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INADEMPIMENTO DEL PRELIMINARE: RISOLUZIONE E RECESSO SONO DUE DOMANDE ALTERNATIVE-Cassazione, sez. II civ., 6 settembre 2011, n. 18264-Diritto e processo.it

 

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Maria Cristina Iannini

 

(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 10/2011)

 

 

 

 

 

QUAESTIO IURIS

 

La questione dei rapporti esistenti tra l’azione di risoluzione con conseguente richiesta di risarcimento del danno e l’esercizio del diritto di recesso con ritenzione della caparra di cui all’art. 1385 c.c., è stata oggetto di molteplici interventi giurisprudenziali che nel tempo hanno determinato un quadro complesso e disomogeneo.

 

Com’è noto, l’art. 1385, co. 3, c.c. abilita l’adempiente ad agire in risoluzione, precisando che il risarcimento del danno  è regolato dalle norme generali ma senza spiegare se il trattenimento della caparra possa divenire o meno una domanda non subordinata ma consequenziale rispetto a quella di risoluzione del contratto.

 

Per cui ci si è chiesto se la parte adempiente possa, al tempo stesso, chiedere la risoluzione del preliminare, il risarcimento del danno ed il trattenimento della caparra.

 

La dottrina e la giurisprudenza dominanti (da ultimo si veda Sezioni Unite della Cassazione sentenza n. 553/2009) escludono tale possibilità, facendo leva sull’alternatività dei rimedi.

 

Invero, si osserva che trattenere la caparra ricevuta (oppure domandare la condanna al pagamento del doppio della caparra) implica l’accoglimento della domanda di recesso dal contratto e non la sua risoluzione, essendo diversa la natura delle due azioni e delle conseguenti pronunce giudiziali.

 

La parte adempiente, quindi, deve scegliere: o agire in recesso ed ottenere agevolmente dal Giudice il riconoscimento del diritto a trattenere la caparra (ovvero ad ottenere il doppio di quella versata) oppure agire in risoluzione ed in via risarcitoria, così ottenendo il risarcimento del danno, ma restituendo la caparra.

 

Sulla questione è tornata di recente la Corte di Cassazione che, con la pronuncia  del 6 settembre 2011, n. 18264, si è occupata, in particolare, della problematica inerente alla possibilità di esercitare il diritto di recesso dopo che sia stata emessa una sentenza che ha stabilito la risoluzione del contratto preliminare.

 

A tale riguardo, la giurisprudenza dominante ha ritenuto che la facoltà di esercitare il recesso con i diritti ad esso conseguenti, presuppone che il contratto dal quale si intende recedere esista ancora, operando il recesso ex nunc dalla comunicazione alla controparte; ove, invece, una sentenza di risoluzione, ai sensi dell’art. 1458, co. 1, c.c., ha tra le parti effetto retroattivo ed elimina dal traffico giuridico il contratto e la relativa clausola contenente la caparra.

 

Argomentando in questo modo ne consegue che l’operatività ex tunc degli effetti della sentenza dichiarativa e, quindi, l’accertata risoluzione del contratto già prodottasi al termine fissato dalla diffida, esclude che possa ancora recedersi da un contratto già risolto (Cass. n. 9040/2006).

 

Secondo un orientamento, per vero rimasto minoritario, invece, anche dopo la pronuncia di risoluzione, rientrerebbe nell’ambito dell’autonomia delle parti la scelta se esercitare il diritto all’esecuzione della pronuncia oppure il diritto potestativo di recesso.

 

La Cassazione, con la sentenza del 6 settembre 2011, n. 18264, intende dare continuità all’orientamento prevalente, ribadendo che se il giudice risolve il contratto preliminare, chi richiede i danni non ha diritto alla caparra.

 

In specie, i giudici hanno spiegato che, per effetto del passaggio in giudicato della sentenza sulla risoluzione del contratto preliminare di compravendita, si determina la preclusione, per le parti adempienti, di far valere, nel separato giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno "da risoluzione", il recesso dal contratto, al fine di poter fruire della liquidazione forfettaria del danno, garantita dal diritto di incamerare la caparra.

 

 

 

LA SOLUZIONE di Cassazione 6 settembre 2011, n. 18264

 

Pertanto, la Corte afferma che:

 

1.La Corte distrettuale, argomentando sulla perdurante facoltà di scelta del diritto di recedere dal contratto pur dopo aver proposto l’azione di risoluzione, è incorsa in un errore di analisi della logica sottesa all’appello del G. in quanto ha privilegiato quello che era un posterius rispetto all’eccezione contenuta nel primo motivo di appello — vale a dire l’ammissibilità della scelta del recesso dopo aver chiesto ed ottenuto la risoluzione con sentenza passata in giudicato - non considerando che l’esame in merito all’alternatività di tale scelta (peraltro esclusa in maniera autorevole dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza 553/2009) avrebbe dovuto esser preceduto dalla valutazione se fossero ancora sussistenti le due opzioni per la parte adempiente: tale scelta processuale, nella fattispecie, doveva dirsi preclusa proprio per il venir meno del negozio rispetto al quale doveva venir esercitata.

 

2. Ne consegue che, essendo venuto meno il negozio dal quale recedere e restringendosi pertanto la richiesta risarcitoria ai soli danni che positivamente si fosse dimostrato essere collegati causalmente alla risoluzione, la domanda riconvenzionale dei promittenti venditori di incamerare la caparra è divenuta inammissibile.

 

 

 

 

 

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