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SEPARAZIONE CON ADDEBITO: LA RELAZIONE EXTRACONIUGALE DEVE PRESUMERSI CAUSA EFFICIENTE DELLA CRISI CONIUGALE-Cassazione, Sez. I, 14 ottobre 2010, n. 21245-Diritto e processo.it

 

 

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Gennaro Marasciuolo

 

 

 

 

 

Sommario: 1.Premessa. – 2. La vicenda. – 3. Violazione dell’obbligo di fedeltà e presunzione della sussistenza del nesso di causalità fra detta violazione e la crisi della copia. - 4. Quale sorte subisce il giudizio di separazione coniugi in appello, se nelle more interviene l’ordinanza del Presidente del Tribunale pronunciata in seno al giudizio di divorzio? - 5. durante il giudizio di separazione o di divorzio, è sempre possibile far emergere fatti nuovi.

 

 

 

 

 

1. Premessa.

 

La pronuncia resa dalla Corte di Cassazione 21245/2010, immediatamente dopo la sua pubblicazione, è stata evidenziata per la particolare fattispecie concreta che aveva condotto alla crisi coniugale, vale a dire, la relazione extra coniugale di un coniuge e il comportamento “poco cavalleresco” di quest’ultimo, il quale non nascondeva il proprio tradimento agli amici. Il presente intervento, accantonando ogni commento sulla condotta del fedigrafo, cerca di esaminare, senza presunzione di completezza, le principali questioni sia di carattere processuale, che di diritto sostanziale, in tema di separazione giudiziale coniugi portate all’attenzione della Suprema Corte.

 

 

 

2. La vicenda.

 

Il marito propone da prima appello avverso la sentenza di primo grado che aveva, in primo luogo, dichiarato la separazione con addebito nei suoi confronti e, quindi, lo aveva condannato a corrispondere l’assegno di mantenimento all’altro coniuge e ai due figli maggiorenni, ma non ancora economicamente autosufficienti. La Corte d’Appello conferma la sentenza del tribunale, dichiarando, inoltre, la cessazione della materia del contendere, in ordine alle condizioni economiche della separazione, atteso che il Presidente del Tribunale, in seno al procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio (c.d. causa di divorzio), incardinato nelle more del giudizio di secondo grado, aveva rideterminato l’ammontare dell’assegno di mantenimento.

 

 

 

3. Violazione dell’obbligo di fedeltà e presunzione della sussistenza del nesso di causalità fra detta violazione e la crisi della copia.

 

Per effetto della celebrazione del matrimonio, in capo ad entrambi i coniugi, sorgono, in modo paritetico fra di loro il dovere alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione (art. 143 c.c.).

 

Al coniuge, che ha violato uno o più dei sopra elencati doveri, può essere addebitata la separazione, a condizione, però, che la violazione sia stata così grave da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

 

In altre parole, la pronuncia di addebito della separazione presuppone la prova della violazione di un dovere discendente dal matrimonio, nonché la sussistenza del nesso di causalità fra l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e la stessa violazione (Cass. Civ. Sez. I, 28/05/2008, n. 14042; Cass. Civ. Sez. I, 27/06/2006, n. 14840; Cass. Civ. Sez. I, 01/03/2005, n. 4290).

 

Stante, però, l’intuibile gravità della violazione dell’obbligo di fedeltà, la giurisprudenza di legittimità è solita ritenerla “di regola circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione a carico del coniuge responsabile” (Cass. Civ. Sez. I, 12/04/2006, n. 8512; Cass. Civ. Sez. I, 18/09/2003, n. 13747; Cass. Civ. Sez. I, 9/06/2000, n. 7859).

 

La pronuncia presa in esame rincara la dose, poichè, ammettendo la necessità dell’accertamento del nesso di causalità tra violazione dei doveri coniugali e la crisi dell’unione familiare, avalla quanto già specificato dalla sentenza di secondo grado, vale a dire, che l’instaurazione di una relazione extraconiugale deve presumersi causa efficiente di una situazione di intollerabilità della convivenza.

 

Tale assunto non è privo di conseguenze pratiche, atteso che introduce una presunzione in ordine alla sussistenza del nesso causale fra la violazione dei doveri coniugali e la crisi della coppia, così che il coniuge, che abbia provato il tradimento dell’altro, non deve provare, altresì, la ricorrenza del nesso causale, perchè presunta e, di conseguenza, il fedigrafo, sarà gravato dell’onere di provare che la relazione extraconiugale non ha avuto incidenza causale nel determinarsi della crisi coniugale dimostrando, ad esempio, la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza solo formale (Cass. Civ. Sez. I, 19/07/2010, n. 16873; Cass. Civ. Sez. I, 07/12/2007, n. 25618).

 

 

 

4. Quale sorte subisce il giudizio di separazione coniugi in appello, se nelle more interviene l’ordinanza del Presidente del Tribunale pronunciata in seno al giudizio di divorzio?

 

Questa domanda non ha avuto e non ha in giurisprudenza una risposta unanime, poiché vi sono pronunce, come quella in commento, che protendono per la cessazione della materia del contendere del giudizio di separazione in ordine a tutte le questioni decise dal Presidente del Tribunale nel procedimento di divorzio e altre pronunce, invece, che sostengono l’autonomia del giudizio di separazione da quello di divorzio e, conseguentemente, escludono la possibilità che sia pronunciata la cessazione della materia del contendere nel primo giudizio.

 

Il problema ha origine dalla possibilità, tutt’altro che remota, che venga introdotta una causa volta ad ottenere la cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonostante sia ancora in corso la causa di separazione fra gli stessi coniugi.

 

Allorquando, infatti, sia stata già emanata una sentenza, oramai passata in giudicato, almeno per quanto concerne la sola pronuncia della separazione (giudiziale) e siano, comunque, decorsi almeno tre anni dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione (art. 1, n. 2, lett. b) L. 898/1970), è ben possibile, per il singolo coniuge, presentare ricorso per ottenere il divorzio, nonostante la causa di separazione sia ancora in corso, per esempio, in appello e stia proseguendo per le sole questioni di carattere economico.

 

Avviato, di tal fatta, il giudizio di divorzio, fino a quando, poi, il Tribunale non adotta una pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le parti in causa risultano sempre essere coniugate, di talchè il loro “status” di separati, ma non ancora divorziati, viene disciplinato dal provvedimento del Presidente del Tribunale, il quale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4, comma VIII, della L. 898/1970 (c.d. Legge sul divorzio), in caso di fallimento del tentativo di conciliazione fra i coniugi, ha il potere di adottare, con ordinanza, i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole.

 

A questo punto, è intuibile che possano coesistere ben due diversi provvedimenti: la sentenza di separazione e l’ordinanza del Presidente del Tribunale, ex art. 4 L. Divorzio, aventi la stessa funzione, vale a dire, la disciplina della vita dei coniugi.

 

Le conseguenze pratiche sono numerose: quali sono le sorti del giudizio di separazione? A quale provvedimento si devono attenere i coniugi? È possibile per i coniugi chiedere la modifica delle condizioni di separazione contenute nella sentenza di separazione (ex art. 710 c.p.c.), nonostante il Presidente del Tribunale abbia già adottato l’ordinanza ex art. 4 Legge Divorzio?

 

Come già anticipato, in giurisprudenza, si fronteggiano due orientamenti: il primo, ritenendo che il giudizio di divorzio e quello di separazione (ma, lo stesso si potrebbe estendere anche per il giudizio di modifica delle condizioni di separazione ex art. 710 c.p.c.), hanno petitum e causa petendi differenti, sostiene che siano procedimenti del tutto autonomi, volti a raggiungere finalità proprie, di talchè la loro possibile coesistenza e la conseguente impossibilità che possa essere dichiarata la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione, per effetto dell’intervenuto provvedimento presidenziale nel giudizio di divorzio.

 

Secondo l’orientamento ora in parola, infatti, i coniugi avrebbero tutto l’interesse a proseguire il giudizio di separazione, per ottenere un pronuncia sulle questioni patrimoniali, come la regolamentazione dell’assegno di mantenimento fino alla sentenza di divorzio, poiché solo tale provvedimento, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale iniziato anteriormente (Cass. Civ., Sez. I, 8/05/1992, n. 5497; Cass. Civ., Sez. I, 28/10/2005, n. 21091; Cass. Civ. 8/07/2005, n. 14381).

 

Il secondo orientamento, al quale aderisce la pronuncia segnalata, invece, ritiene che prima ancora della pronuncia di divorzio – passata in giudicato – è l’ordinanza del Presidente del Tribunale a sostituire le statuizioni contenute nella sentenza di separazione, tanto da provocare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione in corso, o ancora l’improcedibilità del ricorso per la modifica dei provvedimenti emessi con la sentenza di separazione ex art. 710 c.p.c. (Corte Appello Reggio Calabria, 23/01/2006, in Giurisprudenza di merito 9/2006).

 

Quest’ultimo orientamento, trae fondamento da due considerazioni consequenziali fra di loro:

 

1)            Il provvedimento del Presidente del Tribunale adottato ex art. 4, L. 898/1970 ha la stessa natura del provvedimento di modifica delle condizioni di separazione ex art. 710 c.p.c., poiché, come quest’ultimo, disciplina le condizioni dei coniugi separati;

 

2)            È lo stesso Legislatore a conferire, all’ordinanza presidenziale l’uguale natura sopra evidenziata, atteso che l’art. 4, comma VIII L.D. stabilisce che a tale provvedimento si applica l’art. 189 delle Disp. Att. c.p.c., con la conseguenza che se il giudizio di divorzio non viene coltivato e viene, quindi, considerato abbandonato, il provvedimento in questione, al pari del suo omologo, adottato in seno al giudizio di separazione, non perde la propria efficacia, ma continua a disciplinare i rapporti fra i coniugi (Cass. Civ. Sez. I, 30/03/1994, n. 3164).

 

Quest’ultimo orientamento, se da una parte, fornisce il destro ad un ricorso anche strumentale al giudizio di divorzio, dall’altra, stabilendo quale provvedimento debba prevalere, conferisce quella necessaria certezza, utile non solo ai coniugi (i diretti interessati), bensì anche agli operatori del diritto.

 

 

 

5. Durante il giudizio di separazione o di divorzio, è sempre possibile far emergere fatti nuovi.

 

La pronuncia n. 21245/2010 affronta quest’ultima questione incidenter tantum, poiché non era stata oggetto di censura da parte del ricorrente, ma, da quanto comunque espresso dalla Suprema Corte è chiaro che nel giudizio di separazione e di divorzio possono essere introdotti fatti sopraggiunti, che possono influenzare la decisione sulla determinazione dell’ammontare dell’assegno di mantenimento (o divorzile), nonostante siano già maturate le preclusioni processuali.

 

Gli ermellini, infatti, bacchettano la Corte di Appello, poiché quest’ultima non avrebbe fatto buon governo del principio di disponibilità e di quello della domanda, atteso che non aveva tenuto conto delle variazioni patrimoniali e reddituali emerse durante il giudizio.

 

I Giudici di legittimità hanno aderito, dunque, all’orientamento dottrinale che ammette la possibilità di derogare alle preclusioni che caratterizzano il giudizio civile per l’allegazione e la prova di fatti nuovi, quando questi possono incidere sulla domanda volta ad attribuire l’assegno di mantenimento o di divorzio.

 

Questo orientamento preserva l’economia processuale. Infatti, se è vero che la sentenza di separazione e di divorzio sono adottate rebus sic stanti bus ed è altrettanto vero che possono essere modificate con un giudizio ad hoc (art. 710 c.p.c. e art. 9 L. D.), ne consegue che se sopraggiunge un nuovo accadimento, dopo la maturazione delle preclusioni giudiziali, che può influire sulla decisione del giudice, appare irragionevole che si debba necessariamente attendere l’adozione di una sentenza (sui fatti vecchi), per poi chiederne la modifica.

 

Quest’ultima soluzione comporterebbe disagi non solo economici alle parti in causa, ma anche al settore giustizia, che dovrebbe gestire una nuova causa che si andrebbe ad aggiungere ad un sistema oramai ingolfato.

 

Ritengo, quindi, che, nel rispetto del principio del contraddittorio, le parti del giudizio di separazione e di divorzio possano introdurre e provare fatti nuovi, in ordine alle questioni di carattere economico, fino a quando non abbiano precisato le loro conclusioni, nonostante, quindi, la maturazione delle prescritte preclusioni processuali, onde ottenere una sentenza che disciplini il reale evolversi delle condizioni delle parti e non le condizioni passate.

 

 

 

 

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