Non c’è crisi che tenga, la scelta
unilaterale dell’imprenditore di ridurre l’orario di
lavoro dei propri dipendenti è nulla ed espone l’impresa
a pagare la retribuzione piena ai prestatori. Lo ha
stabilito la Corte di cassazione, sentenza 24476/2011,
su bocciando il ricorso di una impresa farmaceutica
attiva nel Salento che era stata condannata in Appello
dopo aver vinto in primo grado.
La storia è quella di un dipendente
di lungo corso che dopo quasi trenta anni di servizio,
venne assunto nel 1971, nell’agosto del 1999, si vide
ridurre per una decisione aziendale l’orario di lavoro e
dunque lo stipendio. Andato in pensione tre anni dopo,
nel 2011, aveva richiesto il pagamento per tutte le ore
prestate in meno, determinandone l’ammontare in circa
8mila euro. Il tribunale di Lecce bocciò la domanda
sulla base del fatto che dalla testimonianza dello
stesso dipendente era emersa la sottoscrizione di un
accordo sindacale nel 1990 in cui si accettava la
riduzione dell’orario di lavoro.
Per la Corte d’Appello,
ragionamento poi condiviso in Cassazione, però
quell’accordo era troppo risalante nel tempo per poter
essere applicato al caso specifico, che invece dipendeva
da una decisione datoriale autonoma del 1999. Non solo,
ma anche se vi fosse stato un ulteriore accordo verbale
sulla riduzione dell’orario sarebbe comunque mancata la
forma scritta che in questo caso è richiesta ad
substantiam. Ragion per cui la clausola era da
considerarsi nulla e il rapporto convertito nuovamente
in contratto a tempo pieno, con il conseguente diritto a
vedersi retribuite le ora lavorative non prestate.
Infatti, ricorda la Cassazione la
trasformazione del rapporto da full a part time è
ammessa soltanto su accordo delle parti, risultante da
atto scritto, e per di più convalidato dall’ufficio
provinciale del lavoro dopo aver ascoltato il
dipendente. |