Maria Cristina Iannini
(Estratto da Diritto e Processo
formazione n. 10/2011)
QUAESTIO IURIS
La questione dei rapporti esistenti
tra l’azione di risoluzione con conseguente richiesta di
risarcimento del danno e l’esercizio del diritto di
recesso con ritenzione della caparra di cui all’art.
1385 c.c., è stata oggetto di molteplici interventi
giurisprudenziali che nel tempo hanno determinato un
quadro complesso e disomogeneo.
Com’è noto, l’art. 1385, co. 3,
c.c. abilita l’adempiente ad agire in risoluzione,
precisando che il risarcimento del danno è regolato
dalle norme generali ma senza spiegare se il
trattenimento della caparra possa divenire o meno una
domanda non subordinata ma consequenziale rispetto a
quella di risoluzione del contratto.
Per cui ci si è chiesto se la parte
adempiente possa, al tempo stesso, chiedere la
risoluzione del preliminare, il risarcimento del danno
ed il trattenimento della caparra.
La dottrina e la giurisprudenza
dominanti (da ultimo si veda Sezioni Unite della
Cassazione sentenza n. 553/2009) escludono tale
possibilità, facendo leva sull’alternatività dei rimedi.
Invero, si osserva che trattenere
la caparra ricevuta (oppure domandare la condanna al
pagamento del doppio della caparra) implica
l’accoglimento della domanda di recesso dal contratto e
non la sua risoluzione, essendo diversa la natura delle
due azioni e delle conseguenti pronunce giudiziali.
La parte adempiente, quindi, deve
scegliere: o agire in recesso ed ottenere agevolmente
dal Giudice il riconoscimento del diritto a trattenere
la caparra (ovvero ad ottenere il doppio di quella
versata) oppure agire in risoluzione ed in via
risarcitoria, così ottenendo il risarcimento del danno,
ma restituendo la caparra.
Sulla questione è tornata di
recente la Corte di Cassazione che, con la pronuncia
del 6 settembre 2011, n. 18264, si è occupata, in
particolare, della problematica inerente alla
possibilità di esercitare il diritto di recesso dopo che
sia stata emessa una sentenza che ha stabilito la
risoluzione del contratto preliminare.
A tale riguardo, la giurisprudenza
dominante ha ritenuto che la facoltà di esercitare il
recesso con i diritti ad esso conseguenti, presuppone
che il contratto dal quale si intende recedere esista
ancora, operando il recesso ex nunc dalla comunicazione
alla controparte; ove, invece, una sentenza di
risoluzione, ai sensi dell’art. 1458, co. 1, c.c., ha
tra le parti effetto retroattivo ed elimina dal traffico
giuridico il contratto e la relativa clausola contenente
la caparra.
Argomentando in questo modo ne
consegue che l’operatività ex tunc degli effetti della
sentenza dichiarativa e, quindi, l’accertata risoluzione
del contratto già prodottasi al termine fissato dalla
diffida, esclude che possa ancora recedersi da un
contratto già risolto (Cass. n. 9040/2006).
Secondo un orientamento, per vero
rimasto minoritario, invece, anche dopo la pronuncia di
risoluzione, rientrerebbe nell’ambito dell’autonomia
delle parti la scelta se esercitare il diritto
all’esecuzione della pronuncia oppure il diritto
potestativo di recesso.
La Cassazione, con la sentenza del
6 settembre 2011, n. 18264, intende dare continuità
all’orientamento prevalente, ribadendo che se il giudice
risolve il contratto preliminare, chi richiede i danni
non ha diritto alla caparra.
In specie, i giudici hanno spiegato
che, per effetto del passaggio in giudicato della
sentenza sulla risoluzione del contratto preliminare di
compravendita, si determina la preclusione, per le parti
adempienti, di far valere, nel separato giudizio avente
ad oggetto il risarcimento del danno "da risoluzione",
il recesso dal contratto, al fine di poter fruire della
liquidazione forfettaria del danno, garantita dal
diritto di incamerare la caparra.
LA SOLUZIONE di Cassazione 6
settembre 2011, n. 18264
Pertanto, la Corte afferma che:
1.La Corte distrettuale,
argomentando sulla perdurante facoltà di scelta del
diritto di recedere dal contratto pur dopo aver proposto
l’azione di risoluzione, è incorsa in un errore di
analisi della logica sottesa all’appello del G. in
quanto ha privilegiato quello che era un posterius
rispetto all’eccezione contenuta nel primo motivo di
appello — vale a dire l’ammissibilità della scelta del
recesso dopo aver chiesto ed ottenuto la risoluzione con
sentenza passata in giudicato - non considerando che
l’esame in merito all’alternatività di tale scelta
(peraltro esclusa in maniera autorevole dalle Sezioni
Unite di questa Corte con sentenza 553/2009) avrebbe
dovuto esser preceduto dalla valutazione se fossero
ancora sussistenti le due opzioni per la parte
adempiente: tale scelta processuale, nella fattispecie,
doveva dirsi preclusa proprio per il venir meno del
negozio rispetto al quale doveva venir esercitata.
2. Ne consegue che, essendo venuto
meno il negozio dal quale recedere e restringendosi
pertanto la richiesta risarcitoria ai soli danni che
positivamente si fosse dimostrato essere collegati
causalmente alla risoluzione, la domanda riconvenzionale
dei promittenti venditori di incamerare la caparra è
divenuta inammissibile.
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