non alterabile parallelismo tra
legge retroattiva ed interpretazione giurisprudenziale
retroattiva, per il profilo dei limiti, alla
retroagibilità della regola, imposti dal principio di
ragionevolezza, quali enucleati, al riguardo, da copiosa
giurisprudenza della Corte Costituzionale (nn. 118/57;
349/85; 822/88; 233/89; 155/90; 402/93 ex plurimis).
E che autorizza a ritenere che ciò
che non è consentito alla legge non possa similmente
essere consentito alla giurisprudenza.
I cui mutamenti, quale che ne sia
la qualificazione, debbono, al pari delle leggi
retroattive, a loro volta rispettare il principio di
ragionevolezza, non potendo frustrare l'affidamento
ingenerato come, nel cittadino, dalla legge previgente,
così, nella parte, da un pregresso indirizzo
ermeneutico, in assenza di indici di prevedibilità della
correlativa modificazione.
E, per altro, se è pur vero che una
interpretazione giurisprudenziale reiterata nel tempo
che sia poi riconosciuta errata, e quindi contra legem,
non può, per la contraddizione che non lo consente,
essere considerata la lex temporis, vero è però anche
che, sul piano fattuale, quella giurisprudenza ha
comunque creato l’apparenza di una regola, ad essa
conforme. Per cui, anche per tal profilo, viene in
rilievo l'affidamento in quella apparenza riposto dalla
parte. Affidamento, ovviamente, tutelabile non oltre il
momento di oggettiva conoscibilità (da verificarsi in
concreto) dell'arresto nomofilattico di esegesi
correttiva.
h) Quanto, poi, al mezzo per
realizzare, nei sensi sopra indicati, il bilanciamento
dei valori in gioco, questo va modulato in correlazione
alla peculiarità delle situazioni processuali
interessate dall'eventuale (non prevedibile) overruling.
Così, nel caso deciso da Sez. 2^
14627/2010, in cui il ricorso, pur proposto in termini,
non rispettava le forme (del rito civile) prescritte dal
nuovo indirizzo, lo strumento è stato coerentemente
individuato nell'istituto della remissione in termine,
così consentendosi alla parte di riproporre ritualmente
l'impugnazione.
Nel caso, invece, in cui venga,
come nella specie, in rilievo un problema di
tempestività dell'atto (sussistente in base alla
giurisprudenza overruled, ma venuta meno in conseguenza
del successivo mutamento di esegesi della regola di
riferimento), il valore del giusto processo può trovare
diretta attuazione attraverso l'esclusa operatività,
come detto, della preclusione derivante dall’overruling
nei confronti della parte che abbia confidato nella
consolidata precedente interpretazione della regola
stessa.
2.4. Soluzione: inapplicabilità
alla fattispecie della sentenza 7607/2010 e infondatezza
dell'eccezione di tardività del ricorso.
Conclusivamente, alla luce delle
considerazioni che precedono, il ricorso della Regione
va considerato tempestivamente proposto entro il termine
lungo, non operando nei suoi confronti la decadenza per
mancata osservanza del temine breve decorrente dalla
data di ricezione della notifica del dispositivo della
sentenza del TSAP.
Dal che, quindi, la reiezione della
eccezione di inammissibilità della impugnazione,
formulata dalle resistenti società.
2. Non fondatezza del ricorso
principale. (Assorbimento del ricorso incidentale).
Oggetto dell'odierna impugnazione
della Regione Basilicata è, come detto, la decisione del
T.S.A.P. di annullare, “fatte salve le ulteriori
determinazioni dell'Amministrazione”, la delibera
giuntale n. 2628 del 30 dicembre 2003 determinativa (con
decorrenza dal primo gennaio 2004) del canone annuo di
concessione di derivazione di acqua pubblica per la
produzione di energia elettrica.
La motivazione di siffatta
statuizione - per cui, in sede di primo esercizio della
potestà regionale, subentrata in materia a quella
statuale, "non è ragionevole" la fissazione di una
misura del predetto canone (Euro 34,98) quasi tripla
rispetto a quella (Euro 12r02) risultante dall'ultimo
aggiornamento ministeriale - viene censurata sotto il
triplice profilo della violazione di leggi (artt. 86 e
89 d. lgs. n. 112 del 1998; art. 59 I. reg. n. 7 del
1999), del vizio di motivazione (che si assume
contraddittoria e carente) e dell'ultrapetizione (art.
112 c.p.c.).
Nessuno dei tre motivi - che, per
la loro connessione, possono esaminarsi congiuntamente -
è suscettibile però di accoglimento.
1. Non “sussiste in primo luogo,
infatti, la denunciata violazione di leggi, poiché il
T.S.A.P. non ha mancato di riconoscere che la delibera
in questione è stata adottata sulla base della citata
legge regionale n. 7/99, il cui art. 59, al suo comma
3-ter attribuisce, appunto, alla Giunta il potere di
determinare "con proprio atto" la misura del canone in
questione (ed al successivo comma 3-quater, introdotto
dall'art. 26 della L.R. 4 febbraio 2003 n. 7, stabilisce
che "con il medesimo atto, la Giunta definisce le
modalità per l'aggiornamento triennale tenendo conto del
tasso di inflazione programmato").
Né ha trascurato, quel Giudice, di
valorizzare il collegamento della suddetta legge
regionale con il d. lgs. 112/98 (costituente
l'antecedente storico giuridico della legge
costituzionale n. 3/2001, modificativa del Titolo Quinto
della Costituzione) che, al suo art. 86, ha trasferito
alle regioni la gestione del demanio idrico, in essa
espressamente compresa (suo art. 89) la "determinazione
dei canoni di concessione" (includente il potere di
aumentarli: cfr. Sez. un. n. 23548/2009).
2. Neppure è poi ravvisabile il
prospettato vizio di motivazione. Queste Sezioni unite
hanno già avuto, infatti, occasione di precisare che -
nella materia, oggetto di legislazione concorrente ex
art. 117, comma terzo Cost., della "produzione di
energia", in cui ricade la gestione di acque pubbliche
per uso idroelettrico - ancorché debba "escludersi che
costituisca principio fondamentale, la misura dei canoni
secondo i criteri di cui all'art. 3 r.d. 1933 n. 1775
[e, da ultimo, della l. n. 36 del 1994] trattandosi di
disposizioni dettate per l'esercizio di una funzione di
spettanza dello Stato che non può limitare l'autonomia
legislativa delle Regioni", in forza della competenza
dalle medesime in prosieguo acquisite - rileva,
comunque, come "principio realmente fondamentale della
materia" il canone della ragionevolezza ex art. 3
Costituzione (cfr. Sez. un. n. 15234/2009, ove è
ritenuta ragionevole una progressività della tariffa).
In coerenza, del resto, con tale
principio la citata legge della Basilicata ha introdotto
un criterio di aggiornamento del canone di concessione
parametrato al tasso di inflazione programmato, sulla
falsariga del meccanismo di adeguamento introdotto dalla
legge statale n. 36 del 1994.
Meccanismo, questo, che realizza,
appunto, una ragionevole gradualità di incremento del
canone in questione (che dal 1994 all'ultimo decreto
ministeriale di aggiornamento, a ridosso dell'esercizio
della competenza regionale, ne ha comportato un
incremento della misura da Euro 10,57 ad Euro 12,02 per
ogni kw di potenza nominale concessa).
A questo meccanismo pur si adegua
anche l'impugnata delibera.
Ma solo parzialmente.
E, cioè, solo per quanto, infatti,
attiene al recepito metodo di aggiornamento pro futuro;
mentre, nella determinazione iniziale del canone di
prima applicazione regionale, fissa, per saltum una sua
misura pressocchè tripla rispetto a quella del
previgente regime statale.
Nel che, appunto, si manifesta una
innegabile violazione di quel canone di ragionevolezza
che, come a livello di legge si traduce in motivo di sua
incostituzionalità, così, a livello di provvedimento
attuativo, si risolve un vizio di eccesso di potere,
imputabile, in questo caso, non al legislatore ma alla
P.A.
In ragione propriamente di un tal
vizio il TSAP ha nella specie annullato la delibera
regionale impugnata.
E, dunque, anche per tal profilo,
la sua decisione resiste a critica.
3. Non sussiste, infine, neppure la
denunciata ultrapetizione, addebitata dalla ricorrente a
quel Tribunale in ragione di una asserita diversità tra
la ratio dell'annullamento e quella della impugnazione.
E ciò in quanto le società,
nell'atto introduttivo del giudizio, non avevano
mancato, a loro volta, tra l'altro, di denunciare la
"illogicità e lo sviamento di potere" da cui lamentavano
affetta la determinazione regionale del canone.
Il ricorso principale va
integralmente, pertanto, respinto.
Resta di conseguenza assorbito il
ricorso incidentale della società.
La delicatezza e novità delle
questioni trattate giustifica l'integrale compensazione
delle spese di questo giudizio di cassazione tra le
parti.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, riuniti
i ricorsi, respinge quello principale e dichiara
assorbito l'incidentale. Spese compensate.
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