La norma richiamata non è stata
considerata "valida" e quindi "legittima"
SENTENZA N. 303
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente:
Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco
GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino
CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,
Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge
4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia
di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di
congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione
femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro), promossi dalla Corte di
cassazione con ordinanza del 28 gennaio 2011 e dal
Tribunale di Trani con ordinanza del 20 dicembre 2010
iscritte ai nn. 62 e 86 del registro ordinanze 2011 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
16 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di
Poste Italiane s.p.a., di C. C. e di S. G., nonché gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4
ottobre 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Arturo Maresca e
Roberto Pessi per Poste Italiane s.p.a., Sergio Vacirca
e Vittorio Angiolini per C. C., Domenico Carpagnano e
Vincenzo De Michele per S. G. e l’avvocato dello Stato
Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1. – La Corte di cassazione, con
ordinanza del 28 gennaio 2011, ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale, con riferimento agli artt.
3, 4, 24, 111 e 117 della Costituzione, dell’art. 32,
commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183
(Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e
permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per
l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure
contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di
lavoro pubblico e di controversie di lavoro). Tali
disposizioni prevedono quanto segue: il comma 5, che nei
casi di conversione del contratto a tempo determinato,
il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il
lavoratore in ragione di un’indennità onnicomprensiva
nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo
di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8
della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui
licenziamenti individuali); il comma 6, che, in presenza
di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché
stipulati con le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, i quali contemplino l’assunzione, anche a
tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con
contratto a termine nell’àmbito di specifiche
graduatorie, il limite massimo della suddetta indennità
è ridotto alla metà; il comma 7, che tali previsioni
trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi
quelli pendenti alla data di entrata in vigore della
predetta legge.
1.1. – Riferisce la Corte
rimettente che, con ricorso al Tribunale di Pisa, il
signor C. C. aveva affermato l’illegittimità del termine
di durata apposto al contratto con cui la S.p.A. Poste
Italiane lo aveva assunto al lavoro, nonché la
conseguente conversione del negozio in contratto a tempo
indeterminato, chiedendo che la società, avvalsasi del
termine ed estromessolo dall’azienda, fosse condannata a
riammetterlo in servizio ed a risarcirgli il danno da
sospensione del rapporto di lavoro; che, rigettata la
domanda in primo grado, la Corte d’appello di Firenze,
in accoglimento del gravame del lavoratore, aveva
accertato la sussistenza di un contratto a tempo
indeterminato e condannato la società a riammetterlo in
servizio ed a risarcirgli il danno, pari alle
retribuzioni con accessori, a partire dal 26 settembre
2002, ossia dal giorno in cui egli aveva offerto le
proprie prestazioni; che contro detta sentenza la
società aveva proposto ricorso per cassazione. Entrata
nelle more del giudizio in vigore la legge n. 183 del
2010, la Corte rimettente opina di dover applicare la
nuova disciplina in materia di contratto a tempo
determinato delineata dalle disposizioni impugnate ivi
contenute, in quanto ritenute riferibili a tutti i
giudizi in corso, di qualunque grado. Sicché, la
sentenza impugnata dovrebbe a suo avviso essere cassata
con rinvio, onde consentire al giudice di merito di
calcolare l’indennità spettante in base alla novella, in
misura certamente inferiore a quella dovuta ai sensi
della normativa previgente, ossia dal 26 settembre 2002
fino alla riammissione al lavoro, nella specie – stando
agli atti – non ancora avvenuta. Donde la rilevanza
delle questioni di legittimità costituzionale dei commi
5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010.
1.2. – La Corte di cassazione
ritiene, altresì, non manifestamente infondate le
questioni di legittimità delle suddette norme. In primo
luogo, per denunciato contrasto di esse con gli artt. 3,
secondo comma, 4, 24 e 111 Cost., perché la previsione
di un’indennità circoscritta ad alcune mensilità di
retribuzione sarebbe irragionevolmente contenuta
rispetto all’ammontare del danno sopportato dal
prestatore di lavoro a causa dell’illegittima
apposizione del termine al contratto, che aumenta con il
decorso del tempo, assumendo dimensioni imprevedibili,
in quanto pari almeno alle retribuzioni perdute dalla
data dell’inutile offerta delle proprie prestazioni fino
a quella, futura ed incerta, dell’effettiva riammissione
in servizio. Con il risultato che la liquidazione
eventualmente sproporzionata per difetto rispetto
all’ammontare del danno sofferto dal lavoratore
indurrebbe il datore di lavoro a persistere
nell’inadempimento tentando di prolungare il giudizio
oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di
condanna, non suscettibile di realizzazione in forma
specifica. Con ciò vanificando il diritto del cittadino
al lavoro ed arrecando grave nocumento all’effettività
della tutela giurisdizionale, che esige l’esatta, per
quanto materialmente possibile, corrispondenza tra la
perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo
ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale. Ancora in
riferimento all’art. 4 Cost., atteso che la sproporzione
fra la tenue indennità ed il danno, che aumenta con la
permanenza del comportamento illecito del datore di
lavoro, sembrerebbe contravvenire all’accordo quadro sul
lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed
allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE
(direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro
CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), come
interpretato dalla giurisprudenza comunitaria.
1.3. – Con riguardo all’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, primo
comma, della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 agosto
1955, n. 848, la Corte rimettente deduce che le
disposizioni censurate, dettate da motivi di opportunità
economica, realizzerebbero un’intromissione del potere
legislativo nell’amministrazione della giustizia, volta
ad influire sulla decisione di una singola controversia
o su un gruppo di esse, non giustificata da ragioni
“imperative” di interesse generale, né da esigenze
parificatrici in rapporti di lavoro pubblico, né
dall’incerta interpretazione o da imperfezioni tecniche
delle norme di diritto comune in tema di risarcimento
del danno subìto dal lavoratore, come costantemente
interpretate dalla giurisprudenza lavoristica.
2. – Con memoria depositata il 3
maggio 2011 si è costituita la società Poste Italiane,
ricorrente nel giudizio principale, chiedendo la
dichiarazione di manifesta inammissibilità ovvero di non
fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione.
2.1. – In punto d’inammissibilità,
la parte privata evidenzia il difetto di rilevanza delle
questioni in esame, in quanto poste in via puramente
ipotetica ed in relazione a norme destinate a trovare
applicazione solo nell’àmbito del giudizio rescissorio
avanti alla competente Corte d’appello.
2.2. – Nel merito, all’asserito
contrasto delle norme censurate con i princìpi di
ragionevolezza e di effettività del rimedio
giurisdizionale, espressi negli artt. 3, secondo comma,
24 e 111 Cost., nonché con il diritto al lavoro di cui
all’art. 4 Cost., la predetta società obietta che il
legislatore, in un ragionevole bilanciamento ex ante
degli interessi delle parti, per un verso, ha incentrato
la garanzia del contraente debole sulla conversione del
rapporto, per altro verso, ha rimodulato la concorrente
tutela risarcitoria secondo un criterio equilibrato e
ragionevole, già sperimentato per il caso di tutela
obbligatoria del posto di lavoro.
Quanto all’asserita violazione
dell’art. 117, primo comma Cost., la società Poste
Italiane eccepisce, in primis, l’inammissibilità della
questione, poiché non sollevata rispetto al comma 7
dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, ed argomenta
per la sua infondatezza in base alla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, che non
vieta in assoluto qualunque ingerenza del legislatore,
ma stigmatizza l’alterazione della “parità delle armi”
nei giudizi in corso solo quando lo Stato utilizzi il
potere legislativo per volgere a suo favore l’esito di
una controversia di cui esso sia parte. Mentre la
riforma in oggetto sarebbe di carattere generale, e
dunque non già diretta ad interferire sulla decisione di
specifiche controversie, ma a parificare il trattamento
di situazioni eguali a prescindere dalla data di
introduzione del giudizio.
3. – Con memoria depositata il 28
aprile 2011 si è costituito il signor C. C., lavoratore
resistente nel giudizio principale, chiedendo
l’accoglimento delle questioni in esame.
Ritenutane la rilevanza alla luce
delle puntuali allegazioni del giudice a quo, sottolinea
l’irragionevolezza delle disposizioni di legge
censurate, per la contraddizione logica e giuridica tra
il mantenimento della conversione del rapporto a tempo
indeterminato e l’esclusione della disciplina
risarcitoria di diritto comune, di applicazione
direttamente conseguente alla prima. Evidenzia, inoltre,
la violazione dei limiti di compatibilità costituzionale
dello scostamento della disciplina dell’illecito civile
dai princìpi del diritto comune, in contrasto con gli
artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost., e l’inidoneità del
rimedio apprestato dalla norma censurata, con
un’indennità modellata su quella di cui all’art. 8 della
legge n. 604 del 1966, ad offrire adeguata tutela ad una
generalità di lavoratori versanti in situazioni anche
molto diverse tra loro.
4. – Con atto depositato il 3
maggio 2010 è intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la
dichiarazione di manifesta inammissibilità e/o non
fondatezza delle questioni.
4.1. – In via preliminare, la
difesa dello Stato: a) evidenzia che l’oggetto del
presente giudizio di legittimità costituzionale non
sarebbe costituito in alcun modo dalla disposizione di
cui al comma 7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010
e ne deduce l’inconferenza delle questioni di diritto
intertemporale e di applicabilità ratione temporis delle
disposizioni di cui ai commi 5 e 6 dell’articolo
succitato; b) eccepisce la manifesta inammissibilità
delle proposte questioni di legittimità (in riferimento
a tutti i dedotti parametri di costituzionalità) per
difetto del requisito della rilevanza in relazione al
giudizio a quo. Ciò, in quanto il giudice rimettente
avrebbe affermato apoditticamente la violazione delle
invocate disposizioni costituzionali determinata
dall’applicazione dei criteri di quantificazione di cui
ai commi 5 e 6 del medesimo art. 32, senza suffragare in
alcun modo le proprie deduzioni con valutazioni relative
alle peculiarità del caso di specie.
4.2. – Inoltre, a sostegno della
non fondatezza delle questioni sollevate, la difesa
dello Stato pone in risalto come i limiti dell’indennità
predeterminati dal legislatore tengano conto – a suo
avviso, in un equilibrato bilanciamento degli interessi
– del vantaggio per il lavoratore derivante dal
mantenimento della regola di conversione del rapporto,
immune da decadenze di sorta, e della intollerabile
incertezza sull’ammontare del risarcimento registratasi
nella prassi.
Sarebbe parimenti infondata, per le
medesime ragioni, la denuncia della lesione dell’art. 4
Cost., in quanto guida programmatica per il legislatore,
ma non tale da condizionarlo nelle scelte “tecniche”.
Quanto poi alla censura riferita
all’art. 117 Cost., il richiamo all’art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo non sarebbe
pertinente all’ipotesi in esame, trattandosi di
contenziosi tra privati cittadini ed aziende private. Né
la citata norma della CEDU potrebbe essere interpretata
nel senso dell’impossibilità per il legislatore
nazionale di disporre norme con efficacia retroattiva.
Peraltro, la condivisa applicabilità delle norme
censurate, innovative in via generale ed astratta della
disciplina del contratto a termine, sia ai giudizi in
corso, che a quelli in divenire, sarebbe valsa a
superare le criticità rilevate dalla Corte
costituzionale in ordine al previgente art. 4-bis del
decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione
della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro
sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal
CEEP e dal CES), avuto riguardo alla discriminazione di
situazioni da esso realizzata in base alla circostanza,
del tutto accidentale, della data di pendenza della lite
(sentenza n. 214 del 2009).
5. – Il Tribunale di Trani, in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 20
dicembre 2010, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 11, 24,
101, 102, 111 e 117 Cost., dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge n. 183 del 2010.
5.1. – Riferisce il giudice
rimettente che, con domanda proposta in data 11 agosto
2010, il lavoratore G. S. aveva convenuto in giudizio la
S.p.A. Poste Italiane, chiedendo l’accertamento
dell’illegittimità del termine apposto al contratto di
lavoro sottoscritto il 5 aprile 2007; che nella pendenza
del giudizio, il 24 novembre 2010, era entrata in vigore
la legge n. 183 del 2010; che la società convenuta aveva
invocato l’applicazione dell’art. 32 della legge citata,
prevedente una forfetizzazione dal danno risarcibile al
lavoratore «nei casi di conversione del contratto a
tempo determinato», ivi incluso il comma 6, «in quanto»
avrebbe «stipulato (e» mantenuto «in essere) accordi
sindacali a livello nazionale che prevedono l’assunzione
anche a tempo indeterminato di lavoratori già occupati
con contratto a termine nell’àmbito di specifiche
graduatorie»; di avere così pronunciato una sentenza
parziale, con cui aveva dichiarato «la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto
dalle parti in data 5 aprile 2007» e l’instaurazione tra
le parti di un rapporto a tempo indeterminato dalla data
di assunzione, ordinando «alla società di riammettere
immediatamente in servizio il lavoratore», nonché, al
contempo, un’ordinanza in pari data, con cui,
«impregiudicata ogni ulteriore valutazione», aveva
concesso «alle parti, ex art. 32, comma 7, del c.d.
“Collegato Lavoro”», un termine per l’integrazione della
domanda e delle eccezioni in ordine all’ammontare del
risarcimento dovuto, rinviando per la discussione sui
restanti profili alla udienza del 20 dicembre 2010.
5.2. – Ad avviso del giudice
rimettente le nuove disposizioni contrastano, anzitutto,
con l’art. 3 Cost., sotto i profili della ragionevolezza
e del divieto di discriminazioni.
Sotto il primo profilo, perché la
forfetizzazione del risarcimento operata mediante la
liquidazione di una modesta indennità “onnicomprensiva”,
tale da monetizzare persino il diritto indisponibile
alla regolarizzazione contributiva e calcolata, oltre
tutto, secondo i criteri inappropriati di cui all’art. 8
della legge n. 604 del 1966, renderebbe
irragionevolmente irrilevante, anche a fronte della
ricostituzione ex tunc del rapporto sottesa alla
disposta “conversione” di esso, il tempo che il
prestatore di lavoro subordinato è costretto ad
attendere per ottenere l’accertamento giudiziale
dell’illegittimità del termine, negandogli quanto,
invece, l’ordinamento riconosce a tutti gli altri
soggetti contrattuali nel caso di inadempimento delle
loro controparti, ossia il diritto al pieno risarcimento
del danno subìto. In tal modo, inoltre, il datore di
lavoro sarebbe incoraggiato ad assumere un comportamento
dilatorio ed ostruzionistico onde ritardare, con ogni
mezzo, il momento della definitiva pronuncia.
Quanto al secondo aspetto, le norme
censurate discriminerebbero una serie di lavoratori
versanti in situazioni comparabili, ossia coloro i quali
ottengano incolpevolmente la pronuncia favorevole nei
gradi successivi al primo rispetto a coloro i quali,
invece, l’abbiano ottenuta già in primo grado, in
quanto, a differenza di questi ultimi, non possono
«tenere fuori dall’indennità “onnicomprensiva” le
retribuzioni e i contributi successivi alla pronuncia di
primo grado»; i lavoratori assunti a termine rispetto ad
altre categorie di dipendenti precari, aventi diritto
alla ricostruzione del rapporto di lavoro, sia sotto il
profilo retributivo che sotto quello contributivo,
secondo le consuete regole generali; i lavoratori
assunti a termine con giudizio ancora pendente in primo
grado nei confronti di coloro la cui causa penda in
appello o in cassazione, essendo le nuove disposizioni
applicabili esclusivamente ai primi.
5.3. – Sarebbero, inoltre, lesi,
gli artt. 24, 101 e 102 Cost., perché il citato art. 32,
ridimensionando la tutela già offerta dal diritto
vivente, ricalcata dalle conclusioni rassegnate dal
ricorrente nella sua domanda giudiziale, ha finito per
incidere sui princìpi della domanda e dell’interesse ad
agire e, quindi, sul diritto all’azione, sino a minare,
inoltre, con la sua efficacia retroattiva «la tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale
principio connaturato allo Stato di diritto» e «la
coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico»,
oltre che «il rispetto delle funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario» (v. citata la sentenza
n. 209 del 2010).
5.4. – Il giudice a quo ravvisa,
infine, una violazione degli artt. 117, primo comma, 11
e 111 Cost., anche con l’interposizione dell’art. 6,
primo comma, CEDU, nella misura in cui la norma di cui
all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010, in mancanza dei “motivi imperativi di interesse
generale” che avrebbero potuto giustificarla, «cancella,
con efficacia retroattiva, una parte rilevante di
diritti (il risarcimento effettivo e la regolarizzazione
previdenziale del rapporto) comunque riconosciuti al
lavoratore dalla previgente normativa».
5.5. – Oltre che non manifestamente
infondate, le questioni di legittimità costituzionale
sin qui illustrate sarebbero, altresì, rilevanti nel
giudizio a quo, in quanto solo l’accoglimento di esse,
con l’espunzione dall’ordinamento giuridico dell’art.
32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 sarebbe
in grado di consentire al lavoratore ricorrente – al
quale è già stata riconosciuta dal medesimo Tribunale
rimettente la conversione del rapporto con sentenza
parziale – «di beneficiare della regolarizzazione della
sua posizione contributiva e del risarcimento
“effettivo” (rectius: integrale) del danno subìto, nella
misura delle retribuzioni maturate, al netto
dell’aliunde perceptum, per il periodo successivo alla
lettera di messa in mora».
6. – Con memoria depositata in data
25 maggio 2011 si è costituito in giudizio il signor G.
S., lavoratore ricorrente nel giudizio principale,
instando per la declaratoria di illegittimità
costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge
n. 183 del 2010, con riferimento agli artt. 3, 11, 24,
101, 102, 111 e 117 Cost., ed argomentando in tal senso,
in conformità alla già sollecitata ordinanza di
rimessione, con dovizia di citazioni giurisprudenziali.
7. – Con atto depositato il 7
giugno 2011 si è costituita la S.p.A. Poste Italiane,
chiedendo che le questioni di legittimità sottoposte
alla Corte costituzionale siano dichiarate
manifestamente inammissibili ovvero non fondate.
7.1. – In punto d’inammissibilità,
eccepisce il difetto di motivazione sulla rilevanza, non
essendo dato in alcun modo evincere dall’ordinanza di
rimessione «se, in punto di entità del risarcimento del
danno riconoscibile al ricorrente, questi, in mancanza
della nuova disciplina dettata dall’art. 32, commi 5, 6
e 7, della legge n. 183 del 2010, avrebbe effettivamente
e concretamente potuto percepire una somma maggiore di
quella che potrebbe essergli riconosciuta applicando i
criteri previsti dalle norme censurate». Eccepisce,
inoltre, l’inammissibilità della questione della
violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo
discriminatorio, perché presentata in modo alternativo o
ancipite, vale a dire alla stregua di un’interpretazione
ondivaga dell’àmbito di applicazione della novella.
7.2. – In merito alla non
fondatezza, ricalca gli argomenti spesi, in relazione ai
parametri dell’art. 3, secondo comma, e 117, primo
comma, Cost., nell’atto di costituzione nel giudizio
introdotto dall’ordinanza r.o. n. 62 del 2010, sopra
riassunto.
Esclude, in primo luogo, il
contrasto dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n.
183 del 2010 con l’art. 3, primo comma, Cost., negando
la sussistenza di discriminazioni di sorta tra i
lavoratori che ottengano la conversione del contratto a
termine in primo grado rispetto a coloro i quali la
conseguano negli altri gradi di giudizio, in quanto
tutti allo stesso modo ragionevolmente destinatari del
medesimo regime indennitario, ed evidenzia, in primis
come ulteriore motivo d’inammissibilità della questione
de qua, la totale inconferenza dei tertia comparationis
identificati dal rimettente. Quanto all’efficacia
retroattiva della novella (e ai suoi riflessi negativi
sugli artt. 3, 24, primo comma, 101 e 102 Cost.),
l’anzidetta società obietta che essa debba ritenersi
pienamente legittima, non trattandosi di norma penale ed
essendo ragionevole l’applicazione del nuovo regime
speciale anche per il passato. Osserva, inoltre, la
parte privata che il sistema del “diritto vivente”
pretesamente vulnerato sarebbe sempre legittimamente
soggetto ad interventi legislativi; che, non avendo la
regola generale di integralità della riparazione
copertura costituzionale, ben potrebbe il legislatore
ritenere equa e conveniente una limitazione al
risarcimento del danno, anche rispetto a posizioni di
diritto soggettivo perfetto, salva l’intangibilità del
giudicato nella specie fatta salva; che, siccome
l’attività del legislatore opera su un piano diverso
dall’interpretazione in senso proprio del giudice, non
la potestas iudicandi sarebbe incisa, ma tutt’al più,
secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, il
«modello di decisione cui l’esercizio della suddetta
potestà deve attenersi» (sentenza n. 229 del 1999).
8. – Anche nel presente giudizio
innanzi alla Corte, con atto depositato il 7 giugno
2011, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ed ha chiesto che le sollevate
questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate
non fondate, sviluppando argomenti sostanzialmente
conformi a quelli svolti nell’atto d’intervento relativo
al giudizio introdotto dall’ordinanza r.o. n. 62 del
2011, sopra sintetizzato, anche in punto di
ragionevolezza della riduzione alla metà dell’indennità
in base al disposto del comma 6 dell’art. 32 della legge
n. 183 del 2010, quale incentivo per la definizione in
sede sindacale del contenzioso seriale disposto dal
legislatore nella sua insindacabile discrezionalità.
9. – In entrambi i giudizi, con
memorie illustrative depositate il 12-13 settembre 2011,
le parti del giudizio principale hanno ulteriormente
precisato le difese già svolte negli atti di
costituzione.
Considerato in diritto
1. – Con separate ordinanze, la
Corte di cassazione ed il Tribunale di Trani hanno
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101,
102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo
in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di
enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di
incentivi all’occupazione, di apprendistato, di
occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro).
2. – La sostanziale identità delle
questioni proposte rende opportuna la riunione dei
giudizi al fine della loro decisione con un’unica
sentenza.
3. – I giudici rimettenti dubitano
della legittimità costituzionale delle disposizioni
censurate, nella parte in cui stabiliscono: che, nei
casi di conversione del contratto a tempo determinato,
il risarcimento del lavoratore illegittimamente
estromesso alla scadenza del termine dev’essere
ragguagliato ad una indennità onnicomprensiva da
liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto,
alla stregua dei criteri dettati dall’art. 8 della legge
15 luglio 1966, n. 604 (Nome sui licenziamenti
individuali) (art. 32, comma 5); che il limite massimo
dell’indennità è ridotto alla metà in presenza di
contratti collettivi di qualsiasi livello, purché
stipulati con le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo
indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto
a termine nell’àmbito di specifiche graduatorie (art.
32, comma 6); che tali disposizioni trovano applicazione
per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla
data di entrata in vigore della predetta legge (art. 32,
comma 7).
La nuova normativa è sospettata
d’illegittimità, perché ritenuta irragionevolmente
riduttiva del risarcimento del danno integrale già
conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente,
sino a monetizzare, secondo il Tribunale di Trani,
persino il diritto indisponibile alla regolarizzazione
contributiva.
In tal modo, sarebbero lesi gli
artt. 3, 4, 24, 101, 102 e 111 Cost., poiché la
liquidazione del danno, eventualmente sproporzionata per
difetto rispetto all’ammontare realmente sofferto dal
lavoratore, indurrebbe il datore di lavoro a persistere
nell’inadempimento tentando di prolungare il giudizio o
addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza
di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma
specifica. Con ciò la normativa in questione
vanificherebbe il diritto del cittadino al lavoro e
minerebbe l’effettività della tutela giurisdizionale, in
tesi frustrata dalla conseguente irrilevanza del tempo
occorrente all’accertamento giudiziale
dell’illegittimità del termine, altresì con effetti
discriminatori nei confronti di una serie di lavoratori
versanti in situazioni comparabili, sino a compromettere
le funzioni costituzionalmente riservate al potere
giudiziario.
3.1. – La società ricorrente nel
giudizio principale ed il Presidente del Consiglio dei
ministri eccepiscono l’inammissibilità delle questioni
sollevate dalla Corte di cassazione per difetto di
rilevanza.
A loro avviso, le questioni di
legittimità sarebbero state poste dalla Corte rimettente
in via puramente ipotetica, in relazione a norme
destinate a trovare applicazione solo nell’àmbito del
giudizio rescissorio avanti alla competente Corte
d’appello e senza alcun elemento di raccordo con le
peculiarità del caso di specie.
L’eccezione non è fondata, perché
la Corte di cassazione ha ragionevolmente ritenuto che
la norma debba applicarsi a tutti i giudizi, anche se
pendenti in grado di legittimità come quello sottoposto
al suo esame.
Posta tale premessa, il giudice a
quo ha motivatamente formulato una prognosi di
cassazione della sentenza impugnata, perché il danno
liquidato al lavoratore dalla sentenza di appello
eccederebbe quello massimo conseguibile in base ai nuovi
criteri ora imposti dalla legge. In effetti, per
consentire al giudice di merito – esercitati i poteri
istruttori di cui all’art. 32, comma 7, della legge n.
183 del 2010 – l’esatta commisurazione dell’indennità
tra il minimo ed il massimo previsti dai commi 5 e 6 del
medesimo articolo, è preliminare il vaglio di
legittimità costituzionale della norma.
Il difetto di rilevanza, dunque,
non sussiste.
3.2. – Anche in ordine alle
questioni sollevate dal Tribunale di Trani, la società
innanzi ad esso convenuta eccepisce la loro
inammissibilità, perché, dalla motivazione
dell’ordinanza di rimessione, non risulterebbe affatto
se il lavoratore ricorrente illegittimamente assunto a
termine, in carenza della nuova disciplina dettata
dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010, avrebbe effettivamente e concretamente potuto
percepire, a titolo di risarcimento del danno, una somma
maggiore di quella che potrebbe essergli riconosciuta in
base ai criteri previsti dalle norme censurate.
Neppure tale eccezione è fondata.
Il Tribunale di Trani, premesso di
aver già dichiarato con sentenza parziale la conversione
del rapporto di lavoro a tempo determinato in lavoro a
tempo indeterminato, ha chiaramente spiegato di dovere
applicare, quindi, ai fini della liquidazione del
risarcimento del danno conseguentemente subìto dal
ricorrente, le nuove disposizioni di cui sospetta la non
conformità alla Costituzione.
Ciò è sufficiente a dimostrare la
rilevanza delle questioni proposte dal giudice a quo,
fatta eccezione per il profilo attinente alla
ricostruzione della posizione contributiva del
lavoratore, che rimane estraneo alla fattispecie dedotta
nel giudizio principale perché, dal tenore
dell’ordinanza di rimessione, non consta univocamente
una specifica domanda sul punto.
3.2.1. – La predetta parte privata
eccepisce, inoltre, l’inammissibilità delle questioni
proposte dal Tribunale di Trani in relazione al
denunciato contrasto dei commi 5, 6 e 7 dell’art. 32
della legge n. 183 del 2010 con l’art. 3, primo comma,
Cost.
A suo avviso, infatti, il
rimettente pugliese avrebbe contraddittoriamente
prospettato, da un lato, la discriminazione dei
lavoratori i quali ottengano la “conversione” del
contratto nei giudizi di appello o di cassazione, basata
sull’applicabilità della normativa censurata ai giudizi
in corso anche nei gradi successivi al primo,
dall’altro, la discriminazione a scapito dei lavoratori
“vittoriosi” in primo grado, fondata sull’applicabilità
della novella ai soli giudizi pendenti in tribunale.
Anche tale eccezione dev’essere
disattesa.
Il Tribunale di Trani muove
dall’assunto che, rispetto ai giudizi pendenti, i commi
5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 trovino
applicazione esclusivamente in primo grado. Con il
corollario di far derivare l’asserita disparità di
trattamento, in danno dei lavoratori ricorrenti in
tribunale, segnatamente dalla disposizione di cui al
successivo comma 7, che prevede l’efficacia retroattiva
della nuova disciplina.
Pertanto, non v’è alcuna
contraddizione di principio con le ulteriori
sperequazioni ipotizzate dallo stesso giudice a quo in
base al grado del giudizio all’esito del quale la
domanda del lavoratore possa essere eventualmente
accolta. E ciò, in quanto siffatte sperequazioni sono in
tesi riferibili, invece, alle fattispecie regolate, per
il futuro, dalla normativa “a regime” di cui ai commi 5
e 6 del succitato art. 32.
3.3. – Nel merito, le questioni non
sono fondate.
3.3.1. – Il dubbio posto dai
giudici rimettenti s’incentra sulla violazione dell’art.
3, secondo comma, Cost., sotto il profilo
dell’irragionevolezza del trattamento indennitario
forfetizzato, introdotto dalla riforma in oggetto,
rispetto al più sostanzioso risarcimento che sarebbe
stato assicurato dal “diritto vivente” ricavato dalla
normativa generale di diritto comune.
La disciplina dettata dall’art. 32,
commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 prende
spunto dalle obiettive incertezze verificatesi
nell’esperienza applicativa dei criteri di
commisurazione del danno secondo la legislazione
previgente, con l’esito di risarcimenti
ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva.
Tra le variabili più evidenti registratesi nella prassi,
tutte pienamente consentite dal regime pregresso, basta
citare l’identificazione del dies a quo del diritto al
risarcimento del danno, a volte desunto da elementi
formali od espliciti, ma più spesso ricavato da
comportamenti concludenti, e la determinazione
dell’aliunde perceptum da porre in detrazione dal
pregiudizio concretamente risarcibile, talora esteso al
percipiendum, ossia al guadagno che sarebbe lecito
attendersi dal lavoratore diligentemente attivatosi
nella ricerca di un nuovo posto di lavoro, con
diversificate forme di utilizzazione, al riguardo, del
ragionamento presuntivo. È in tale contesto, quindi, che
deve inserirsi la novella in esame, diretta ad
introdurre un criterio di liquidazione del danno di più
agevole, certa ed omogenea applicazione.
Così ricostruita la ratio legis, la
normativa di riforma sfugge alle proposte censure di non
ragionevolezza.
In termini generali, la norma
scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento
del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto
a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo
l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato.
Difatti, l’indennità prevista
dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010
va chiaramente ad integrare la garanzia della
conversione del contratto di lavoro a termine in un
contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la
stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa
che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario.
Non a caso, dall’esame dei lavori
preparatori si desume che la disposizione di cui
all’art. 32, comma 5, dell’anzidetta legge dev’essere
correttamente letta come riferita alla conversione del
contratto a tempo determinato in contratto a tempo
indeterminato e che, conseguentemente, la previsione
della condanna al risarcimento del danno in favore del
lavoratore dev’essere intesa «come aggiuntiva e non
sostitutiva della suddetta conversione» (ordine del
giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato della
Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite nella
seduta del 2 marzo 2010).
D’altro canto, ancorché
nell’ipotesi di licenziamento ingiustificatamente
intimato in regime di tutela obbligatoria, il rimedio
indennitario apprestato dall’art. 8 della legge n. 604
del 1966, anche in mancanza della riassunzione, ha più
volte passato indenne il vaglio di questa Corte
(sentenze n. 46 del 2000, n. 44 del 1996 e n. 194 del
1970).
Quanto poi alla denunziata
insufficienza del trattamento forfetario previsto dalle
disposizioni censurate, la Corte di cassazione
rimettente ritiene che l’indennità onnicomprensiva
prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge citata,
non ipotizzabile come aggiuntiva al risarcimento dovuto
secondo le regole di diritto comune, assorba l’intero
pregiudizio subìto dal lavoratore a causa
dell’illegittima apposizione del termine al contratto di
lavoro, dal giorno dell’interruzione del rapporto fino
al momento dell’effettiva riammissione in servizio.
Donde l’effetto a suo avviso perverso di indurre il
datore a persistere nell’inadempimento, anche
sottraendosi all’esecuzione della condanna, non
suscettibile di esecuzione in forma specifica, con
indefinita dilatazione del danno ed abnorme sproporzione
dell’indennità rispetto ad esso.
Un’interpretazione
costituzionalmente orientata della novella, però, induce
a ritenere che il danno forfetizzato dall’indennità in
esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”,
quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino
alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara
la conversione del rapporto.
A partire dalla sentenza con cui il
giudice, rilevato il vizio della pattuizione del
termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva
una scadenza in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia
indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il
lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le
retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata
riammissione effettiva.
Diversamente opinando, la tutela
fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a
tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se,
infatti, il datore di lavoro, anche dopo l’accertamento
giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse
limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e
12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun
deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore
a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della
durata indeterminata del rapporto da parte del giudice
sarebbe posto nel nulla.
Così intesa la norma censurata,
cade l’ipotesi di paventata sproporzione dell’indennità
di cui all’art. 32, commi 5 e 6, della legge citata,
rispetto alla denunziata esigenza di ristoro di un danno
destinato a crescere con il decorso del tempo, sino ad
attingere valori non esattamente prevedibili.
E ciò, in primo luogo, perché il
legislatore ha pure introdotto sub art. 32, commi 1 e 3,
della legge n. 183 del 2010 un termine di complessivi
trecentotrenta giorni per l’esercizio, a pena di
decadenza, dell’azione di accertamento della nullità
della clausola appositiva del termine al contratto di
lavoro, fissandone la decorrenza dalla data di scadenza
del medesimo. Con l’effetto di approssimare l’indennità
in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere
dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla
sentenza, avuto, altresì, riguardo ai princìpi
informatori del processo del lavoro intesi ad
accelerarne la definizione.
In secondo luogo, perché il nuovo
regime risarcitorio non ammette la detrazione
dell’aliunde perceptum. Sicché, l’indennità
onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria.
Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza
di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito
un’altra occupazione. Con la conseguenza che la
disciplina in esame, confrontata con quella previgente,
risulta, sotto tale profilo, certamente più favorevole
al lavoratore.
Peraltro, questa Corte ha affermato
a più riprese che «la regola generale di integralità
della riparazione e di equivalenza della stessa al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura
costituzionale» (sentenza n. 148 del 1999), purché sia
garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n.
199 del 2005 e n. 420 del 1991).
Tale condizione nella specie
ricorre, tanto più ove si consideri che, nella specie,
non v’è stata medio tempore alcuna prestazione
lavorativa.
In definitiva, la normativa
impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare
un equilibrato componimento dei contrapposti interessi.
Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di
lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è
dovuta sempre e comunque, senza necessità né
dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di
sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la
predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per
il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del
rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del
diritto del lavoratore al riconoscimento della durata
indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la
vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di
un rapporto di lavoro sine die.
3.3.2. – Con specifico riferimento
alla riduzione della metà del limite superiore
dell’indennità ai sensi dell’art. 32, comma 6, la
ragionevolezza della previsione trae alimento dal favor
del legislatore per i percorsi di assorbimento del
personale precario disciplinati dall’autonomia
collettiva.
3.3.3. – Non è condivisibile
neppure il rilievo della indebita omologazione, da parte
del modello indennitario delineato dalla normativa in
esame, di situazioni diverse. Come, ad esempio, la
situazione del lavoratore il quale ottenga una sentenza
favorevole in tempi brevi, possibilmente in primo grado,
rispetto a quella di chi risulti vittorioso solo a
notevole distanza di tempo (magari nei gradi successivi
di giudizio). Ovvero del datore di lavoro il quale
spontaneamente riammetta in servizio il prestatore nelle
more del processo, pagandogli, intanto, il
corrispettivo, rispetto ad altro datore che abbia invece
“resistito” ad oltranza, evitando di riprendere con sé
il lavoratore.
È evidente che si tratta di
inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non
dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da
situazioni occasionali e talora patologiche (come
l’eccessiva durata dei processi in alcuni uffici
giudiziari). Siffatti inconvenienti – secondo la
consolidata giurisprudenza di questa Corte – non
rilevano ai fini del giudizio di legittimità
costituzionale (sentenze n. 298 del 2009, n. 86 del
2008, n. 282 del 2007 e n. 354 del 2006; ordinanze n.
102 del 2011, n. 109 del 2010 e n. 125 del 2008).
Sicché, non è certo dalle disposizioni legislative
censurate che possono farsi discendere, in via diretta
ed immediata, le discriminazioni ipotizzate.
Peraltro, presunte disparità di
trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento
in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente
assunto a termine devono essere escluse anche per la
ragione che il processo è neutro rispetto alla tutela
offerta, mentre l’ordinamento predispone particolari
rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il
protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del
lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonché gli
specifici meccanismi riparatori contro la durata
irragionevole delle controversie di cui alla legge 24
marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in
caso di violazione del termine ragionevole del processo
e modifica dell’art. 375 del codice di procedura
civile).
Inoltre, la garanzia economica in
questione non è né rigida, né uniforme. Piuttosto, la
normativa in esame, anche attraverso il ricorso ai
criteri indicati dall’art. 8 della legge n. 604 del
1966, consente di calibrare l’importo dell’indennità da
liquidare in relazione alle peculiarità delle singole
vicende, come la durata del contratto a tempo
determinato (evocata dal criterio dell’anzianità
lavorativa), la gravità della violazione e la
tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili
sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo
sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno)
altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del
rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni
delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa
(immediatamente misurabili attraverso il numero dei
dipendenti).
Quanto alle ulteriori disparità di
trattamento segnalate dal Tribunale di Trani, esse
risentono dell’obiettiva eterogeneità delle situazioni.
Ed infatti, il contratto di lavoro subordinato con una
clausola viziata (quella, appunto, appositiva del
termine) non può essere assimilato ad altre figure
illecite come quella, obiettivamente più grave,
dell’utilizzazione fraudolenta della collaborazione
continuativa e coordinata. Difforme è, altresì, la
situazione cui dà luogo la cessione illegittima del
rapporto di lavoro, laddove, nelle more del giudizio
volto ad accertarla, il rapporto corre con il
cessionario e la garanzia retributiva rimane assicurata.
Altro ancora, infine, è la somministrazione irregolare
di manodopera, quando un imprenditore fornisce personale
ad un altro al di fuori delle ipotesi consentite dalla
legge.
Da ultimo, il Tribunale rimettente
denuncia una discriminazione in danno dei lavoratori
litiganti in primo grado rispetto a quelli con una causa
già pendente in appello o in cassazione, perché – stando
alla lettera del comma 7 dell’art. 32 della legge citata
– le disposizioni di cui ai commi precedenti sarebbero,
a suo avviso, applicabili solamente ai giudizi pendenti
in tribunale.
La questione è priva di fondamento,
altresì, sotto tale profilo, perché – come
persuasivamente argomentato nell’ordinanza di rimessione
della Corte di cassazione – non v’è alcuna ragione di
differenziare il regime risarcitorio di situazioni
lavorative sostanziali tutte egualmente sub iudice.
Talché, la novella dev’essere
ritenuta applicabile a tutti i giudizi in corso, tanto
nel merito, quanto in sede di legittimità.
3.3.4. – Gli artt. 4, 24 e 111
Cost., menzionati dalla Corte di cassazione a latere
dell’art. 3, secondo comma, Cost., sembrano evocati più
a corredo del vizio denunciato in via principale che a
fondamento di autonome censure.
È, infatti, dall’asserita
irragionevolezza delle disposizioni legislative
censurate che, secondo la prospettazione del collegio
rimettente, discenderebbero sia la vanificazione del
diritto del cittadino al lavoro, in tesi resa manifesta
anche dalla non aderenza di esse alla giurisprudenza
comunitaria, sia il pregiudizio all’effettività della
tutela giurisdizionale.
Le questioni di legittimità della
normativa in esame, comunque, sono parimenti non fondate
in relazione a tutti i suddetti parametri
costituzionali.
Quanto all’art. 4 Cost., perché
questa Corte ha reiteratamente affermato che «resta
affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta
dei tempi e dei modi di attuazione della garanzia del
diritto al lavoro» (tra le altre, sentenza n. 419 del
2000). E in questo caso, oltre tutto, la garanzia in
questione è stata realizzata mediante la sancita
“conversione” del contratto di lavoro.
Non sussiste alcuna lesione del
diritto al lavoro neppure sul versante della presunta
contravvenzione all’accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla
direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (direttiva del
Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP
sul lavoro a tempo determinato), come interpretato dalla
giurisprudenza comunitaria.
Premesso che nell’ordinanza di
rimessione della Corte di cassazione tali fonti
sovranazionali sono invocate esclusivamente a supporto
della denunciata violazione dell’art. 4 Cost.,
l’esigenza di misure di contrasto dell’abusivo ricorso
al termine nei contratti di lavoro, non solo
proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e
dissuasive – quale si ricava dalla succitata normativa
europea nella ricostruzione operatane dalla Corte di
giustizia dell’Unione – risulta nella specie soddisfatta
dalla sanzione più incisiva che l’ordinamento possa
predisporre a tutela del posto di lavoro. Vale a dire
dalla trasformazione del rapporto lavorativo da tempo
determinato a tempo indeterminato, corroborata da
un’indennità di ammontare certo.
Quanto al parametro tratto
dall’art. 24 Cost., con cui nella impostazione della
Corte rimettente fa corpo l’art. 111, secondo comma,
Cost., nell’ipotesi in oggetto viene in rilievo la
disciplina sostanziale delle conseguenze
dell’illegittima apposizione di un termine al contratto
di lavoro in tema di risarcimento del danno sofferto del
lavoratore. Invece, secondo la giurisprudenza
consolidata di questa Corte, il presidio costituzionale
sopra richiamato attiene al diritto alla tutela
giurisdizionale (sentenza n. 419 del 2000) ovvero
«attribuisce diritti processuali che presuppongono la
posizione sostanziale alla cui soddisfazione essi sono
finalizzati, con la conseguenza che la disciplina
sostanziale non attiene alla garanzia del parametro
suddetto» (sentenza n. 401 del 2008).
3.3.5. – Neppure le questioni di
legittimità dell’art. 32, commi 5, 6, e 7, della legge
n. 183 del 2010 poste dal Tribunale di Trani in
relazione agli artt. 24, 101 e 102 Cost. sono fondate.
Circa la violazione dell’art. 24
Cost. specificamente denunciata dal giudice rimettente,
essa non sussiste. In realtà, come già si è osservato,
la normativa di riforma – nel dettare una disciplina con
effetti retroattivi – ha certamente inciso soltanto sul
profilo sostanziale delle regole del risarcimento del
danno prodotto dall’illegittima apposizione di una
scadenza al contratto di lavoro, preservando, del resto,
il nucleo della tutela richiesta dal ricorrente con le
proposte domande di caducazione del termine e di ristoro
del pregiudizio economico sofferto a cagione
dell’interruzione del rapporto.
Quanto poi alla denunciata lesione
dell’integrità delle attribuzioni costituzionali
dell’autorità giudiziaria, questa Corte ha precisato, in
più occasioni, che la sfera riservata al potere
giurisdizionale non è violata quando il legislatore
ordinario non tocca la potestà di giudicare, ma opera
sul piano generale ed astratto delle fonti, costruendo
il modello normativo cui la decisione del giudice deve
riferirsi (sentenze n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997;
ordinanza n. 263 del 2002). Conseguentemente, con le
disposizioni censurate, il legislatore non ha vulnerato
le attribuzioni del potere giudiziario, perché,
forfetizzando il risarcimento spettante al lavoratore
invalidamente assunto a termine, si è mosso
legittimamente sul piano delle fonti, senza ingerirsi
nella specifica risoluzione delle concrete fattispecie
in contenzioso.
4. – La Corte di cassazione ed il
Tribunale di Trani sollevano, inoltre, questioni di
legittimità dell’art. 32, commi da 5 a 7, della legge n.
183 del 2010 in relazione all’art. 117, primo comma,
Cost., con l’interposizione dell’art. 6, primo comma,
della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 agosto
1955, n. 848.
Ad avviso dei giudici a quibus, in
contrasto con il parametro costituzionale integrato
dall’art. 6 CEDU (cui il rimettente pugliese affianca
quelli tratti dagli artt. 11 e 111 Cost.), le
disposizioni censurate segnerebbero un’ingiustificata
intromissione del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia, tale da influire
sulla decisione di singole controversie o su un gruppo
di esse. Con ciò, i lavoratori già precariamente assunti
sarebbero privati di una parte dei diritti già
riconosciuti in loro favore dalla normativa previgente,
in difetto di “ragioni imperative di interesse generale”
che possano eccezionalmente autorizzare, secondo la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo, un intervento del legislatore volto ad
incidere sui processi in corso.
4.1. – Con riferimento alle
questioni poste in proposito dalla Corte di cassazione,
la società ricorrente nel giudizio principale e il
Presidente del Consiglio dei ministri eccepiscono la
loro inammissibilità, perché la Corte rimettente non
avrebbe censurato specificamente il comma 7 dell’art. 32
della legge n. 183 del 2010 – ossia la disposizione che
sancisce la riferibilità della novella a tutti i giudizi
anche pendenti e, dunque, l’efficacia retroattiva della
norma –, ma i soli commi 5 e 6. Ciò risulterebbe sia dal
dispositivo dell’ordinanza, sia dall’illustrazione delle
questioni offerta nella parte motiva del provvedimento.
Con la conseguenza che le censure mosse ad una presunta
intromissione del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia sarebbero prive di
oggetto.
L’eccezione non è fondata.
È vero, infatti, che il giudice a
quo si sofferma lungamente sul comma 7 del citato art.
32 per accreditarne l’applicabilità – secondo
un’interpretazione a suo dire costituzionalmente
orientata – a tutti i giudizi, compreso il proprio. Ma è
altrettanto certo che, in tal modo, anche detto comma
finisce per essere ineluttabilmente attratto
nell’oggetto delle censure.
4.2. – Nel merito, neppure tali
questioni sono fondate.
Sui rapporti tra l’art. 117, primo
comma, Cost. e le norme della CEDU, nella ricostruzione
ermeneutica della Corte europea dei diritti dell’uomo,
questa Corte ha più volte ribadito i princìpi fissati
con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, che devono
intendersi in questa sede richiamati.
Alla stregua di tali prìncipi,
qualora il contrasto tra la disciplina censurata e le
norme della CEDU non possa essere risolto in via
interpretativa, questa Corte deve accertare se le
disposizioni interne in questione siano compatibili con
quelle della CEDU, come interpretate dalla Corte di
Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici
dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo,
verificare se le norme convenzionali interposte, sempre
nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte
europea, non si pongano in conflitto con altre norme
conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano.
Ma se questa Corte non può
prescindere dall’interpretazione della Corte di
Strasburgo di una disposizione della CEDU, essa può,
nondimeno, interpretarla a sua volta, beninteso nel
rispetto sostanziale della giurisprudenza europea
formatasi al riguardo, ma «con un margine di
apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener
conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in
cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi
(sentenza n. 311 del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011).
Questa Corte, insomma, intende qui
ribadire che essa ha il potere di «verificare se la
norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte
europea, non si ponga in conflitto con altre norme
conferenti della nostra Costituzione» (sentenza n. 311
del 2009), «ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la
idoneità della norma convenzionale a integrare il
parametro considerato» (sentenza n. 113 del 2011).
Ovvero di «valutare come ed in qual misura il prodotto
dell’interpretazione della Corte europea si inserisca
nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU,
nel momento in cui va ad integrare il primo comma
dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel
sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini
di interpretazione e bilanciamento, che sono le
ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in
tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del
2009).
Orbene, con specifico riguardo
all’art. 6 CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo
ha ripetutamente riconosciuto che «se, in linea di
principio, nulla vieta al potere legislativo di
regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni
dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi
in vigore, il principio della preminenza del diritto e
il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 ostano,
salvo che per imperative ragioni di interesse generale,
all’ingerenza del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia al fine di
influenzare l’esito giudiziario di una controversia
(sentenze Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, §
49, serie A n. 301-B; Zielinski e Pradal & Gonzalez ed
altri, § 57). […] inoltre […] l’esigenza della parità
delle armi implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte
una ragionevole possibilità di presentare la propria
causa senza trovarsi in una situazione di netto
svantaggio rispetto alla controparte (si vedano in
particolare le sentenze Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi
del 27 ottobre 1993, § 33, serie A n. 274, e Raffinerie
greche Stran e Stratis Andreadis, succitata, § 46)»
(Agrati c. Italia, 7 giugno 2011, § 58; v., altresì,
Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011, § 43, nonché,
per una ricognizione dei casi sino ad allora trattati,
sentenza di questa Corte n. 311 del 2009).
L’esame della giurisprudenza della
Corte di Strasburgo evidenzia che il veto al legislatore
d’interferire nell’amministrazione della giustizia è
inteso ad evitare ogni influenza sulla soluzione
giudiziaria di una controversia (o di un gruppo di
controversie) di cui sia parte lo Stato, salvo che per
imperative ragioni d’interesse generale. In effetti,
pressoché in tutti i casi sopra richiamati, la
violazione dei diritti sanciti dall’art. 6, paragrafo 1,
CEDU è stata ravvisata nel fatto che lo Stato fosse
intervenuto in modo decisivo al fine di garantirsi
l’esito favorevole di processi nei quali era parte.
Alla luce dei princìpi enunciati
dalla giurisprudenza europea, il contrasto denunciato
dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Trani non
sussiste.
Ricorrono, infatti, tutte le
condizioni in presenza delle quali la Corte di
Strasburgo ritiene compatibili con l’art. 6 CEDU nuove
disposizioni dalla portata retroattiva volte a regolare,
in materia civile, diritti già risultanti da leggi in
vigore.
In primo luogo, la innovativa
disciplina in questione è di carattere generale. Sicché,
essa non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente
pubblico (o in mano pubblica), perché le controversie su
cui essa è destinata ad incidere non hanno
specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario
alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i
rapporti di lavoro subordinato a termine. Anzi, a ben
vedere, lo Stato-datore di lavoro pubblico a termine,
cui la regola della conversione del contratto a termine
non si applica ai sensi dell’art. 36, comma 5, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche), non figura neppure tra
i destinatari delle disposizioni censurate.
Inoltre sussistono in ogni caso,
con riferimento alla giurisprudenza della CEDU, motivi
per giustificare un intervento del legislatore con
efficacia retroattiva.
Questa Corte ritiene a tal
proposito di dover ribadire che la salvezza dei “motivi
imperativi d’interesse generale”, in questa sede
rilevanti, lascia ai singoli Stati contraenti il compito
e l’onere di identificarli. Ciò, in quanto essi si
trovano nella posizione migliore per enucleare gli
interessi che stanno alla base dell’esercizio del potere
legislativo. Si conferma, così, l’avviso che «le
decisioni in questo campo implicano […] una valutazione
sistematica di profili costituzionali, politici,
economici, amministrativi e sociali che la Convenzione
europea lascia alla competenza degli Stati contraenti,
come è stato riconosciuto, ad esempio, con la formula
del margine di apprezzamento, nel caso di elaborazione
di politiche in materia fiscale, salva la ragionevolezza
delle soluzioni normative adottate (come nella sentenza
National & Provincial Building Society, Leeds Permanent
Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno
Unito, del 23 ottobre 1997)» (sentenza n. 311 del 2009).
Orbene, alla luce dei rilievi in
precedenza svolti, le ragioni di utilità generale
possono essere nella specie ricondotte all’avvertita
esigenza di una tutela economica dei lavoratori a tempo
determinato più adeguata al bisogno di certezza dei
rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei
processi produttivi, anche al fine di superare le
inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo
il sistema previgente.
Il legislatore nazionale vi ha dato
risposta con una scelta di forfetizzazione indennitaria
del risarcimento del danno spettante al lavoratore
illegittimamente assunto a tempo determinato, in sé
proporzionata, nonché complementare e funzionale al
riaffermato primato della garanzia del posto di lavoro.
Non è, dunque, sostenibile che la
retroattività degli effetti dell’art. 32, commi 5 e 6,
della legge n. 183 del 2010 – come disposta dal
successivo comma 7 – abbia prodotto un’ingerenza
illecita del legislatore nell’amministrazione della
giustizia, onde alterare la soluzione di una o più
controversie a beneficio di una parte.
Invero, la normativa de qua,
escluso ogni vantaggio mirato per lo Stato od altro
soggetto pubblico, impone non irragionevolmente anche
per il passato, con il limite invalicabile della cosa
giudicata, un meccanismo semplificato di liquidazione
del danno.
Del resto, l’applicabilità della
nuova disciplina a tutti i giudizi pendenti è coerente
con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n.
214 del 2009, con cui essa ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4-bis del decreto legislativo 6
settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva
1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal
CES), introdotto dall’art. 21, comma 1-bis, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione,
la competitività, la stabilizzazione della finanza
pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
La norma succitata – che, in caso
di violazione della normativa sui contratti a termine,
prevedeva un’indennità economica, ma,
significativamente, non anche la conversione del
contratto a termine – è stata espunta dall’ordinamento
proprio perché differenziava irragionevolmente il
trattamento «di un gruppo di fattispecie selezionate in
base alla circostanza, del tutto accidentale, della
pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del
rapporto di lavoro», ad una data, quella di entrata in
vigore della novella (22 agosto 2008), come se non
bastasse «anch’essa sganciata da qualsiasi ragione
giustificatrice».
Donde l’esigenza – stavolta
pienamente realizzata seguendo un criterio più
equilibrato di omogeneità di disciplina – di parificare
situazioni di fatto identiche, a prescindere dalla data
d’introduzione del giudizio.
4.2.1. – Parimenti non sussiste la
violazione, meramente asserita, dell’art. 111 Cost.,
poiché, come già si è osservato, il legislatore non ha
inteso privilegiare una parte, tanto meno pubblica,
interessata alla soluzione di una specifica categoria di
controversie, ma si è limitato a razionalizzare con un
intervento di carattere generale – ponderatamente esteso
ai rapporti ancora sub iudice – il regime risarcitorio
del danno conseguente alla violazione della normativa
vincolistica in materia di contratti di lavoro a
termine.
4.2.2. – Residua la supposta
lesione dell’art. 11 Cost., adombrata dal Tribunale di
Trani con il richiamo all’adesione dell’Unione europea
alla CEDU e all’inclusione dei diritti fondamentali di
fonte convenzionale nel diritto dell’Unione con il rango
di princìpi generali.
A tale riguardo, in primo luogo,
non ha pregio l’argomento tratto dalla prevista adesione
dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione
che l’adesione non è ancora avvenuta, rendendo allo
stato improduttiva di effetti la statuizione del
paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione
europea, come modificato dal Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2
agosto 2008, n. 130 (sentenza n. 80 del 2011).
Inoltre, questa Corte ha già avuto
modo di chiarire che, in linea di principio, dalla
qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di
disposizioni della CEDU come princìpi generali del
diritto comunitario non può farsi discendere la
riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11
Cost., né, correlativamente, la spettanza al giudice
comune del potere-dovere di non applicare le norme
interne contrastanti con la predetta Convenzione
(sentenza n. 349 del 2007).
La validità di tale assunto è stata
confermata anche dopo l’entrata in vigore del Trattato
di Lisbona nelle materie regolate dalla sola normativa
nazionale, fermo restando tuttora che «i princìpi in
questione rilevano unicamente in rapporto alle
fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto
dell’Unione) è applicabile, […]» (sentenza n. 80 del
2011). Ed è questa l’ipotesi che ricorre in questa sede,
poiché il giudizio a quo ha ad oggetto una fattispecie,
come quella del lavoro a tempo determinato, contemplata
dal diritto comunitario (oggi dell’Unione).
Tuttavia, le suesposte ragioni
della conformità delle disposizioni in esame all’art. 6
CEDU consentono di escludere, allo stesso modo, la
violazione del diritto fondamentale da esso garantito,
ancorché integrato nel diritto dell’Unione come
principio generale.
Conseguentemente, anche sotto tale
profilo, la censura in esame è priva di fondamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e
7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e
permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per
l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure
contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di
lavoro pubblico e di controversie di lavoro), sollevate,
con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e
117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di
cassazione e dal Tribunale di Trani con le ordinanze
indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9
novembre 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l´11
novembre 2011.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI |