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La Consulta: “Essere mafiosi e’ piu’ grave che essere omicidi”- (sentenza 164 del 2011)-LeggiOggi.it

 

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Redazione

Pacchetto sicurezza bocciato, ma il Governo non è d’accordo (sentenza 164 del 2011)

 

“Il giudizio di disvalore dell’ordinamento interno e di quello comunitario nei confronti dei delitti di mafia non è assimilabile nemmeno a quello nei confronti dell’omicidio”.

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con sentenza numero 164 del 2011.

Immediate le reazioni del Governo:

Maroni si è detto “allibito” per la decisione della Corte; il Ministero dell’Interno ha subito pubblicato sul sito una dichiarazione del sottosegretario Mantovano, che così reca:

La Corte Costituzionale è chiamata a verificare la compatibilità con la legge fondamentale della Repubblica delle scelte legislative ordinarie del Parlamento. Non le compete invece esercitare quella discrezionalità che rinvia all’opzione politica del legislatore.
Con la sentenza di oggi la Corte non nega in assoluto il carcere come sola misura cautelare, tant’è che la ammette per reati di mafia.
Boccia invece la scelta fatta dal Parlamento due anni fa di rendere il carcere obbligatorio per l’omicidio.
In sintesi, se vengo imputato per concorso esterno in associazione mafiosa non ho alternativa alle sbarre, se mi sono invece ‘limitato’ ad ammazzare una persona posso restare nel salotto di casa.
Se vi erano dunque ancora dubbi sulla necessità di una riforma della giustizia e della Consulta questa sentenza li fuga completamente”.

Il caso

“L’imputata si era legata sentimentalmente a un pericoloso e violento pregiudicato (la vittima dell’omicidio), che per anni l’avrebbe costretta a prostituirsi, lucrando sui proventi di tale attività. Avendo quindi conosciuto il coimputato, avrebbe cercato invano di «emanciparsi» dal precedente compagno, il quale, anziché rassegnarsi alla nuova relazione, avrebbe compiuto gravi atti di intimidazione, diretta e indiretta, contro l’imputata e il rivale”.

Secondo il Tribunale di Lecce rimettente, il fatto delittuoso oggetto di contestazione si connoterebbe come episodio “a carattere reattivo a fronte di una lunga storia di violenze subite» dall’imputata, nell’ambito di una relazione affettiva in dissoluzione.

Si tratterebbe dunque di una vicenda tanto grave quanto triste, maturata in un contesto sociale, culturale ed affettivo molto degradato”.

La norma impugnata

L’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. prevede che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 cod. pen., sia applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non facendo altresì salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

L’opinione del giudice a quo

“Neanche il reato di omicidio può essere infatti assimilato, in relazione alle esigenze cautelari, ai delitti di mafia, relativamente ai quali tanto questa Corte che la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, sancita dalla norma censurata.

Per quanto gravi, i fatti che integrano il delitto punito dall’art. 575 cod. pen. presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili, sia sul piano della condotta (trattandosi di reato a forma libera) che su quello dell’elemento psicologico – come attesterebbero i casi dell’omicidio commesso con dolo eventuale o d’impeto, o per reazione all’altrui provocazione, ovvero, ancora, per motivi di particolare valore morale o sociale – e, soprattutto, potrebbero bene proporre esigenze cautelari affrontabili con misure diverse dalla custodia carceraria”.

La decisione della Corte

Sia la Corte Costituzionale (ordinanza n. 450 del 1995), che della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). hanno  valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi entro un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso, o come reati a questo comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria: trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione.

Con il ‘pacchetto sicurezza’ del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009), il legislatore ha invece compiuto «un ‘salto di qualità’ a ritroso», riespandendo l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie penali, in larga misura eterogenee.

L’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).

L’omicidio al contrario non è di per sè un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere.

L’omicidio può bene essere, e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali. I fattori emotivi che si collocano alla radice dell’episodio criminoso possono risultare, in effetti, correlati a speciali contingenze – come, ad esempio, per i fatti commessi in risposta a specifici comportamenti lato sensu provocatori della vittima – ovvero a tensioni maturate, in tempi più o meno lunghi, nell’ambito di particolari contesti, da quello familiare a quello dei rapporti socio-economici.

In definitiva – contrariamente a quanto sostenuto dalla Presidenza del Consiglio – né il primario rilievo dell’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice, né esigenze di contenimento di eventuali situazioni di allarme sociale possono per altro verso valere, di per sé, come base di legittimazione della predetta presunzione assoluta. Di qui, dunque, l’esigenza costituzionale di trasformarla in presunzione solo relativa” (presidente Paolo Maddalena, redattore Giuseppe Frigo).

La sentenza della Corte Costituzionale sul pacchetto sicurezza del Governo

 

SENTENZA N. 164

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo MADDALENA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza del 1° ottobre 2010 e dal Tribunale di Lecce con ordinanza del 18 novembre 2010, iscritte rispettivamente ai nn. 389 del registro ordinanze 2010 e 6 del registro ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2010 e n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2011.

 

 

Visti l’atto di costituzione di L. G. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2011 e nella camera di consiglio del 20 aprile 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi l’avvocato Pantaleo Cannoletta per L. G. e l’avvocato dello Stato Massimo Bachetti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1. – Con ordinanza depositata il 18 novembre 2010, il Tribunale di Lecce, sezione per il riesame, ha proposto, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 del codice penale (omicidio volontario), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

 

Il giudice a quo è investito dell’appello, proposto dal difensore di una persona imputata di omicidio volontario in concorso, avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, emessa il 20 agosto 2010 dalla Corte di assise di appello di Lecce.

 

Al riguardo, il rimettente riferisce che, dopo la convalida di un provvedimento di fermo, all’interessata era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere con ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del 21 luglio 2008. A seguito di impugnazione del difensore, il Tribunale rimettente, con ordinanza del 19 settembre 2008 – non impugnata dal pubblico ministero – aveva, peraltro, disposto la sostituzione della misura con gli arresti domiciliari.

 

Entrato in vigore l’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, il pubblico ministero aveva chiesto e ottenuto il ripristino della misura carceraria, alla luce della nuova disciplina recata dalla novella. Il difensore aveva quindi presentato una nuova istanza di sostituzione alla Corte di assise di appello di Lecce (a ciò competente, essendo stata l’imputata condannata, nelle more, da detta Corte alla pena di sedici anni e due mesi di reclusione): istanza motivata tanto con l’asserita incompatibilità delle condizioni di salute dell’imputata con la custodia carceraria, quanto con la dedotta illegittimità costituzionale del nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. L’ordinanza di rigetto di tale istanza era stata, infine, impugnata con l’appello sul quale il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi.

 

Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, nel caso di specie, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è fuori discussione, essendo stata l’imputata già condannata in grado di appello.

 

Per quel che concerne, poi, le esigenze cautelari, il Tribunale aveva già accertato, con la citata ordinanza del 19 settembre 2008, che le esigenze di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. (connesse al pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede) potevano essere soddisfatte con la meno gravosa misura degli arresti domiciliari.

 

Ciò, in quanto «la peculiarità del caso – a carattere reattivo a fronte di una lunga storia di violenze subite – e la presenza nella vicenda di un uomo di ben maggiore esperienza […], con precedenti specifici», induceva a riconoscere alla donna «un ruolo servente» nel fatto, tale da delineare una pericolosità attenuata, tanto più che la stessa non risultava «avere mai violato gli ordini dell’autorità».

 

Rispetto a tale valutazione – divenuta «giudicato cautelare», stante la mancata impugnazione del provvedimento da parte del pubblico ministero – non sarebbe intervenuto alcun elemento di novità, atto a far supporre un aggravamento delle esigenze cautelari.

 

L’unico dato nuovo – di ordine normativo – sarebbe costituito dalla preclusione introdotta dalla novella legislativa modificativa dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati – tra cui quello di omicidio volontario – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».

 

La questione di costituzionalità risulterebbe, pertanto, dirimente ai fini della decisione da assumere nel procedimento a quo: ciò, tenuto conto anche dell’infondatezza del primo dei motivi di appello, dovendosi escludere – alla luce dell’espletata consulenza medico-legale – che le condizioni di salute dell’interessata siano realmente incompatibili con la custodia carceraria.

 

Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata, per contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

 

Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni poste a base di tale pronuncia – considerazioni che il rimettente riproduce integralmente nell’ordinanza di rimessione – varrebbero anche in rapporto al delitto di omicidio.

 

In particolare, allo stesso modo dei delitti a sfondo sessuale oggetto della sentenza n. 265 del 2010, neppure il reato di omicidio potrebbe essere assimilato, sotto il profilo che interessa, ai delitti di mafia, relativamente ai quali tanto questa Corte (con l’ordinanza n. 450 del 1995) che la Corte europea dei diritti dell’uomo (con la sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia) hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, sancita dalla norma denunciata.

 

I diversi fatti concreti, riferibili al paradigma punitivo di cui all’art. 575 cod. pen., risulterebbero, infatti, anch’essi marcatamente eterogenei sul piano del disvalore – come attesterebbero i casi dell’omicidio determinato da dolo d’impeto, o commesso in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, ovvero per motivi di particolare valore morale o sociale – e, soprattutto, potrebbero far emergere esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure diverse e meno gravose della custodia carceraria.

 

Tali circostanze farebbero sì che la presunzione censurata si ponga in contrasto sia con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi al delitto in questione a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili al relativo paradigma punitivo; sia con l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale – ispirato al principio del «minimo sacrificio necessario» – cui la disposizione denunciata deroga; sia, infine, con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuirebbe alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato prima della condanna definitiva.

 

1.2. – È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

 

La difesa dello Stato ricorda come questa Corte abbia affermato – in particolare, con l’ordinanza n. 450 del 1995 – che mentre l’apprezzamento delle esigenze cautelari deve essere lasciato al giudice, la scelta della misura può bene essere operata in via generale dal legislatore, nei limiti della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei beni coinvolti.

 

L’assoluta gravità del delitto di omicidio e la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura – persona che, nella specie, è stata condannata tanto in primo grado che in appello – accomunerebbero, d’altro canto, il delitto in questione a quelli di tipo mafioso, rispetto ai quali la Corte, con la medesima ordinanza, ha ritenuto ragionevole l’imposizione della misura carceraria.

 

1.3. – Si è costituita, altresì, L. G., imputata nel giudizio a quo, chiedendo che la questione venga accolta.

 

La difesa della parte privata rileva come la norma oggetto di scrutinio debba ritenersi del tutto irragionevole nella parte in cui equipara il reato di omicidio volontario, non soltanto ai delitti previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., ma anche a quelli di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 600-ter, 600-quinquies, 609-bis, 609-quater e 609-octies cod. pen.

 

Nonostante la sua gravità, l’omicidio può essere, infatti, commesso con diversi gradi di dolo, compreso il dolo eventuale; può trovare giustificazioni «condivise» dalla collettività (motivi di particolare valore morale e sociale); può essere realizzato sotto l’impulso di uno stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui (artt. 62, numeri 2 e 3, cod. pen.): evenienze tutte difficilmente configurabili, per contro, tanto in rapporto ai delitti di mafia o di criminalità organizzata, quanto in relazione a reati a sfondo sessuale, quali l’induzione alla prostituzione minorile, la pornografia minorile o le iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile.

 

Di ciò sarebbe puntuale riprova il caso oggetto del giudizio a quo, che, al momento dell’entrata in vigore dell’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, vedeva l’imputata agli arresti domiciliari per effetto di provvedimento emesso in sede di impugnazione cautelare e non censurato dal pubblico ministero, in quanto coinvolta in una vicenda «tanto grave quanto triste, maturata in un contesto sociale, culturale ed affettivo molto degradato».

 

L’imputata si sarebbe, infatti, legata sentimentalmente a un pericoloso e violento pregiudicato (la vittima dell’omicidio), che per anni l’avrebbe costretta a prostituirsi, lucrando sui proventi di tale attività. Avendo quindi conosciuto il coimputato, avrebbe cercato invano di «emanciparsi» dal precedente compagno, il quale, anziché rassegnarsi alla nuova relazione, avrebbe compiuto gravi atti di intimidazione, diretta e indiretta, contro l’imputata e il rivale.

 

In tale prospettiva, le medesime ragioni che hanno indotto la Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. con riferimento ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen. giustificherebbero, e a più forte ragione, analoga declaratoria di illegittimità costituzionale in rapporto all’omicidio.

 

1.4. – L’Avvocatura dello Stato ha depositato memoria illustrativa, con la quale ha eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, assumendo che il giudice a quo avrebbe omesso di verificare la concreta sussistenza, nel caso di specie, delle esigenze cautelari, la cui presenza comunque condiziona, ai sensi della norma denunciata, l’applicazione della misura carceraria nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per il reato di omicidio.

 

Nel merito, la difesa dello Stato ribadisce l’insussistenza della denunciata violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, tenuto conto della gravità del reato di cui si discute, lesivo del supremo bene della vita.

 

Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione dell’art. 13 Cost., giacché la norma denunciata rispetta tanto la riserva di legge, quanto la riserva di giurisdizione in esso previste. Inconferente risulterebbe, infine, il riferimento alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), trattandosi di parametro estraneo – in base alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale – all’assetto delle misure cautelari restrittive della libertà personale, che operano su un piano distinto da quello della condanna e della pena.

 

2.1. – Identica questione di legittimità costituzionale è sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ordinanza del 1° ottobre 2010.

 

Il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi sull’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, presentata il 28 settembre 2010 dal difensore dell’imputato, condannato in primo grado a dieci anni di reclusione per concorso in omicidio volontario: istanza motivata con la sensibile attenuazione delle esigenze cautelari, in considerazione della decisiva collaborazione prestata dall’imputato all’autorità inquirente e della sua «sicura resipiscenza».

 

Ad avviso del rimettente – conformemente al parere espresso dal pubblico ministero – le esigenze cautelari dovrebbero ritenersi effettivamente attenuate, anche se non completamente cessate, così da poter essere soddisfatte con la misura meno costrittiva richiesta dalla difesa. All’accoglimento dell’istanza osterebbe, tuttavia, la presunzione iuris et de iure di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere sancita dal vigente testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Andrebbe, infatti, esclusa la praticabilità – prospettata dalla difesa – di un’estensione in via analogica all’omicidio volontario della norma risultante dalla sentenza di questa Corte n. 265 del 2010, riferita esclusivamente ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.: donde la rilevanza della questione.

 

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo svolge argomentazioni del tutto analoghe a quelle del Tribunale di Lecce. In particolare, assume che neppure in rapporto all’omicidio volontario sarebbe ravvisabile la ratio ritenuta idonea a giustificare la censurata presunzione assoluta con riguardo ai delitti di mafia.

 

Per quanto gravi, i fatti che integrano il delitto punito dall’art. 575 cod. pen. presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili e, soprattutto, potrebbero manifestare esigenze cautelari affrontabili con misure diverse dalla custodia carceraria. Ben diversa può essere, infatti, l’intensità del dolo dell’omicida – da quello eventuale o alternativo a quello premeditato – così come marcatamente dissimili possono risultare le stesse condotte costitutive del reato, trattandosi di fattispecie a forma libera; laddove, al contrario, già sotto il profilo strutturale il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso è a dolo specifico e a condotta vincolata.

 

2.2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

 

Richiamando l’ordinanza n. 450 del 1995 di questa Corte, la difesa dello Stato assume che, nel caso di specie, la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la misura carceraria non può essere considerata irragionevole, ove si consideri che il delitto di omicidio offende il bene fondamentale, di rilevanza costituzionale, della vita.

 

La norma censurata non lederebbe neppure l’art. 13, primo comma, Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva di legge in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale. Né, da ultimo, si comprenderebbe come detta norma possa essere ritenuta incompatibile con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, sancita dall’art. 27 Cost.

 

Considerato in diritto

 

1. – Il Tribunale di Lecce e il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 del codice penale (omicidio volontario), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

 

I rimettenti reputano estensibili ai procedimenti relativi al delitto di omicidio le ragioni che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma censurata, nei termini dianzi indicati, con riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.).

 

Al pari di tali delitti, neanche il reato di omicidio potrebbe essere infatti assimilato, sotto il profilo in esame, ai delitti di mafia, relativamente ai quali tanto questa Corte che la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, sancita dalla norma censurata. Per quanto gravi, i fatti che integrano il delitto punito dall’art. 575 cod. pen. presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili, sia sul piano della condotta (trattandosi di reato a forma libera) che su quello dell’elemento psicologico – come attesterebbero i casi dell’omicidio commesso con dolo eventuale o d’impeto, o per reazione all’altrui provocazione, ovvero, ancora, per motivi di particolare valore morale o sociale – e, soprattutto, potrebbero bene proporre esigenze cautelari affrontabili con misure diverse dalla custodia carceraria.

 

La presunzione censurata verrebbe, di conseguenza, a porsi in contrasto – conformemente a quando deciso dalla citata sentenza n. 265 del 2010 – con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).

 

2. – Le ordinanze di rimessione propongono questioni identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

 

3. – L’eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata dall’Avvocatura dello Stato in rapporto alla questione proposta dal Tribunale di Lecce, non è fondata.

 

A prescindere da ogni altra considerazione – connessa al fatto che, in base alla norma denunciata, la sussistenza delle esigenze cautelari è oggetto di presunzione relativa, e che, con l’appello cautelare di cui il rimettente è investito (soggetto all’ordinario principio devolutivo: art. 597 cod. proc. pen.), il difensore non risulta aver mosso contestazioni sul punto – è dirimente il rilievo che, contrariamente a quanto assume la difesa dello Stato, il giudice a quo ha comunque motivato in ordine alla configurabilità, nel caso di specie, del periculum libertatis. Il rimettente ha, infatti, richiamato la propria ordinanza del 19 settembre 2008 (emessa in accoglimento di precedente impugnazione della difesa), con la quale aveva ritenuto che le esigenze cautelari – pure ravvisabili – di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. potevano essere soddisfatte con gli arresti domiciliari, precisando che tale valutazione resta tuttora valida, non essendo sopravvenuti nuovi elementi di ordine fattuale.

 

4. – Nel merito, la questione è fondata.

 

5. – Con la sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma censurata, nella parte in cui sancisce una presunzione assoluta – anziché soltanto relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale: in particolare, per i reati di induzione o sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.).

 

5.1. – Nell’occasione, la Corte ha rilevato come i limiti di legittimità delle misure cautelari – nell’ambito della cui disciplina si colloca la disposizione scrutinata – risultino espressi, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) – oltre che dalle riserve di legge e di giurisdizione (art. 13, secondo e quarto comma, Cost.) – anche e soprattutto dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), a fronte della quale le restrizioni della libertà personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del procedimento debbono assumere connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità.

 

Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento è che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n. 295 del 2005): la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto.

 

Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi “individualizzanti” di selezione del trattamento cautelare, coerenti e adeguati alle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.

 

Questo insieme di indicazioni costituzionali trova puntuale espressione nella disciplina generale dettata dal codice di procedura penale. A fronte della tipizzazione di un “ventaglio” di misure, di gravità crescente (artt. 281-285), il criterio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1) – dando corpo al principio del «minore sacrificio necessario» – impone, difatti, al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto.

 

Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen. – inserita tramite una serie di interventi novellistici – la quale stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa.

 

Proprio per i marcati profili di scostamento rispetto al regime ordinario, la disciplina derogatoria – riferita, ai suoi esordi, ad un ampio ed eterogeneo parco di figure criminose – era stata circoscritta, a partire dal 1995 e in una prospettiva di recupero delle garanzie, ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa»).

 

In tali limiti, essa aveva superato il vaglio tanto di questa Corte (ordinanza n. 450 del 1995), che della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi entro un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso, o come reati a questo comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria: trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione.

 

Con l’intervento novellistico del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009), il legislatore ha compiuto «un “salto di qualità” a ritroso», riespandendo l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie penali, in larga misura eterogenee fra loro quanto a oggettività giuridica (fatta eccezione per i delitti “a sfondo sessuale”), struttura e trattamento sanzionatorio.

 

5.2. – Ciò premesso, questa Corte ha ribadito, nella citata sentenza n. 265 del 2010, che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010)».

 

Sotto tale profitto, ai delitti a sfondo sessuale allora in discussione non poteva estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).

 

Per quanto odiosi e riprovevoli, i delitti in discorso – oltre a presentare disvalori nettamente differenziabili – possono essere, e spesso sono, meramente individuali e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo con la massima misura.

 

Sovente, inoltre, essi si manifestano all’interno di specifici contesti (ad esempio, quello familiare o scolastico o di particolari comunità), così che le esigenze cautelari possono trovare risposta in misure, diverse da quella carceraria e già previste allo scopo, che comportino l’esclusione coatta dal contesto: arresti domiciliari in luogo diverso dall’abitazione (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis); obbligo o divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283); allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis).

 

Questa Corte ha formulato, altresì, due ulteriori precisazioni, di tutto rilievo anche ai presenti fini.

 

In primo luogo, cioè, ha sottolineato che la ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non può essere rinvenuta neppure nella gravità astratta del reato, desunta dalla misura della pena o dall’elevato rango dell’interesse protetto: parametri, questi, significativi in sede di giudizio di colpevolezza, ma inidonei, di per sé, a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza di esigenze cautelari e del loro grado, che condiziona l’identificazione delle misure idonee a soddisfarle.

 

In secondo luogo, si è rilevato che tanto meno la presunzione in esame potrebbe rimanere legittimata dall’esigenza di contrastare situazioni di allarme sociale, legate all’asserita crescita numerica di taluni delitti (convinzione che viceversa traspare dai lavori parlamentari relativi alla novella del 2009, almeno in rapporto ai reati sessuali).

 

L’eliminazione o la riduzione dell’allarme sociale causato dal reato del quale l’imputato è accusato non può essere, infatti, annoverata tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme.

 

5.3. – Alla luce di tali rilievi, questa Corte ha quindi concluso che la norma impugnata violava, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.

 

Al fine di ricondurre il sistema a sintonia con i valori costituzionali, non era peraltro necessario rimuovere integralmente la presunzione de qua, ma solo il suo carattere assoluto, che implicava una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”.

 

La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede, per contro, i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.

 

6. – Conformemente a quanto sostenuto dai giudici rimettenti, le considerazioni dianzi ricordate valgono, con gli opportuni adattamenti, anche in rapporto al delitto di omicidio volontario.

 

Nonostante l’indiscutibile gravità del fatto – la quale peserà opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza – anche nel caso dell’omicidio, la presunzione assoluta di cui si discute non può considerarsi, in effetti, rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla «struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche» della figura criminosa.

 

Non si è, difatti, al cospetto di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere.

 

Al contrario, l’omicidio può bene essere, e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali. I fattori emotivi che si collocano alla radice dell’episodio criminoso possono risultare, in effetti, correlati a speciali contingenze – come, ad esempio, per i fatti commessi in risposta a specifici comportamenti lato sensu provocatori della vittima – ovvero a tensioni maturate, in tempi più o meno lunghi, nell’ambito di particolari contesti, da quello familiare a quello dei rapporti socio-economici.

 

Evenienze, queste, che – stando alla ricostruzione operata dal giudice a quo – ricorrerebbero puntualmente nella vicenda sulla quale è chiamato a pronunciarsi il Tribunale di Lecce, in cui il fatto delittuoso oggetto di contestazione si connoterebbe come episodio «a carattere reattivo a fronte di una lunga storia di violenze subite» dall’imputata, nell’ambito di una relazione affettiva in dissoluzione.

 

Di conseguenza, in un numero tutt’altro che marginale di casi, le esigenze cautelari – pur non potendo essere completamente escluse – sarebbero suscettibili di trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria, che valgano a neutralizzare il “fattore scatenante” o ad impedirne la riproposizione: e così, anzitutto, quanto ai fatti legati a particolari contesti, tramite misure che valgano comunque ad operare una forzosa separazione da questi dell’imputato o dell’indagato, nei termini già evidenziati dalla sentenza n. 265 del 2010. Donde, in conclusione, la carenza di una adeguata “base statistica” della presunzione assoluta in questione, pure incidente sul valore primario della libertà personale.

 

Per il resto, non può che ribadirsi che – contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato – né il primario rilievo dell’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice, né esigenze di contenimento di eventuali situazioni di allarme sociale possono per altro verso valere, di per sé, come base di legittimazione della predetta presunzione assoluta. Di qui, dunque, l’esigenza costituzionale di trasformarla in presunzione solo relativa.

 

7. – L’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

 

Per Questi Motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2011.

 

F.to:

 

Paolo MADDALENA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 12 maggio 201

 

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