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Usucapione: la coltivazione del terreno non basta a provare l’animus possidenti-Cassazione civile , sez. II, sentenza 26.04.2011 n° 9325 –Altalex.it

 

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(Giulio Spina)

 

Per la sussistenza dell’animus possidendi richiesto per usucapire un bene è necessaria la “manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da parte dell’interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui”. Per la relativa prova non è sufficiente aver svolto sul fondo che si asserisce usucapito l’attività di coltivazione, in quanto detta attività “non comporta di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui”.

 

È questo, in estrema sintesi, quanto affermato dalla Cassazione con la pronuncia in commento.

 

Un soggetto agiva in giudizio domandando che venisse dichiarata in suo favore l’intervenuta usucapione (speciale decennale, ovvero ordinaria ventennale), del diritto di proprietà (o quanto meno del diritto di superficie) di un fondo, esponendo di aver esercitato su di esso, per oltre venti anni, atti di possesso perfettamente corrispondenti al diritto di proprietà, essendosi comportato, a suo dire, come solo ed unico proprietario, in modo indisturbato, pubblico e notorio, avendo peraltro esercitato tale signoria con segni visibili, quali la messa a dimora di piante, di serrature e/o catene e di ogni altra opera necessaria al miglioramento del bene immobile, nonché di avere provveduto al pagamento dei tributi.

 

Il Tribunale adito, in accoglimento di tale domanda, dichiarava l’attore proprietario del terreno in contestazione per intervenuta usucapione.

 

Tuttavia, in sede di gravame, la Corte d’appello accertava che le descritte attività sul terreno in questione erano iniziate esclusivamente a seguito del consenso del coniuge della proprietaria, e che, dopo la morte di questa, la detenzione si era protratta attraverso consenso tacito con la nuova proprietaria (la figlia) anche allorché era divenuta proprietaria la figlia.

 

Non di possesso, dunque, si trattava, ma di detenzione, in quanto l’originario attore, possessore nomine alieno, avrebbe posseduto in nome di altri e non per conto e in nome proprio; in particolare, aveva ricevuto l’incarico di coltivare il terreno in questione dalla proprietaria e aveva dovuto chiedere le chiavi per accedervi.

 

L’originario attore ricorreva in Cassazione.

 

I Giudici supremi, investiti della questione, hanno rigettato il ricorso affermando che i lavori eseguiti sul terreno in questione non comportano, di per sé, una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui.

 

La Suprema Corte illustra come, al fine di usucapire un bene, sia necessaria la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, ma anche dell’animus.

 

Il primo consiste nello svolgimento di attività corrispondente all’esercizio del diritto dominicale, il secondo nell’intento di possedere la cosa per conto e in nome proprio.

 

Ciò considerato, i Giudici affermano che al fine della sussistenza di un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui necessaria per usucapire un bene non risultano sufficienti atti soltanto di gestione consentiti dal proprietario, o anche atti tollerati dallo stesso titolare del diritto dominicale.

 

Detti atti, invero, comportano solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa[1], risultando dunque incompatibili con il “comportamento continuo e non interrotto inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge, l’esercizio di un potere corrispondente a quello del proprietario”[2].

 

Con riferimento al caso di specie, prosegue la Corte, l’attività di coltivazione configura un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà (coltivare un terreno, con la messa a dimora di piante, significa, infatti, disporre materialmente di esso), ma non se non è svolta grazie a mera tolleranza del proprietario, con la conseguenza che lo svolgimento di detta attività non può consentire, di per sé, di desumere in via presuntiva l’animus possidendi, in quanto non indicativa dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria.

 

Dal punto di vista processuale, la Cassazione ricorda i seguenti principi.

 

Chi agisce in giudizio[3] per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, “deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus, ma anche dell’animus”[4] (ovvero dell’intento di avere la cosa come propria).

 

Peritato, grava su colui che invoca l’avvenuta usucapione del bene l’onere di provare in giudizio la necessaria manifestazione del proprio dominio esclusivo sulla res attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui[5].

 

L’animus possidendi, inoltre, può eventualmente essere desunto in via presuntiva qualora lo svolgimento di attività corrispondente all’esercizio del diritto dominicale sia già di per sé indicativa dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria.

 

In tal caso, sarà il convenuto a dover dimostrare il contrario, “provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale”[6].

 

(Altalex, 19 maggio 2011. Nota di Giulio Spina)

 

__________________

 

[1] Cass. n. 16841/2005.

 

[2] Cass. n. 15446/2007.

 

[3] Sull’introduzione della causa ordinaria e sull’atto di citazione si rimanda a G. SPINA, L’introduzione (Cap. V, artt. 163 ss.), in L. Viola (a cura di), Codice di procedura civile, Cedam, Padova, 2011.

 

[4] Cass. n. 975/2000.

 

[5] Cass. n. 1367/1999; Cass. n. 8152/2001; Cass. n. 19478/2007; Cass. n. 17462/2009; Cass. n. 4863/2010.

 

[6] Cass. n. 6944/1999.

 

 

| usucapione | terreno | Giulio Spina |

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE II CIVILE

 

Sentenza 15 febbraio – 26 aprile 2011, n. 9325

 

(Presidente Elefante – Relatore falaschi)

 

Svolgimento del processo

 

Con atto di citazione notificato il 13.1.1997 T.G. evocava, dinanzi al Pretore di Viterbo, A..P. esponendo di avere esercitato per oltre venti anni, comportandosi come solo ed unico proprietario, in modo indisturbato, pubblico e notorio, atti di possesso perfettamente corrispondenti al diritto di proprietà sulla porzione immobiliare sita in Comune di …, costituita da appezzamento di terreno con retrostante fabbricato rurale in località …, della superficie complessiva di aree 88,80, distinta in Catasto Terreni alla partita 1603, foglio 36, particene 147, 296, 358 e 359; aggiungeva di avere esercitato tale signoria con segni visibili, quali la messa a dimora di piante, di serrature e/o catene e di ogni altra opera necessaria al miglioramento del bene immobile, nonché di avere provveduto al pagamento dei tributi. Tanto premesso, chiedeva dichiararsi l'intervenuta usucapione speciale decennale ovvero quella ordinaria ventennale, in suo favore del diritto di proprietà di detta porzione immobiliare o quanto meno del diritto di superficie della stessa.

 

Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza della convenuta, la quale affermava di avere consentito all'attore solo di deporre utensili sul suo fondo (precisando che notificato ricorso dal T., il 17.3.1997, per la reintegra nel possesso del bene, il Pretore di Viterbo aveva rigettato la domanda con sentenza del 6.10.1997), il Tribunale (già Pretore) adito, espletata istruttoria, in accoglimento della domanda attorea, dichiarava l'attore proprietario del terreno in contestazione per intervenuta usucapione.

 

In virtù di rituale appello interposto dalla P., con il quale lamentava l'erroneità della sentenza del giudice di prime cure che aveva errato a ritenere intervenuta l'usucapione del fondo, la Corte di appello di Roma, nella resistenza dell'appellato, accoglieva il gravame e rigettava la domanda attorea.

 

A sostegno dell'adottata sentenza, la Corte territoriale evidenziava che dalle prove testimoniali, in particolare dalle affermazioni di Gi.To. (figlio dell'attore) emergeva che il T. aveva iniziato la sua attività sul terreno esclusivamente a seguito del consenso del coniuge della proprietaria, E..C. , madre dell'appellante, e la detenzione si era protratta anche allorché era divenuta proprietaria del fondo la P., per successione alla madre, attraverso consenso tacito.

 

Aggiungeva che la semplice qualità di detentore del T. andava ribadita per il fatto che lo stesso aveva dovuto chiedere le chiavi alla P. per accedere al terreno, per cui non poteva ritenersi essere intervenuta interversio possessionis almeno sino al 1996, ossia di un fatto esterno da cui desumere che il possessore nomine alieno avesse cessato di possedere in nome di altri ed iniziato un possesso per conto e in nome proprio.

 

Avverso l'indicata sentenza della Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il T., che risulta articolato su un unico motivo, al quale ha resistito con controricorso la P..

 

Motivi della decisione

 

Con l'unico motivo, sviluppato sotto molteplici profili, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. in riferimento agli artt. 1140, 1141 e 1158 c.c., ovvero l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a detti punti decisivi della controversia in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c..

 

In particolare, il giudice del gravame avrebbe omesso di presumere il possesso in colui che esercita il potere di fatto sulla cosa, per cui sarebbe gravato sulla P. l'onere di dimostrare la sola detenzione da parte del ricorrente. Peraltro le dichiarazioni del teste Gi..To. sarebbero state rese solo nella fase cautelare del procedimento possessorio.

 

Precisa, altresì, che gli atti di tolleranza che ad avviso della controparte avrebbero consentito al T. di possedere il terreno, per essere tali avrebbero dovuto avere il carattere della saltuarietà e una durata limitata nel tempo. La corte di merito non avrebbe valutato correttamente le risultanze testimoniali, omettendo di esaminare quella del M. , il quale presente all'incontro T. - P., alla comunicazione dell'iniziativa della seconda di vendere il terreno, il primo avrebbe affermato la proprietà esclusiva del fondo. Di converso non andrebbe dovuto attribuire alcun valore all'affermazione secondo cui il T. avrebbe mostrato interesse all'acquisto del bene, evidenziando la circostanza il solo riconoscimento di non essere formalmente proprietario del fondo.

 

 

Le censure vengono esaminate congiuntamente in quanto attengono tutte alla valutazione delle risultanze probatorie, o meglio vengono evidenziati vizi relativi alla deficienza del ragionamento logico-giuridico della sentenza impugnata.

 

Tali censure sono infondate, con riferimento ai rilievi che seguono.

 

Chi agisce in giudizio per ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e quindi, tra l'altro, non solo del corpus, ma anche dell'animus (Cass. 28 gennaio 2000 n. 975); il secondo, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se lo svolgimento di attività corrispondente all'esercizio del diritto dominicale è già di per sé indicativo dell'intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria, sicché allora è il convenuto che deve dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale (Cass. 5 luglio 1999 n. 6944).

 

Solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall'animus possidendi, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell'usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l'acquisto del diritto di proprietà.

 

Da questi principi non si discosta la sentenza impugnata. Nel valutare le risultanze processuali, infatti, la Corte di appello, mediante apprezzamenti eminentemente di merito sorretti da adeguata motivazione e quindi insindacabili in questa sede, ha ritenuto che la prova fornita dal T. aveva riguardato il solo corpus.

 

Infatti dalle prove testimoniali dedotte da entrambe le parti, in particolare dalle dichiarazioni dei testi O. e B. emergevano molteplici dati, precisi e concordanti, da cui poteva senz'altro ricavarsi l'esistenza del corpus, ma non dell'animus, in quanto avvaloravano la tesi della appellante - resistente secondo cui l'originario attore era stato immesso nel godimento del terreno in questione a seguito del consenso del coniuge della proprietaria C.E. , madre della P. , attuale proprietaria, la cui volontà era stata poi rispettata dall'erede, dopo la sua morte.

 

Per la verità, la coltivazione del terreno con la messa a dimora di piante configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà vantato dal ricorrente; coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul predio un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario.

 

 

Nella specie, però, lo stesso figlio del ricorrente, To.Gi. , della cui attendibilità non è dato dubitare, non avendo peraltro il T. dedotto che l'assunzione delle sue dichiarazioni in sede possessoria sia avvenuta senza avere prestato giuramento, ha dichiarato testualmente "il padre della P. che era ingegnere aveva dato a mio padre l'incarico di coltivare il terreno. Poi è subentrata la P. che non ho mai visto sul terreno. Non so se la P. abbia autorizzato mio padre a proseguire nella coltivazione del terreno: suppongo che fosse intervenuto un tacito consenso anche perché molti anni fa mio padre mi ha riferito che la P. gli aveva chiesto di aprire con la chiave per entrare nel fondo". Posto che per la sussistenza del possesso utile per usucapire occorre oltre al riscontro di un comportamento continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge, l'esercizio di un potere corrispondente a quello del proprietario, non riconducibile però alla mera tolleranza del proprietario (v. Cass. del 10.7.2007 n. 15446), incombeva sul ricorrente - attore la dimostrazione della c.d. interversio possessionis, che gli avrebbe consentito di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa, ai sensi dell'art. 1141, comma 2, c.c. Ai fini dell'usucapione è, infatti, necessario la manifestazione del dominio esclusivo sulla "res" da parte dell'interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (vedi "ex multis" Cass. 18.2.1999 n. 1367; Cass. 15.6.2001 n. 8152; Cass. 20.9.2007 n. 19478; Cass. 27.7.2009 n. 17462; Cass. 1.3.2010 n. 4863), non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti dal proprietario o anche atti tollerati dallo stesso titolare del diritto dominicale perché comportanti solo il soddisfacimento di obblighi o l'erogazione di spese per il miglior godimento della cosa (Cass. 11.8.2005 n. 16841).

 

Alla luce di tale orientamento è evidente l'irrilevanza delle circostanze addotte a sostegno della propria tesi da parte del ricorrente, posto che il godimento del terreno in questione o i lavori da questo asseritamente eseguiti su tale immobile non comportano di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui.

 

Per tutte le considerazioni sopra svolte, il ricorso deve, dunque, essere respinto.

 

Al rigetto consegue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro. 1.700,00, di cui Euro. 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

 

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