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Buona fede, abuso del diritto, fondo altrui, demolizione, improponibilità-Tribunale di Sassari, Sez. Civile, sentenza 23.04.2010-Altalex.it

 

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Pur in difetto di una consacrazione normativa in una disposizione generale, deve ritenersi che la congerie di disposizioni presenti nel codice civile e nella legislazione statale, nel senso di introdurre limiti interni all’esercizio del diritto soggettivo, siano espressione di un principio più generale che vieta l’esercizio di un diritto in contrasto con lo scopo per il quale esso è riconosciuto. Il divieto di abusare di un proprio diritto deve applicarsi anche al cospetto della pretesa del proprietario di ottenere la riduzione in pristino dello stato dei luoghi mediante la demolizione del fabbricato del convenuto che abbia invaso in parte il suo fondo, dove questa situazione sia stata tollerata per un notevole e significativo lasso di tempo (nel caso di specie 13 anni). In casi del genere, facendo applicazione dei principi da ultimo affermati dalla Cassazione in materia di abuso del diritto processuale, la domanda di riduzione in pristino deve essere dichiarata improponibile, anche in considerazione del fatto che l’attore può trovare adeguata tutela delle proprie ragioni utilizzando il meno invasivo rimedio risarcitorio per equivalente.

 

    (*) Riferimenti normativi: artt. 1175, 1375 c.c.

 

(Fonte: Massimario.it - 18/2011)

 

 

| buona fede | abuso del diritto | venire contra factum proprium | tolleranza dell’altrui invasione del proprio fondo | richiesta di demolizione | improponibilità |

 

TECNICHE DI REDAZIONE ATTI E GESTIONE ISTRUTTORIA

Torino 22 giugno - Roma 6 luglio

Cons. Marco Rossetti - Accreditato 7 ore CNF

 

Tribunale di Sassari

 

Sezione Civile

 

sentenza 23 aprile 2010

 

(giudice L. Buffoni)

 

Svolgimento del processo

 

Con atto di citazione ritualmente notificato, XXXXXXXXXXX premesso di essere proprietario del tratto di terreno posto in agro del Comune di Sorso distinto in catasto al F. 1, mapp. 81, ex 12 C, confinante con quello di YYYYYYYYYY (distinto in catasto al F. 1, mapp. 80), conveniva quest’ultimo in giudizio esponendo che tra le parte erano intercorse trattative, mai andate a buon fine, in ordine alla delimitazione dei confini tra i due fondi, e che nonostante la pendenza della controversia il convenuto aveva realizzato un fabbricato di civile abitazione insistente in parte sul terreno di proprietà dell’attore, aprendo altresì delle servitù di veduta e stillicidio a carico del fondo di XXXXXXXXXXX.

 

Per le ragione esposte parte attrice chiedeva all’intestato Tribunale di determinarsi e delimitarsi mediante l’apposizione di segni fissi a spese comuni tra i rispettivi proprietari i confini tra i due fondi, con condanna del convenuto alla riduzione in pristino stato dei luoghi, mediante demolizione della parte di fabbricato realizzato in violazione delle distanze delle costruzioni previste dal Regolamento del Comune di Sorso, nonché con condanna, nell’ipotesi in cui non venga disposta la riduzione in pristino stato dei luoghi, all’eliminazione delle servitù di veduta e stillicidio abusivamente realizzate a carico del fondo del convenuto, oltre al risarcimento del danno.

 

Radicatosi il contraddittorio si costituiva in giudizio YYYYYYYYYY, contestano quanto ex adverso dedotto ed eccependo che i confini indicati nel frazionamento allegato agli atti di compravendita non sono mai esistiti, e che in realtà già al momento dell’acquisto da parte del YYYYYYYYYY e del XXXXXXXXXXX, i confini dei due lotti erano quelli apposti dall’originario proprietario C. A. e rilevati dal geom. L. F., come risultanti dal frazionamento in data 16.7.1985, sottoscritto dall’attore XXXXXXXXXXX.

 

Esponeva altresì il convenuto che nel tempo si erano susseguiti diversi tentativi volti a definire l’esatto posizionamento del confine tra i fondi dell’attore, quello del convenuto e quelli dei proprietari frontisti M. e G. (posto che la divisione dei quattro lotti aveva avuto origine da un’unica proprietà), che peraltro non erano andati a buon fine a causa delle resistenze del YYYYYYYYYY in ordine alla costituzione di una servitù di passaggio a favore del fondo dell’attore per il raggiungimento del rio Pedra e Fogu e della spiaggia.

 

Per le ragioni esposte, previa richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti di M. I. e G. S., il convenuto concludeva per il rigetto della domanda attorea.

 

La causa istruita mediante prove per testi e ctu, all’udienza del 12.11.2009 veniva infine riservata a sentenza da questo giudice (al quale il fascicolo è pervenuto nel settembre 2009), conc concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

 

Motivi della decisione

 

In primo luogo deve prendersi in esame la richiesta del convenuto di estendere il contraddittorio nei confronti di tutti i proprietari dei lotti originati dal frazionamento dell’unica proprietà originariamente appartenuta a C. A. (e dunque oltre all’attore e al convenuto ai sig. ri M. I. e G. S.).

 

Detta richiesta non può essere accolta.

 

Ed, infatti, essendo stata proposta un’azione di regolamento di confini ex art. 950 c.c., legittimati ad agire e a resistere sono esclusivamente i titolari dei fondi confinanti rispetto ai quali si pretende stabilire l’esatta demarcazione del confine, giacché nessun altro soggetto al di fuori dei titolari dei fondi il cui confine deve essere regolato , rimane o può rimanere coinvolto nel giudicato che regola tra costoro il confine (cfr., ex plurimis, Cass. 6333/79).

 

Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità “nel giudizio di regolamento di confini la sostanziale eguaglianza delle posizioni dell'attore e del convenuto, in ragione del comune interesse all'individuazione dell'esatta linea di confine tra i fondi, quando questa sia obiettivamente e/o soggettivamente incerta, comporta l'onere di entrambe le parti di allegare e fornire i mezzi prova idonei a tale fine necessari ed il Giudice, oltre a non trovare alcun limite al suo discrezionale potere di scelta e di valutazione del materiale acquisito, può anche integrare o disattendere gli elementi raccolti con il sussidiario ricorso alle descrizioni catastali in caso di loro insufficienza od inidoneità alla determinazione del confine” (Cass. 3082/06).

 

Ciò posto, ai fini della definizione della controversia occorre fare primario riferimento ai frazionamenti allegati ai contratti di acquisto dei rispettivi fondi (“In materia di regolamento di confini l'elemento primario di prova per l'individuazione del confine è rappresentato dal tipo di frazionamento allegato ai contratti, che, quale elemento interpretativo della volontà negoziale, non lascia margini di incertezza nella determinazione della linea di confine tra i fondi” - Cass. 15386/00 - ed ancora “La determinazione del confine fra due fondi limitrofi può fondarsi sul frazionamento allegato al contratto con cui è stato originariamente suddiviso l'appezzamento di terreno in precedenza unico soltanto se nei successivi atti di trasferimento tale frazionamento venga allegato e richiamato con valore negoziale vincolante” - Cass. 26951/08), mentre valore soltanto residuale potrà attribuirsi alle risultanze della prova testimoniale (“In tema di azione di regolamento di confini, ai sensi dell'articolo 950 cod. civ., in ossequio al principio della forma scritta per la costituzione, il trasferimento e la modifica di diritti reali, previsto dall'articolo 1350 cod. civ., che rende di norma inammissibili per irrilevanza, ai fini della determinazione dell'oggetto degli inerenti titoli, la prova per testimoni, di questa può tenersi conto solo in via residuale, qualora sulla base degli oggettivi elementi forniti dai titoli e dal frazionamento in essi richiamato, sia risultato comunque incerto il confine”; Cass. 23500/07).

 

 

Individuate in tal modo in punto di diritto le coordinate in base alle quali definire la controversia, in punto di fatto merita osservare che: a) i fondi di proprietà dell’attore e del convenuto erano originariamente appartenuti a tale C. A., che con atto notar Soldani del 26.11.1973 (doc. 1 fascicolo parte attrice) alienò a YYYYYYYYYY il terreno censito in catasto terreni al F. 1 mapp. 80 (derivato dal mapp. 12 del foglio 1 “giusta il tipo di frazionamento rilasciato dall’U.T.E. di Sassari il 15.11.1973”, allegato in copia conforme all’atto notarile di compravendita) e a tale M. S. il terreno confinante censito in catasto al F. 1 mapp. 81 “derivato dal mapp. 12 del F. 1 giusta il tipo di frazionamento allegato”; b) a seguito di successive alienazioni, richiamanti espressamente l’atto di cui alla precedente lettera a il terreno di cui al F. 1, mapp. 81, pervenne giusto rogito del 6 settembre 1979 notar Chialdi all’odierno attore.

 

Nella fattispecie concreta per cui è causa, è peraltro pacifico che tra le parti sono intercorse per lungo tempo delle trattative, mai andate a buon fine, volte alla delimitazione del confine tra i due fondi contigui.

 

Deduce peraltro il convenuto che il confine effettivo tra i due fondi sarebbe in realtà diverso, ed in particolare dovrebbe essere identificato con quello rilevato dal Geom. L. F., come risultante dal frazionamento del 16.7.1985 approvato e sottoscritto dall’attore, nonché “dal tipo di mappale in data 31.10.1985 sottoscritto dalla moglie dell’attore M. R.”, la quale in virtù dell’atto di acquisto (rogito notar Chialdi del 6.9.1979, in atti), risulta essere comproprietaria dell’immobile per cui è causa.

 

Con memoria dell’11 giugno 1996 l’attore ha tempestivamente disconosciuto la propria sottoscrizione apposta al frazionamento del 16.7.1985 ed il convenuto ne ha chiesto la verificazione.

 

Nel corso del giudizio, peraltro, non è mai stata espletata la ctu grafologica ammessa dal giudice istruttore con ordinanza del 2.12.1996 volta ad accertare l’autenticità di detta sottoscrizione.

 

Tale consulenza appare peraltro irrilevante ai fini del decidere, in quanto, come è noto l’atto di frazionamento e la relativa variazione catastale, hanno una efficacia meramente indiziaria in ordine alla sussistenza di un confine differente da quello risultante dagli atti d’acquisto. Ove sulla base di detti atti il confine sia ben identificabile, non sussistendo dunque alcuna obiettiva incertezza, le risultanze meramente indiziarie derivanti dalle mappe catastali non possono essere in alcun modo prese in considerazione, posto che le variazioni dei confini, involgenti diritti reali, debbono risultare da atto scritto.

 

Il rigido requisito di forma derivante dalla natura reale dei diritti azionati impedisce altresì di tener conto, ai fini del decidere, della mancata contestazione da parte dell’attore dell’autenticità della sottoscrizione apposta da M. R. (comproprietaria del fondo di cui al F. 1 mapp. 81, in regime di comunione con l’attore) sul tipo di mappale datato 31.10.1985 e richiamante il frazionamento del geometra L. F. (merita incidentalmente osservare che M. R. non è neppure parte necessaria nel presente giudizio, posto che secondo l’insegnamento consolidato della S.C. “in tema di azione di regolamento di confini, se i fondi confinanti appartengono a più proprietari, non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario e ciascuno dei comproprietari è legittimato ad agire o resistere senza l'intervento degli altri, in ragione della natura dichiarativa della sentenza che occorre pronunciare. Parimenti, non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nel caso in cui alla domanda di regolamento di confini si accompagni la richiesta, di uno - o di alcuni - soltanto dei comproprietari di uno dei fondi confinanti, di rilascio o di riduzione in pristino della zona che si ritiene usurpata in conseguenza dell'incertezza oggettiva o soggettiva dei confini, sempre che, però, tale domanda sia stata proposta nei confronti dell'unico proprietario dell'altro fondo”; Cass. 12558/02 – così come avvenuto nel caso di specie dal momento che la domanda di riduzione in pristino è spiegato nei confronti del YYYYYYYYYY, unico proprietario dell’altro fondo).

 

Ritiene dunque questo giudice che il confine tra i due fondi sia quello risultante dall’originario frazionamento allegato al rogito notar Soldani del 26.11.1973, così come individuato dal CTU geom. R. nell’allegato D alla relazione depositata in data 9.12.2007, sulla base di rigorosi accertamenti di ordine tecnico dai quali questo giudice non ha motivo di discostarsi.

 

Deve dunque procedersi ad esaminare la domanda di riduzione in pristino avanzata dall’attore.

 

Essa è astrattamente fondata.

 

Il CTU ha infatti accertato che parte dell’immobile del convenuto è stato certamente costruito sul fondo del XXXXXXXXX, con conseguente diritto di quest’ultimo alla riduzione in pristino stato dei luoghi.

 

Ciò posto, occorre tuttavia considerare che il XXXXXXXXX per oltre 13 anni (dal 1982, anno in cui venne realizzata la fabbrica da parte del YYYYYYYYYY come riferisce il teste M. V. all’udienza del 5.5.1997) ha tollerato l’indebita invasione del confine da parte del YYYYYYYYYY, domandando la riduzione in pristino solo nel 1995.

 

È inoltre assodato, per quanto riferito sopra, che M. R., coniuge del XXXXXXXXX e comproprietaria dell’immobile aveva sottoscritto il tipo di mappale datato 31.10.1985 e richiamante il frazionamento del geometra L. F.

 

Pare dunque sussistere nella fattispecie per cui è causa, in capo al convenuto lo stato soggettivo di buona fede rilevante ai sensi dell’art. 938 c.c. ai fini della c.d. accessione invertita.

 

Sta di fatto, peraltro, che il convenuto, si è limitato a difendersi eccependo la sussistenza di un diverso confine, senza in alcun modo domandare l’attribuzione della proprietà dell’edificio e del suolo occupato.

 

Non potendo dunque in questa sede trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 938 c.c. occorre tuttavia domandarsi se il diritto dell’attore di ottenere una tutela ripristinatoria di tipo reale con l’abbattimento dell’opera abusivamente realizzata su fondo altrui possa incontrare altri tipi di limiti.

 

Come noto, in linea generale chi esercita un proprio diritto non è tenuto a compensare chicchessia degli eventuali pregiudizi che da tale esercizio possano derivare (qui suo iure utitur neminem laedit). Purtuttavia, secondo l’opinione della più autorevole dottrina, il potere in cui si sostanzia il diritto soggettivo è attribuito in vista della realizzazione di un interesse del titolare, cui l’ordinamento accorda protezione eventualmente a scapito di interessi confliggenti facenti capo ad altri soggetti.

 

Occorre dunque chiedersi se il potere attribuito al titolare del diritto possa incontrare dei limiti (c.d. “interni”), nel momento in cui non venga esercitato in vista della realizzazione dell’interesse in funzione del quale è stato attribuito, bensì per il perseguimento di un interesse affatto diverso.

 

La sussistenza di limiti interni all’esercizio del diritto soggettivo sembra desumibile da diverse disposizioni codicistiche, tra le quali in primo luogo rilevano l’art. 833 c.c. che vieta gli atti emulativi, nonché la clausola generale di buona fede e correttezza (1175 c.c.) che secondo l’opinione preferibile avrebbe tra l’altro la funzione di estendere o restringere una determinata subordinazione d’interesse, quando non paia conforme alla solidarietà

 

Un atto di esercizio del diritto posto in essere all’esclusivo scopo di nuocere o recare molestia ad altri, ovvero non rispondente ai canoni di correttezza e buona fede (il cui contenuto è in buona parte determinato dall’opera creativa del c.d. diritto vivente) si pone dunque al di fuori del potere attribuito dall’ordinamento con il riconoscimento del diritto soggettivo, in quanto tale potere è per così dire funzionalizzato alla cura di un interesse ben determinato.

 

Le problematiche relative ai limiti interni all’esercizio dei diritti soggettivi sono state oggetto di un’approfondita analisi dottrinale sfociata nell’elaborazione delle discusse figure dell’abuso e dell’eccesso del diritto.

 

Per abuso si intende l’esercizio di un diritto (o potere privato), che, pur essendo apparentemente conforme al suo contenuto, sia in realtà funzionale al conseguimento di un’utilità inaccettabile secondo la comune coscienza sociale. Carattere di questo è l’apparente conformità del comportamento del soggetto al contenuto del suo diritto, onde abusare del diritto dovrebbe significare coprire dell’apparenza del diritto un atto che si avrebbe il dovere di non compiere.

 

Nell’eccesso, invece, l’illiceità dell’agere è più agevolmente percepibile, non registrandosi quell’apparenza di conformità che connota la contigua, sebbene distinta, figura dell’abuso.

 

Il Codice del 1942 non prevede una disposizione generale relativamente all’abuso, sebbene un’ipotesi di tal fatta fosse stata prospettata nel progetto di Codice italo-francese sulle obbligazioni e nello stesso progetto del Codice attualmente in vigore. In particolare quest’ultimo all’art. 7 enfaticamente proclamava che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto”.

 

I timori di un eccessivo spazio che la figura dell’abuso avrebbe garantito alla discrezionalità del magistrato pesarono a favore della scelta definitiva del legislatore del 1942.

 

Nondimeno non mancano nel Codice riferimenti linguistici o concettuali evidenti all’istituto dell’abuso che pertanto, sebbene privato del prestigio di un riconoscimento normativo generale, trova in molte disposizioni in qualche modo cittadinanza.

 

Norme evocanti l’idea di abuso oltre a quelle sopra indicate relative agli atti d’emulazione (art. 833 c.c.) o alla clausola generale della buona fede e correttezza (artt. 1175, 1375 c.c.) sono ad es. l’art. 1059, co. 2, c.c., il quale impone al comproprietario, che agendo individualmente abbia concesso una servitù, di non impedire l’esercizio della stessa, l’art. 330 c.c. in punto di abuso della potestà genitoriale, l’art. 1015 c.c. sull’abuso del diritto di usufrutto, l’art. 2793 c.c. riguardante l’abuso della cosa da parte del creditore pignoratizio.

 

La fortuna della formula dell’abuso del diritto si è manifestata anche attraverso recenti interventi normativi volti alla protezione di categorie ritenute deboli.

 

Ci si riferisce, in primis, alla L. 192/1998 (Disciplina della subfornitura nelle attività produttive) che all’art. 9 stabilisce che: “È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice”. Pur non potendo approfondire in questa sede l’esame della normativa, va sottolineato come l’abuso nel caso in questione venga ad essere sanzionato di per sé, indipendentemente dai riflessi distorsivi concorrenziali.

 

Del resto, nella logica dell’abuso del diritto possono iscriversi altri interventi normativi in cui il legislatore, pur non facendo ricorso all’espressione de qua, chiaramente evoca una valutazione sostanziale della fattispecie concreta al fine di stigmatizzare squilibri non solo normativi, ma in certi casi anche economici. Si pensi al D.Lgs. 231/2002 relativo ai ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali.

 

Elemento comune agli interventi citati, che sottolinea la contiguità alla problematica dell’abuso del diritto, è un rinnovato ruolo riconosciuto al giudice tanto nel valutare l’abusività o l’iniquità di un dato elemento negoziale, quanto, soprattutto, nel sostituirsi alla volontà delle parti nel ricondurre, in un’ottica di conservazione, il negozio ad equità.

 

In conclusione, pur in difetto di una consacrazione normativa in una disposizione generale, deve ritenersi che la congerie di disposizioni sopra richiamate siano espressione di un principio più generale che vieta l’esercizio di un diritto in contrasto con lo scopo per il quale esso è riconosciuto.

 

In tal senso sembra orientata anche la giurisprudenza che ha fatto ricorso in diverse occasioni e con riferimento a fattispecie disparate alla categoria dell’abuso del diritto.

 

La categoria dell’abuso del diritto è sovente invocata con riferimento all’ipotesi in cui un soggetto proceda alla vendita di uno stesso bene immobile per più volte (c.d. “doppia alienazione immobiliare”). In tali ipotesi, in caso di conflitto tra aventi causa non interviene il criterio della priorità dell’acquisto, né rileva in alcun modo il combinarsi di possesso e stati psicologici come per i beni mobili (artt. 1153, 1155 c.c.), ma spiega i suoi effetti la regola di cui all’art. 2644 c.c. alla cui stregua viene ad essere preferito il primo trascrivente, indipendentemente dal momento del suo acquisto e dalla buona fede dello stesso.

 

Tale regola si spiega considerando la prevalenza in tal caso accordata dal legislatore al bene giuridico della sicurezza dei traffici negoziali che verrebbe irrimediabilmente frustrato accedendo ad una differente soluzione.

 

Quel che interessa in questa sede non è tanto valutare il tipo di responsabilità del proprietario del bene doppiamente alienato, quanto la posizione giuridica dell’acquirente che pur essendo a conoscenza della precedente alienazione abbia proceduto per primo alla trascrizione.

 

Costui, difatti, secondo la tesi preferibile risponde in via aquiliana, avendo in pratica realizzato un abuso dello strumento della trascrizione piegandola ad un uso distorto certamente non avallabile dall’ordinamento.

 

In molti casi la giurisprudenza per sanzionare condotte configuranti un abuso del diritto ha fatto ricorso alla clausola generale di correttezza e buona fede.

 

Con riferimento alle trattative prenegoziali, alcune pronunce hanno riconosciuto la responsabilità precontrattuale del soggetto che pur avendo dato adito col suo comportamento ad un legittimo affidamento della controparte in merito alla positiva conclusione delle trattative, non era poi addivenuto in assenza di valide ragioni alla stipulazione del contratto (venire contra factum proprium). In tal caso, a ben vedere la responsabilità non è posta a tutela di un inesistente diritto alla stipulazione contrattuale, bensì della legittima aspettativa che a questa si addivenga in assenza di sopravvenienze significative.

 

L’abuso del diritto può verificarsi anche con riguardo ai diritti potestativi il cui esercizio non può ritenersi libero al punto da sacrificare eccessivamente e, soprattutto, immotivatamente la controparte stretta nel suo stato di soggezione. La dottrina più avveduta ha fatto ricorso all’art. 1355 c.c. nel tentativo di giustificare un sindacato sull’esercizio di diritti siffatti. Tale norma, nel mettere al bando condizioni (sospensive) meramente potestative, imporrebbe la necessaria ricorrenza di una ragione a fondamento dell’esercizio del diritto per quanto potestativo. Seguendo la via descritta, pertanto, ha trovato una prima tutela la posizione del lavoratore a fronte del diritto al recesso (esercitabile ad nutum prima che la contrattazione collettiva e poi le L. nn. 604/66, 108/90 introducessero i requisiti della giusta causa o del giustificato motivo) del datore di lavoro dal contratto a tempo indeterminato (art. 2118 c.c.).

 

Allo stesso modo si è argomentato in punto di esclusione dell’associato dalla associazione non riconosciuta nel tentativo di estendere analogicamente la disciplina che specificamente (art. 24, co. 3, c.c.) prevede per gli enti dotati di personalità giuridica la ricorrenza di gravi motivi per la sanzione in questione.

 

Altro settore interessato dal fenomeno esaminato è quello dei rapporti societari in cui sovente si verificano c.d. abusi del diritto di voto.

 

Più frequenti sono le ipotesi di abuso imputabili alla maggioranza assembleare. Si pensi al caso in cui attraverso l’approvazione di una delibera si persegua nei fatti un interesse estraneo allo statuto societario. La Cassazione non ha esitato a deplorare pratiche siffatte richiamando come referente normativo dell’invocato abuso l’art. 1375 c.c. che anche per i contratti associativi pone l’obbligo di adeguarsi ai parametri di buona fede. Oppure l’abuso è stato invocato nel caso di esercizio del diritto di voto funzionale all’approvazione di una delibera societaria di aumento del capitale, delibera a sua volta preordinata ad escludere altri soci dalla maggioranza in quanto economicamente impossibilitati ad esercitare il diritto di opzione alla sottoscrizione.

 

Il divieto ha trovato applicazione in via simmetrica a tutela della maggioranza rispetto agli abusi posti in essere dalla minoranza. Si ponga mente al diritto che ex art. 2367, co. 1, è riconosciuto a quei soci che rappresentino un decimo del capitale sociale o la diversa misura inferiore prevista dallo statuto societario nel richiedere la convocazione dell’assemblea. Ebbene, si è attribuita la patente di abusività a quelle richieste avanzate dalla minoranza in assenza di un valido motivo al solo scopo di ostacolare sistematicamente l’attività degli amministratori. In tale direzione si è orientata anche la giurisprudenza (di merito) che ha opinato come gli amministratori, nel caso previsto all’art. 2367 c.c., non debbano solamente valutare la ricorrenza dei requisiti formali posti dalla norma, ma altresì giungere a respingere quelle richieste immotivate causate da mero spirito emulativo.

 

Occorre da ultimo domandarsi, sul piano dei rimedi, quali siano le conseguenze che l’ordinamento appresta per l’ipotesi di esercizio abusivo di un diritto soggettivo.

 

Oltre al generale rimedio risarcitorio di cui all’artt. 2043 c.c. (la cui compatibilità con la figura dell’abuso è tuttavia assai controversa) il legislatore prevede, ad es., la sanzione della nullità o inefficacia in tutte le ipotesi di abuso della propria posizione di forza contrattuale (arg. ex artt. 1341 c.c., 36 cod. cons., 9 L. 192/1998).

 

Quanto agli abusi societari bisogna distinguere: quello perpetrato dalla maggioranza nell’adozione di una delibera per la realizzazione di fini extrasociali viene sanzionata attraverso l’annullamento della stessa; nel caso in cui sia la minoranza ad abusare chiedendo convocazioni assembleari per puro spirito emulativo la sanzione non potrà che essere quella della reiezione di siffatte richieste.

 

Nell’ipotesi in cui l’abuso consista nell’impedimento dell’avveramento di una condizione l’art. 1359 c.c. prevede come sanzione la fictio dell’avveramento. In tal caso pertanto, dall’abuso scaturirà non (rectius, non solo) una generica responsabilità risarcitoria, bensì l’inefficacia stessa del negozio.

 

Altri abusi vengono fronteggiati attraverso il diniego della protezione giuridica astrattamente approntata.

 

Si pensi, ad es., a quanto previsto all’art. 1426 c.c.: la norma, partendo dall’assunto per cui malitia supplet aetatem, esclude l’annullabilità prevista al precedente articolo per i contratti stipulati da incapaci legali, nell’ipotesi in cui il minore con raggiri abbia occultato la propria età. L’abuso del minore viene punito, dunque, negando allo stesso uno strumento di tutela che in condizioni ordinarie gli sarebbe garantito, in quanto una valutazione sostanziale sottolinea come in fondo l’inesperienza presunta dell’incapace legale sia un semplice paravento alle cui spalle si cela una effettiva callidità.

 

Ancora, possono menzionarsi tanto l’art. 330 c.c., quanto l’art. 1015 c.c.: il primo sanzionante l’abuso della potestà genitoriale (violazione e trascuranza dei doveri ed abuso dei poteri con grave pregiudizio del figlio) attraverso la decadenza dalla stessa; il secondo, invece, relativo all’abuso dell’usufruttuario (alienazione, deterioramento e perimento del bene oggetto del diritto reale di cui agli artt. 978 ss. c.c.) da cui deriva l’estinzione dello ius in re aliena.

 

Similmente può dirsi in caso di azione funzionale al parziale adempimento del debito, che, qualora ritenuta abusiva, trova sanzione nell’improponibilità della domanda giudiziale (sul punto cfr. infra).

 

Un ultimo strumento che il nostro ordinamento conosce come garanzia affinché pretese abusive non trovino accoglimento è l’exceptio doli generalis.

 

Per “exceptio doli” l’opinione maggioritaria intende la possibilità di opporsi ad un’altrui pretesa od eccezione in astratto fondata, ma in realtà espressione di un esercizio doloso o scorretto di un diritto, finalizzato al soddisfacimento di interessi non meritevoli secondo l’ordinamento giuridico.

 

Sul piano pratico, l’eccezione di dolo comporta una disapplicazione delle norme illecitamente invocate e la conseguente reiezione della domanda. In questo senso, il rimedio in esame ha una finalità prevalentemente difensiva.

 

L’exceptio doli riassume principalmente due direttive: il divieto di venire contra factum proprium e il divieto di trarre vantaggio da un proprio comportamento malizioso o fraudolento.

 

Secondo coloro che ne ammettono l’attuale vigenza, l’exceptio doli consente un costante adeguamento del diritto alla realtà sociale, realizzato, sulla base di criteri equitativi, mediante “una più duttile applicazione delle regole formali”. Questo ruolo è coerente con l’origine storica dell’istituto e con la funzione di “relativizzazione” dello strictum ius assunto dall’exceptio nel diritto romano.

 

Nel Codice civile non è rintracciabile alcuno standard (o clausola generale) che riconosca esplicitamente diritto di cittadinanza ad un criterio generale di repressione dei comportamenti scorretti o fraudolenti. Tuttavia sono numerosissimi gli istituti dell’attuale sistema delle obbligazioni e dei contratti che condividono la ratio sottesa al principio in esame.

 

Possono essere richiamati l’istituto della compensazione (art. 1241 ss., c.c.), l’irrilevanza della riserva mentale, la tutela dell’apparenza, l’effetto solutorio del pagamento effettuato all’incapace nei limiti dell’arricchimento (art. 1190 c.c.), l’effetto liberatorio derivante dalla mora del creditore (art. 1207, co. 1, c.c.), la sottrazione dalla mora del debitore che ha effettuato l’offerta della prestazione dovuta, pur non rispettando le forme indicate negli art. 1208 ss. c.c., la limitazione del risarcimento dei danni evitabili dal creditore con l’ordinaria diligenza (art. 1227, capoverso, c.c.), la non opponibilità al cessionario in buona fede del patto che esclude la cedibilità del credito (art. 1260, capoverso, c.c.), la rilevanza della conoscenza da parte del debitore ceduto della cessione del credito anche prima della notificazione della cessione (art. 1264, capoverso, c.c.), la finzione di avveramento della condizione, nell’ipotesi in cui la mancata verificazione sia ricollegabile al comportamento della parte che aveva interesse contrario all’avveramento (art. 1359 c.c.), la non annullabilità del contratto concluso dal minore che ha con raggiri occultato la sua minore età (art. 1426 c.c.), la minaccia di far valere un diritto come causa di annullamento del contratto (art. 1438 c.c.), l’inefficacia della convalida se chi la esegue non è in condizione di concludere validamente il contratto (art. 1444, capoverso c.c.), l’impossibilità di rifiutare la prestazione all’inadempiente se il rifiuto è contrario alla buona fede (art. 1460, capoverso, c.c.), la rilevanza della buona fede del compratore (art. 1479 c.c.), l’inefficacia del patto che esclude la responsabilità in caso di mala fede del venditore (art. 1490, capoverso, c.c.), l’irrilevanza della riconoscibilità del vizio nel caso in cui il venditore abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi (art. 1491 c.c.), ecc.

 

Di fronte all’inesistenza di una norma che confermi l’attuale vigenza del principio in esame, la sopravvivenza dell’exceptio doli generalis è legata al ruolo creativo della giurisprudenza. Negli ultimi anni, come evidenziato precedentemente, sia le corti di legittimità che di merito, contestualmente ad una riscoperta delle clausole generali (in particolare, del dovere di buona fede) e del significato immediatamente precettivo (non programmatico) dei valori costituzionali (in primis, il principio di solidarietà), hanno impiegato l’exceptio doli generalis al di fuori dei casi espressamente regolati dal legislatore, ritenendo le ipotesi codificate espressione di un principio di respiro generale.

 

Nel solco del ruolo della buona fede come limite alle pretese creditorie, sotto il profilo del divieto di abusare del diritto e quindi dell’esposizione all’exceptio doli generalis, merita da ultimo segnalare la recente decisione delle S.U. (Cass., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726) che hanno ritenuto contrario ai canoni di correttezza e buona fede il frazionamento dell’azione giudiziaria teso all’ottenimento dell’adempimento di un credito unitario, con conseguente improponibilità della domanda (Cass. 15476/08).

 

All’esito di questa lunga digressione, e tornando ad esaminare la fattispecie concreta per cui è causa, pare a questo giudice che la pretesa del XXXXXXXXX di ottenere la riduzione in pristino stato dei luoghi mediante la demolizione del fabbricato del convenuto, contrasti con il principio generale di buona fede e sia in definitiva abusiva in quanto volta ad ottenere un’utilità inaccettabile secondo la comune coscienza sociale.

 

Come si è avuto modo di sottolineare, infatti il XXXXXXXXX per oltre 13 anni (dal 1982, anno in cui venne realizzata la fabbrica da parte del YYYYYYYYYY come riferisce il teste M. V. all’udienza del 5.5.1997) ha tollerato l’indebita invasione del confine da parte del YYYYYYYYYY, domandando la riduzione in pristino solo nel 1995; è inoltre assodato, per quanto riferito sopra, che M. R., coniuge del XXXXXXXXX e comproprietaria dell’immobile aveva sottoscritto il tipo di mappale datato 31.10.1985 e richiamante il frazionamento del geometra L. F., nel quale sono riportati confini – ben conosciuti dall’attore e dichiarati, sebbene ai soli fini fiscali, dal coniuge dello stesso - del tutto difformi da quelli che si pretende far valere a mezzo dell’odierno giudizio.

 

È infatti palese che nella fattispecie in esame l’attore non si sia opposto, ed abbia probabilmente approvato, l’edificazione da parte del YYYYYYYYYY nel proprio fondo. Ma v’è di più.

 

Dalla relazione del CTU si evince che lo stesso attore nell’edificare la propria fabbrica, non ha affatto rispettato la dividente ricavata in base all’originario frazionamento del 1973, invadendo l’attigua proprietà M.

 

Pare dunque evidente che i proprietari dei diversi lotti originariamente appartenuti a C. A., siano addivenuti bonariamente ad una delimitazione dei confini differente da quella risultante dai rispettivi titoli d’acquisto. Tale bonaria delimitazione, sebbene del tutto inidonea in difetto dell’imprescindibile requisito della forma scritta a determinare una modificazione giuridica delle situazioni dominicali facenti capo ai singoli proprietari, non può tuttavia essere totalmente pretermessa ed ignorata nel momento in cui una delle parti, venendo contra factum proprium decida di agire in sede giurisdizionale per ottenere il ripristino di una situazione di diritto che lo stesso attore aveva pacificamente disatteso.

 

Per le ragioni esposte, facendo applicazione dei principi da ultimo affermati dalla Cassazione in materia di abuso del diritto processuale, la domanda di riduzione in pristino (così come per analoghe ragioni, quella subordinata di eliminazione delle servitù) deve essere dichiarata improponibile, anche in considerazione del fatto che l’attore può trovare adeguata tutela delle proprie ragioni utilizzando il meno invasivo rimedio risarcitorio per equivalente.

 

Sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese di lite e di ctu tra le parti.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni ulteriore istanza, deduzione ed eccezione, così provvede:

 

    Dichiara che il confine tra i due fondi è quello risultante dall’originario frazionamento allegato al rogito notar Soldani del 26.11.1973, così come individuato dal CTU geom. R. nell’allegato D alla relazione depositata in data 9.12.2007;

    Dichiara improponibili le ulteriori domande attoree;

    dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di lite e di ctu.

 

Sassari, 23.4.2010 Il Giudice

 

 

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