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ANCORA SPOILS SYSTEM: È IL TURNO DELLA DIRIGENZA ESTERNA       di Benedetto Cimino-Nel merito.it

 

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La Corte costituzionale prosegue nell’opera di pulitura dell’ordinamento dalle norme che agganciano il mandato dei dirigenti a quello dei politici che li hanno nominati. Questa volta, però, il problema è più ampio.

 

“Essere” e “fare” il dirigente pubblico, in Italia, sono due cose diverse.

In ogni amministrazione esistono dei ruoli, cui si accede per concorso. Superare il concorso non basta, però, per assumere le funzioni direttive: è necessaria una successiva investitura politica, da parte del ministro (o del sindaco o del presidente della Regione), che affidi al vincitore un ufficio per un certo numero di anni. Alla scadenza, il dirigente può essere confermato, rimosso e destinato ad altro incarico o semplicemente collocato “a disposizione”.

In secondo luogo, il politico non è affatto obbligato a nominare un funzionario di carriera: entro determinate percentuali può anche chiamare esperti di propria fiducia. Il ricorso a dirigenti esterni dovrebbe avvenire solo in casi eccezionali, per incarichi che necessitino di speciali competenze e capacità, non presenti all’interno dell’amministrazione. Naturalmente, nella prassi, vi si fa ricorso con molta maggiore ampiezza.

Molti tribunali avevano dubitato sin dal principio della legittimità costituzionale di queste norme, introdotte a partire dalla XIII legislatura, ponendo la questione alla Corte costituzionale. La questione, tuttavia, era politicamente troppo delicata e la Corte era ricorsa a vari escamotage procedurali per rinviare ogni decisione. Quando poi, nel 2006, una pronuncia era intervenuta, si era risolta in un sostanziale avallo del regime fiduciario delle nomine, come strumento per garantire la continuità nella “catena di comando” tra organi di governo e burocrazia.

    Nel 2007, la Corte cambia approccio. Nelle sentenze nn. 103 e 104 di quell’anno, spiega che i dirigenti devono avere a disposizione un tempo ragionevole per portare a termine gli incarichi e gli obiettivi loro affidati; che non possono essere rimossi ante tempus, senza contraddittorio e senza che siano loro contestate responsabilità; che la stabilità del rapporto d’ufficio è necessaria per garantire continuità e imparzialità dell’azione amministrativa.

     Il ritardo della Corte, tuttavia, non è stato senza effetti. I politici nazionali e regionali hanno profittato dei precedenti tentennamenti per moltiplicare, nelle rispettive legislazioni, gli incarichi soggetti al political patronage: medici ospedalieri, direttori di enti pubblici, consiglieri di amministrazione, componenti di commissioni e comitati, e persino figure di garanzia come i membri dei collegi sindacali. Inoltre, si sono moltiplicate anche le tecniche di rimozione dei dirigenti non graditi: ci sono lo spoils system in senso stretto (al giuramento del nuovo governo) e quello in senso lato o “ad orologeria” (alla scadenza dell’incarico); quello una tantum (a vantaggio del solo governo in carica) e quello a regime (a vantaggio anche dei governi futuri); quello tacito (con decadenza automatica salvo conferma) e quello espresso (con conferma automatica, salvo rimozione). Di molte disposizioni la Corte ha fatto giustizia; ma molte altre sono ancora in vigore e dovranno essere oggetto di scrutinio di costituzionalità, man mano che se ne presenti l’occasione.

Una di queste riguardava la dirigenza esterna. La norma era stata introdotta quasi di nascosto, in tre commi (il 159, il 160 e il 161) del maxi-emendamento al decreto fiscale collegato alla finanziaria per il 2007. Con la dichiarata (ma debole) giustificazione di conseguire risparmi di spesa, il legislatore aveva stabilito che il mandato dei dirigenti esterni dovesse essere in ogni caso agganciato a quello del Governo che li aveva nominati. Alla norma a regime, si accompagnava poi una disposizione transitoria, che sanciva la decadenza dei dirigenti non di ruolo, incaricati nella precedente legislatura, se non confermati entro sessanta giorni.

La Corte si è interessata della questione tre volte: in precedenza, con due sentenze del 2008 e del 2010, relative alla disciplina una tantum; oggi, con la sentenza n. 124 del 2011, relativa alla disciplina a regime. I tre giudizi si sono conclusi con altrettante pronunce di incostituzionalità; medio tempore, peraltro, il legislatore, prendendo atto della posizione della Corte, aveva già definitivamente espunto la previsione, con il decreto n. 150 del 2009, c.d. Brunetta.

    Il ragionamento della Corte è convincente quando ribadisce il divieto di meccanismi di decadenza o cessazione automatica riferibili a tutti gli incarichi che comportano “funzioni amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico”. Forse troppo sbrigativo è stato invece il successivo passaggio: “la natura esterna dell’incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie”.

A differenza delle altre figure di spoils system di cui si è detto, questa disciplina non poteva essere accusata di indebolire e fidelizzare l’alta burocrazia. La decadenza dei dirigenti esterni, se mai, potrebbe proteggere la dirigenza di carriera dalla concorrenza dei fiduciari dei politici di turno, e proteggere gli uffici pubblici dalla loro prolungata permanenza. Inoltre, sul piano del buon andamento e della continuità dell’azione amministrativa, non è pretestuoso dubitare della fedeltà istituzionale di queste figure ad un governo di diverso colore politico rispetto a quello che le aveva incardinate nell’ufficio.

Sia chiaro: se si intende contrastare l’abuso delle nomine esterne, la via maestra è un’altra. Occorre limitare il numero di incarichi attribuibili o imporre speciali oneri procedurali e motivazionali. Ed invece, il legislatore del 2006 non aveva resistito alla tentazione e, non senza gusto per il paradosso, aveva sì limitato gli effetti del political patronage, ma, per farlo, aveva introdotto l’ennesima fattispecie di spoils system.

Dinnanzi a questa scorciatoia, la Corte non poteva soffermarsi in pericolosi distinguo: ha dovuto cassare. Il problema della dirigenza “avventizia” tuttavia, è molto più ampio e più serio di quanto non traspaia dalla sentenza n. 124.

Un dato può chiarire la dimensione del problema. Secondo la Ragioneria generale, i dirigenti “a termine”, “a contratto” o non di ruolo nelle amministrazioni dello Stato e degli enti territoriali sono quintuplicati dal 1999 al 2007, passando dal 7% a 30% del totale. Oltre ad abusi nella prassi, questa tendenza è anche frutto del progressivo allentamento dei limiti quantitativi (o, in modo più subdolo, delle relative basi di calcolo) alle nomine esterne dirette. A ciò si proceduto con successivi provvedimenti legislativi, ammantati dalla retorica della circolazione dei modelli aziendalistici nelle pubbliche amministrazioni.

Ma si badi: non si tratta affatto di revolving door o di un fisiologico fenomeno di scambio e mobilità tra dirigenza pubblica e privata. Gli “esperti esterni” provengono troppo spesso dagli entourage dei politici nominanti. In alcuni casi, poi, essi non sono neanche veramente “esterni”, ma dipendenti pubblici elevati alla dirigenza con decisione politica, tramite una sorta di fast stream all’italiana. Chiaramente, gli abusi principali si registrano negli enti di dimensioni più piccole, dove esistono meno controlli e l’opinione pubblica è meno vigile.

Questi fenomeni sono davvero molto pericolosi. Si crea, infatti, un canale alternativo di accesso, che aggira la regola del concorso (con rischio di successive stabilizzazioni). Inoltre, come ha notato il Consiglio di Stato in un parere del 2003, per questa via si consente “la penetrazione nella pubblica amministrazione di interessi non conciliabili con quelli generali” e “la pretermissione di quanti, da sempre al servizio esclusivo della nazione, debbono ritenersi meglio in grado di curarne i più generali interessi”.

La Corte ha sollecitato il primo passo per ricondurre a fisiologia il fenomeno della dirigenza esterna, quello di intervenire sulle garanzie “a valle” della nomina. Occorre ora agire sulla prassi a “monte”: verifica della reale esigenza del contributo esterno, anche al di là del mero rispetto di contingenti numerici; e meticoloso scrutinio della competenza e della professionalità dei chiamati, che rappresenta la più importante garanzia di indipendenza del futuro dirigente.

 

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