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Si evidenziano le seguenti decisioni della Corte di Cassazione, in relazione alle questioni in materia di lavoro definite

 

Sentenza 08 settembre 2011, n. 33330

 

Il motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile. Infatti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha già più volte affermato il seguente principio: «Integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di cui all’art. 37 L. n. 689 del 1981, il datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva» (Sez. 2, n. 11184 del 27/02/2007,  ; Sez. 3, n. 12169 del 19/10/2000)Nel caso di specie, la falsa dichiarazione sulla corresponsione dell’indennità di maternità non era finalizzata all’omesso versamento degli importi dovuti per contributi e premi, bensì al conseguimento dell’ingiusto profitto rappresentato dalle somme indicate falsamente come corrisposte, di cui viene sollecitato il conguaglio

 

Sentenza 20 settembre 2011, n. 34373

 

E’ indiscutibile che il datore di lavoro, titolare principale della posizione di garanzia, è tenuto a vigilare sul modo con cui gli altri soggetti (con) titolari della posizione di garanzia assolvono il proprio ruolo (qui, il medico competente).

 

 Resta  peraltro ferma l’esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati in proprio dalle norme citate, allorché la mancata attuazione dei relativi obblighi “sia addebitabile unicamente agli stessi”, non essendo riscontrabile un difetto di vigilanza da parte del datore di lavoro e del dirigente.

 

 A  ben vedere  viene   riprodotta in norma il dovere di vigilanza e controllo, relativo al rispetto della normativa prevenzionale, che (già) compete (e competeva) tradizionalmente sul datore di lavoro, ma anche sul dirigente nei limiti delle relative competenze funzionali, in applicazione della generalissima regola cautelare contenutanell’articolo 40, comma secondo, cod.pen.: il non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.

 

Sentenza 20 settembre 2011, n. 19147

 

 Dal  quadro applicativo dell’art. 25 del d.lgs. 151/2001, risulta che, mentre resta indifferente la collocazione temporale del periodo di maternità (obbligatoria), verificatosi al di fuori del rapporto di lavoro, come pure il regime assicurativo cui all’epoca era iscritta l’interessata ovvero l’assenza (sempre per quel periodo) di una qualche forma di assicurazione previdenziale (come nel caso di non occupazione), è necessario, invece, per l’accesso al beneficio dell’accredito del contributo figurativo, che il soggetto risulti “iscritto in servizio” alla gestione dei lavoratori dipendenti (o a una forma sostitutiva o esclusiva di essa) alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001 e possa far valere cinque anni di contribuzione (sempre di lavoro dipendente).

 

 Riguardo ai requisiti in questione ritiene il Collegio, avuto riguardo anche alle considerazioni espresse dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra citata per giudicare costituzionalmente legittima la disposizione introdotta con l’art. 2, comma 504, della legge n. 244 del 2007, che l’espressione “iscritti in servizio” sia stata adottata dal legislatore per escludere dal beneficio coloro che fossero già titolari di pensione, nell’evidente finalità di limitare nel tempo il diritto alla contribuzione figurativa, escludendo la tutela per le maternità collocate in epoca remota e, quindi, non richieda un effettivo svolgimento di attività lavorativa, ma comprenda i soggetti iscritti a un’assicurazione di lavoro dipendente (sia essa quella ordinaria, ovvero sostitutiva o esclusiva) e da considerare “in attività”, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001, perché non titolari di trattamento pensionistico (v., ex multis, Cass. 24236/2010).

 

  Nella presente fattispecie la signora S. titolare del trattamento pensionistico fin dal 1° giugno 1993, non può essere all’evidenza ritenuta “in attività” alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo n. 151 (il 27 aprile 2001), perché già pensionata, onde non può beneficiare del diritto alla contribuzione figurativa e della tutela per la maternità collocata in epoca remota.

 

 Conseguentemente, la sentenza impugnata, che ha riconosciuto il diritto dell’ odierna resistente all’accreditamento di contributi figurativi per un remoto periodo di maternità (corrispondente all’astensione obbligatoria), nonostante fosse già pensionata dal 1° giugno 1993, non ha statuito conformemente a diritto e va, pertanto, cassata.

 

Il ricorso è fondato.

 

La denuncia, con il primo e unico motivo di censura, del vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo coglie, difatti, nel segno.

 

Le circostanze di fatto – puntualmente riportate in seno al motivo in esame in ossequio al principio dell’autosufficienza del ricorso – ricostruite nella loro diacronica e sinergica significazione, non possono condurre, se non in modo illogico e contraddittorio, alle conclusioni cui giunge la corte d’appello giuliana. Nessuna condotta men che prudente e men che diligente, difatti, poteva essere legittimamente ascritta al direttore dei lavori, volta che:

 

- il D. nonostante la assoluta carenza del potere, nell’ambito di un appalto privato, di ordinare la sospensione dei lavori, potendo egli “soltanto manifestare il suo dissenso alla prosecuzione astenendosi dal continuare a dirigerli”, come condivisibilmente affermato da questa corte con la sentenza n. 15798 del 2003 – onde l’erroneità in diritto della pronuncia oggi impugnata nel ritenere viceversa esistenti e violati tali poteri, senza alcuna indagine circa la loro fonte, normativa o negoziale – aveva segnalato l’inesistenza delle necessarie condizioni per la prosecuzione dell’opera con missiva 29.7.1999, contestualmente disponendo proprio la (non prevista e non dovuta) sospensione dei lavori (la stessa sentenza ne dà conto, contraddittoriamente con il restante impianto motivazionale, al folio 23);

 

- il contenuto di tale missiva – ritualmente riprodotto in ricorso – dà prova della rilevata, ritenuta e dichiarata illegittimità delle condizioni di realizzazione dell’opera da parte del D., con puntuale e analitica specificazione delle violazioni di legge in materia di sicurezza e organizzazione del lavoro compiute e a compiersi, e con contestuale invito alla committenza ad attivarsi urgentemente per un incontro;

 

- la manifestazione del proprio esplicito dissenso da parte del direttore dei lavori, in uno con la già disposta sospensione (sia pur ultra vires et onera sua), e l’altrettanto esplicito avviso al committente dell’opera integra, completa ed esaurisce l’orbita degli incombenti facenti capo a P. D., onde l’impredicabilità tout court di una sua qualsivoglia responsabilità (non a caso mai considerata in sede penale, ove egli non ebbe giammai ad assumere la veste né di indagato né di imputato). Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la corte, decidendo, come è in suo potere, nel merito della odierna vicenda processuale, assolve P. D. dalla responsabilità risarcitoria ascrittagli.

 

Motivi di equità inducono alla compensazione delle spese di entrambi i giudizi, di appello e di cassazione.

 

 P.Q.M. Accoglie il ricorso e decidendo nel merito assolve dalla responsabilità risarcitoria.

 

 

 

Sentenza 20 settembre 2011, n. 19156

 

Questa Corte ha già affermato, sulla scorta di autorevole dottrina, che non può essere definita sciopero ogni manifestazione di lotta che i soggetti agenti designino come tale (cfr. ex multis Cass. n. 548/20011). Lo sciopero si risolve, nei fatti, nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione. La mancata esecuzione si estende per una determinata unità di tempo: una giornata di lavoro, più giornate, oppure periodi di tempo inferiori alla giornata, sempre che non si vada oltre quella che viene definita “minima unità tecnico temporale”, al di sotto della quale l’attività lavorativa non ha significato esaurendosi in una erogazione di energie senza scopo, tale logica la giurisprudenza, dopo alcune oscillazioni, ha riportato entro la nozione di sciopero anche la mancata prestazione del lavoro straordinario (Cass. n. 2480/76). L’astensione anche in questo caso ha una precisa delimitazione temporale e concerne tutte le attività richieste al lavoratore. Al contrario, ci si colloca al di fuori dell’esercizio del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere. E’ il caso del cd. sciopero delle mansioni, comportamento costantemente ritenuto estraneo al concetto di sciopero e pertanto dichiarato illegittimo dalla giurisprudenza (Cass. n. 2214/86).

 

 Nel caso in esame, la Corte territoriale ha accertato, con motivazione adeguata e coerente sul piano logico, che l’astensione non ha avuto ad oggetto prestazioni di lavoro straordinario o una “prestazione aggiuntiva”, suscettibile di essere rifiutata in via autonoma rispetto alla prestazione ordinaria del portalettere.

 

  Il rifiuto di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell’obbligo di sostituzione previsto dalla normativa collettiva, pertanto, non è astensione dal lavoro straordinario, né astensione per un orario delimitato e predefinito, ma è rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute. Situazione, dunque, assimilabile a quella del ed. sciopero delle mansioni, perché, all’interno dei complesso di attività che il lavoratore è tenuto a svolgere, l’omissione concerne solo un aspetto specifico di tali obblighi. L’astensione, pertanto, non può essere qualificata sciopero e resta un mero inadempimento parziale della prestazione dovuta, con conseguente legittimità della sanzione disciplinare (cfr. Cass. n. 548/2011 cit., Cass. n. 17995/2003, cui adde Cass. n. 547/2011, nonché Cass. n. 9714/2011 cit.).

 

 

 

Sentenza 16 settembre 2011, n. 18907

 

è del tutto evidente – ad avviso della Corte – il carattere elusivo dell’operazione posta in essere nel caso concreto, giustificata esclusivamente dall’intento delle parti di procurare un illegittimo risparmio di imposta alla G., mediante una fatturazione”soggettivamente inesistente”, poiché effettuata nei confronti di un soggetto diverso dall’effettivo cessionario dei beni. Ed invero, osserva la Corte che, in materia di IVA, la nozione di “fattura inesistente” va riferita, non soltanto all’ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi – ricorrente nella specie – di inesistenza soggettiva, che ricorre quando, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi. In tal caso, invero, se cede a carico del fittizio acquirente dei beni fatturati l’obbligo di corrispondere l’imposta sull’operazione soggettivamente inesistente, ai sensi dell’art. 21, co. 7 de d.P.R. n. 633/72, risulta, tuttavia, evasa l’imposta relativa al diverso rapporto realmente posto in essere (cfr. Cass. 15374/02, 6378/06). Da quanto suesposto consegue, pertanto, che la transazione commerciale attuata dalle partì, nel caso concreto, integra certamente un’ipotesi di operazione elusiva costituente abuso del diritto, giacché l’elemento predominante ed assorbente dell’operazione economica è, senza dubbio, quello di ottenere vantaggi fiscali illegittimi per una delle parti (v., tra le tante, Cass. 10257/08, 1465/09, 20029/10).

 

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