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Procedimento per il riconoscimento dello “status” di apolide: si applica il rito ordinario-Cassazione civile, sez. I, 4 aprile 2011, n. 7614-Mio legale.it

 

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Le controversie afferenti lo “status” di apolide - in difetto di diversa esplicita previsione del legislatore - devono essere proposte e decise, nel contraddittorio con il Ministro degli Interni, nelle forme proprie del giudizio ordinario di cognizione.
Né può condurre ad una soluzione di segno diverso il fatto che sia previsto da numerose leggi speciali in materia di immigrazione e di protezione internazionale il più celere rito camerale. Se infatti il ricorso avverso ad un provvedimento di espulsione o l’ottenimento di una misura di protezione richiedono tempi celeri nella definizione del procedimento non altrettanto può dirsi per il riconoscimento dello stato di cittadino apolide in quanto non si scorge né assoluta urgenza soggettiva né interesse pubblico alla immediata definizione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 (Omissis), sull’assunto di appartenere alla etnia

 saharawi e di aver avuto travagliata storia personale, ha chiesto al Tribunale di Trento di riconoscere il proprio stato dì apolide. Il Tribunale, con decreto 27.10.2009, ha dichiarato inammissibile l’istanza perché proposta nelle forme del rito camerale e non in quelle, generali ed obbligatorie, del rito ordinario di cognizione. La Corte di Appello di Trento, alla quale lo straniero aveva proposto reclamo e contro il quale si era costituita l’Avvocatura dello Stato, ha affermato che l’accertamento dello stato in discorso - in difetto di espressa previsione sul rito camerale (quale quella afferente lo status di rifugiato) e non potendosi applicare il richiamo allo “stato delle persone” di cui all’art. 742 bis c.p.c. (afferente le ipotedi del tit. II del libro IV del codice) - doveva essere proposto e trattato con il rito ordinario. Pertanto, con decreto 22.3.2010 ha rigettato il reclamo. Per la cassazione di tale decreto El Ouariti ha proposto ricorso 18.6.2010 notificato al Ministero dell’Interno ed al P.G. presso la Corte di Trento, che non hanno svolto difese.

 Nel ricorso si denunzia la violazione degli artt. 737 e 742 bis c.p.c. perpetrata con il diniego del rito camerale e si invoca ampia giurisprudenza di merito a sostegno.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Ritiene il Collegio non fondate le censure proposte avverso la esatta decisione della Corte territoriale per la quale la controversia sottoposta dovesse essere proposta nelle forme del rito ordinario contenzioso civile. Ed infatti:

 1) L’apolidia è status del soggetto, riconosciuto dalla Conven-zione di New York del 28.9.1954; la legge 5.2.1992 n. 91 menziona lo status anzidetto equiparandolo a quello del cit-tadino straniero ai fini dell’acquisizione della cittadinanza e ad esso impone, ove residente, l’osservanza della legge ita-liana e ad esso attribuisce i diritti civili (art. 16 c. 1). Il ri-conoscimento dello status promana dalla sussistenza delle situazioni indicate nella Convenzione e viene “attestato” da decreto del Ministro dell’Interno (art. 17 del dPR 572 del 1993, regolamento di attuazione della legge 91 del 1992). Ed è proprio il Ministro dell’Interno il necessario ed esclusivo contraddittore in ordine alle domanda di riconoscimento dello stato in discorso (S.U. n. 28873 del 2008).

 2) Le controversie sull’acquisto della cittadinanza spettano, come noto, trattandosi di stato della persona, al Tribunale

 in sede di ordinaria cognizione (art. 9 comma 2 c.p.c.) e la previsione di cui all’art. 742 bis c.p.c. non si può intendere come estensiva del rito da quelle controversie sullo stato delle persone nominate al titolo II del libro IV del c.p.c. a tutte quelle appartenenti ad un indeterminato “genus” di “famiglia e stato” L’art. 742 bis del c.p.c., infatti, là dove dispone che “Le disposizioni del presente capo si applicano a tutti i procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone” comporta che, quando un procedimento in camera di consiglio sia regolato da una disciplina speciale, le eventuali lacune, in mancanza di norme che lo escludano, debbono essere colmate con il ricorso alla disciplina generale dei procedimenti in camera di consiglio contenuta negli articoli da 737 a 742 bis del c.p.c. (Cass. n. 18143 del 2002): la previsione, quindi, non ha alcuna idoneità ad estendere le ipotesi applicative di procedura camerale - sempre “nominate” - ma è diretta solo a completare le regole processuali di quelle esterne al codice di rito con le regole generali di cui agli artt. 737 e seguenti.

 3) Il rito camerale contenzioso è espressamente previsto da numerose leggi speciali e, per quel che rileva, tanto dal T.U. sull’immigrazione approvato dal d.lgs. 286 del 1998 (artt. 13 e 13 bis del T.U. come modificati dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. 113 del 1999 - art. 30 c. 6 del T.U.), quanto, in materia di protezione internazionale, dall’art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008 come modificato dalla legge n. 94 del 2009, nelle prime come nella seconda ipotesi in ragione delle esigenze di assoluta celerità nella definizione del procedimento (stante l’urgenza dei concorrenti interessi della sollecita esecuzione della misura espulsiva, nel primo caso, e della immediata risposta alla esigenza di protezione, nel secondo caso): ed appare palese come nell’acquisizione dello status di apolide non si scorge né assoluta urgenza soggettiva né interesse pubblico alla immediatezza di definizione. Né del resto appare casuale che il legislatore, all’atto di optare per la scelta camerale in ordine al procedimento afferente la protezione internazionale, ciò abbia fatto esplicitamente, ripetutamente (da ultimo con il citato d.lgs. 25 del 2008) ed imponendo la adozione della forma della sentenza per la definizione in ciascuno dei due gradi della controversia (S.U. 27310 de! 2008) restando silente invece quanto alla definizione camerale di legittimità, pertanto conclusa con ordinanza ( Cass. n. 17576 del 2010).

4) Sulla questione del rito camerale per la controversia che occupa non appare poi corretto richiamare, in favore della tesi del ricorrente, precedenti di questa Corte, dato che la decisione delle S.U. n. 28873 del 2008 si è limitata a ritenere ammissibile il ricorso in sede di legittimità avverso il decreto emesso in sede camerale contenziosa (non essendo stato prospettato alcun problema di legittimità di tale procedimento) e che di contro l’unica decisione assunta in un procedimento nel quale la questione del rito venne posta dall’Amministrazione (Cass. n. 5212 del 2008) ha ritenuto assorbente l’accoglimento del diverso motivo che prospettava la nullità della decisione per essere stata la notifica dell’atto effettuata nei confronti del Ministero e non ai sensi dell’art. 11 RD 1611 del 1933. Sulla base di tali argomenti disattese pertanto le censure mosse alla esatta decisione della Corte di merito, si rigetta il ricorso affermandosi il principio di diritto per il quale, in difetto di diversa esplicita previsione del legislatore, le controversie affe¬renti lo stato di apolide devono essere proposte e decise, nel contraddittorio del Ministro dell’Interno, nelle forme proprie dell’ordinario giudizio di cognizione. Nulla per le spese

 P.Q.M.

 Rigetta il ricorso

 deciso nella c.d.c. del 9 Marzo 2011.

 

 

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