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La disdetta del contratto collettivo e' riservata alle parti stipulanti-Il datore di lavoro puo' recedere dal contratto nazionale di categoria? (Cassazione civile Sentenza 19/04/2011, n. 8994-Ipsoa.it

 

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di Pietro Zarattini

Il c.c.n.l. per l'industria tessile prevede, come tutti i contratti nazionali di lavoro, un meccanismo di recesso che viene generalmente attivato dai sindacati dei lavoratori. Una recente sentenza della Corte di cassazione ha escluso che tale facolta' possa essere esercitata anche dal singolo datore di lavoro, il quale deve percorrere altre strade se intende sottrarsi legittimamente all'obbligo di applicare il contratto collettivo. Vediamo quali.

 

I contratti collettivi di categoria hanno validità limitata nel tempo e recano in genere una clausola di rinnovo automatico per periodi annuali, salvo recesso delle parti da comunicare con congruo preavviso.

 

Così, ad esempio, il c.c.n.l. per le aziende industriali del comparto tessile recita al terzo comma dell’art. 8, con una formulazione che viene riprodotta senza variazioni dal 1995: “il contratto, nella sua globalità, si intenderà successivamente rinnovato di anno in anno qualora non venga data disdetta tre mesi prima della scadenza con lettera raccomandata”.

 

Anche l’ultimo rinnovo, intervenuto in data 21 maggio 2010, ha confermato la formulazione appena riportata, tranne l’ampliamento a sei mesi del periodo di preavviso in conformità al nuovo modello per la contrattazione di categoria introdotto dall’accordo quadro del 2009.

 

Dal tenore letterale della disposizione non si ricava l’identità dei soggetti titolari del potere di intimare la disdetta e ciò può aprire uno spiraglio ad interpretazioni di segno diverso.

 

Proprio basandosi sul presupposto che il recesso non compete solo alle parti stipulanti ma anche al singolo datore di lavoro, un’impresa tessile ha invocato la ricordata clausola contrattuale e comunicato la disdetta del c.c.n.l. motivandola con l’eccessiva onerosità sopravvenuta. Va precisato che l’impresa aveva applicato fino a quel momento il contratto di categoria e riteneva di sottrarsi legittimamente con l’atto di recesso, in considerazione della “rovinosa situazione economico-produttiva” in cui versava, all’obbligo di erogare ai propri dipendenti i previsti incrementi della retribuzione tabellare.

 

Il fondamento giuridico della decisione aziendale è stato peraltro contestato da una dipendente che ha fatto ricorso al giudice, lamentando l’intervenuta riduzione del suo trattamento rispetto alla dinamica dei minimi tabellari nel settore e chiedendo pertanto la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive che si erano generate.

 

Dopo i primi due gradi di giudizio, conclusi con pronunce non univoche, la questione viene ora definitivamente risolta dai giudici di legittimità che hanno rigettato le argomentazioni prospettate dall’azienda a sostegno della propria impostazione.

 

La Corte di cassazione (sentenza n. 8994 del 19 aprile 2011) ha infatti affermato, senza margini di ambiguità, che la titolarità del potere di disdetta del contratto collettivo nazionale di lavoro, attribuito dal ricordato art. 8, compete esclusivamente alle parti stipulanti ossia alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

 

A conferma del proprio pensiero la Corte ha aggiunto che il singolo datore di lavoro può essere eventualmente legittimato a disdire un accordo aziendale, ma ciò per l’appunto nella sua qualità di parte stipulante.

 

Soluzioni operative

 

Alla luce di questa sentenza, al datore di lavoro che applica un determinato contratto collettivo di categoria e che intende liberarsi da tale obbligo, senza rendersi inadempiente nei confronti dei lavoratori, si offrono due strade alternative:

 

- se l’impresa è iscritta all’associazione imprenditoriale stipulante, è necessario risolvere in primo luogo, nei modi e nei tempi previsti, il rapporto associativo da cui discende l’efficacia vincolante del c.c.n.l.;

 

- se l’impresa non è iscritta e l’obbligo di applicazione del contratto di categoria deriva, ad esempio, dal richiamo al trattamento economico e normativo del c.c.n.l. contenuto nella lettera di assunzione dei singoli dipendenti, occorre agire sul piano del rapporto individuale di lavoro per ottenere una modifica del patto a suo tempo stipulato.

 

Non sembra invece utilizzabile, per conseguire l’obiettivo indicato, il ricorso alla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta prospettata, come sopra accennato, nella comunicazione di recesso stilata dall’impresa tessile.

 

Secondo l’art. 1467 cod. civ. per determinare la risoluzione di un contratto con prestazioni corrispettive, come è il contratto di lavoro subordinato, l’eccessiva onerosità sopravvenuta deve essere causata dal verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, non rientranti nell’alea normale del contratto.

 

La mera difficoltà del datore di lavoro di adempiere al suo obbligo retributivo, causata da fatti contingenti di carattere economico e organizzativo, non consente quindi il recesso unilaterale mentre può giustificare l’attivazione di altri rimedi predisposti dall’ordinamento, come l’intervento della cassa integrazione.

 

 

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