Diritto e processo.com
Il giudice può esercitare il potere
di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di
prova, previsto dall'art. 507 cod. proc. pen., anche con
riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto
richiedere e non hanno richiesto
Cassazione, sez. IV, 22 novembre
2011, n. 43018
(Pres. Morgigni – Rel. Romis)
Ritenuto in fatto
Il Giudice di Pace di Mussomeli
condannava P.G. alla pena ritenuta di giustizia - oltre
al risarcimento dei danni in favore delle costituite
parti civili - per il reato di lesioni personali colpose
addebitato all'imputato con la seguente contestazione:
“perché con colpa consistita nell'omessa doverosa
custodia di animali, aveva cagionato a L.M.A. lesioni
personali; in particolare, omettendo di apporre la
prevista museruola, il cane di sua proprietà aveva
addentato L.M.A. causandogli lesioni personali
consistite in ferita lacero contusa all'avambraccio
destro, giudicate guaribili in gg. Dodici”.
Proponeva appello l'imputato
lamentando la nullità dell'assunzione della
testimonianza della persona offesa L.M.A. , sulla cui
ammissione non vi era stata pronuncia; sosteneva altresì
che, valutando coerenti le dichiarazioni accusatorie
rese dalle persona offesa, il Giudice di prime cure non
aveva in alcun modo tenuto conto dell'interesse
personale della persona offesa.
Il Tribunale di Caltanissetta
confermava l'impugnata decisione e, in risposta alle
deduzioni dell'appellante, osservava quanto segue: a)
secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n.
2424 del 06/11/2009) l'assunzione di una prova
testimoniale disposta dal giudice "ex officio" in un
momento diverso dal termine dell'acquisizione delle
prove indicato dall'art. 507 cod. proc. pen. costituisce
una mera irregolarità e non comporta alcuna sanzione di
nullità o di inutilizzabilità, in difetto di un'espressa
previsione normativa; tanto più che nessun rilievo in
ordine a tale assunzione era stato mosso dal difensore
dell'imputato all'udienza del 28 settembre 2008, nella
quale era stata sentita la persona offesa dal reato
L.M.A. ; b) quanto alle dichiarazioni accusatorie della
persona offesa, esse apparivano dettagliate e coerenti,
così da non palesare alcuna contraddizione o incoerenza
tale da indurre a dubitare della sua attendibilità
complessiva: dette dichiarazioni non apparivano alterate
da sentimenti di astio nei confronti dell'imputato né il
cattivo ricordo in ordine ad alcuni particolari sullo
stato dei luoghi può inficiare la complessiva
credibilità del L.M.A. ; peraltro, le dichiarazioni
della persona offesa risultavano corroborate da tutti
gli ulteriori elementi istruttori ed in particolare
dalle dichiarazioni della madre del minore che aveva
prestato soccorso al figlio subito dopo l'accaduto
nonché dai certificati medici prodotti dal P.M.; c)
quanto all'elemento soggettivo del reato, la colpa,
lungi dall'essere presunta, era desumibile - nella
fattispecie - dalla catena di una lunghezza non adeguata
al contenimento del cane all'interno della proprietà
privata, dal mancato controllo della costante chiusura
del cancello e dalla mancata utilizzazione di museruola,
a nulla valendo l'assenza del proprietario dai luoghi
per ragioni di lavoro: anzi, proprio in ragione
dell'assenza, l'imputato avrebbe dovuto predisporre le
misure più idonee ad impedire gli eventi del tipo di
quelli poi realizzatisi. Ricorre per cassazione
l'imputato, a mezzo del difensore, deducendo violazione
di legge e vizio motivazionale con formulazioni che
sostanzialmente ripropongono le tesi difensive già
sottoposte ai giudici del merito: avrebbe errato il
giudice di seconda istanza - a fronte dell'eccezione
procedurale sollevata dalla difesa con i motivi di
appello - nel ritenere rituale ed utilizzabile la
testimonianza del minore, ed avrebbe altresì errato nel
valutare come credibili le dichiarazioni da questi rese,
posto che altre testi avevano riferito sull'idoneità
delle cautele adottate per evitare che il cane potesse
uscire dal suo recinto; si sostiene ancora con il
ricorso che il cane era stato lasciato in custodia alla
moglie dell'imputato, per cui al più l'accaduto avrebbe
dovuto essere addebitato alla medesima.
Considerato in diritto
Il ricorso deve essere rigettato
per le ragioni di seguito indicate.
Per quel che riguarda il primo
motivo di ricorso, è sufficiente richiamare, a
dimostrazione dell'infondatezza dello stesso, il
principio condivisibilmente enunciato da questa Corte
secondo cui la persona offesa dal reato, titolare del
diritto di querela a norma dell'art. 120 cod. pen., deve
essere individuata nel soggetto titolare dell'interesse
direttamente protetto dalla norma penale, interesse la
cui lesione, o esposizione a pericolo, costituisce
l'essenza dell'illecito: "In tema di titolarità del
diritto di querela, e dunque di individuazione della
persona offesa, cui tale diritto compete, deve
intendersi tale il soggetto passivo del reato, ossia
colui che subisce la lesione dell'interesse penalmente
protetto. Possono pertanto coesistere più soggetti
passivi di un medesimo reato, che vanno individuati,
appunto, con riferimento alla titolarità del bene
giuridico protetto. (Nella fattispecie, la Corte ha
ritenuto, con riferimento ad una ipotesi di
appropriazione indebita di gioielli da parte di un
rappresentante, che persona offesa fosse, non solo la
società proprietaria dei preziosi, ma anche il
"procacciatore di affari" per conto della predetta
società, legittimo possessore dei beni consegnati al
rappresentante, e tenuto al risarcimento nei confronti
del proprietario)" [in termini, "ex plurimis", Sez. 2,
n. 2869 del 27/01/1999 Ud. - dep. 02/03/1999 - Rv.
212766 Imp. Brogi R.]. Nel caso di specie, la persona
offesa dal reato era di certo il minore L.M.A. : questi
era colui il quale aveva subito materialmente la
lesione, ed era, dunque, al contempo, anche il soggetto
al quale il reato aveva recato danno, ex art. 74 cod.
proc. pen., come tale legittimato all'azione civile in
base allo stesso art. 74 cod. proc. pen.; azione civile
esercitata, per effetto dell'incapacità processuale del
medesimo minore L.M.A. , dalle persone cui spettava la
rappresentanza, ossia i genitori del medesimo minore, ex
art. 90, comma 2, cod. proc. pen..
Dunque, è priva di fondamento la
tesi del ricorrente secondo cui il minore L.M. non
rivestirebbe in questo procedimento la figura di parte
offesa; i genitori del minore, costituitisi parte civile
in rappresentanza del minore medesimo, sono stati
ascoltati come tali ex art. 208 cod. proc. pen..
Opportunamente il Tribunale ha ricordato l'ambito dei
poteri di ufficio del giudice di primo grado al di là
della formale evocazione dell'articolo 507 cod. proc.
pen.; poteri di ufficio che sono stati all'evidenza
esercitati dal Giudice di pace, come risulta chiaramente
dalla lettura del dispositivo dell'ordinanza assunta dal
giudice di pace il 2 marzo 2009 ove è detto che il
medesimo Giudice di pace "... dispone di ufficio la
citazione della parte offesa L.M.A. ".
Sul punto, la doglianza del
ricorrente si risolve in una sorta di censura relativa
alla mancata indicazione della persona offesa minorenne
in qualità di testimone nell'atto di citazione a
giudizio; orbene, a tutto voler concedere, basta
osservare che in tema di istruzione dibattimentale, il
giudice ha l'obbligo, a pena di nullità della sentenza,
di acquisire anche d'ufficio, in virtù dei poteri
conferitigli, ex art. 507 cod. proc. pen., i mezzi di
prova indispensabili per la decisione, non essendo
rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra disporre
i necessari accertamenti ed il proscioglimento
dell'imputato. Pertanto, a differenza di quanto
osservato dal ricorrente, il giudice ha, semmai,
l'obbligo di fornire specifica motivazione in ordine al
mancato esercizio dei poteri di integrazione probatoria,
di cui all'art. 507 succitato, e non in ordine al suo
esercizio; e l'assenza di una adeguata motivazione,
relativamente al mancato esercizio dei poteri di ufficio
ex art. 507 cod. proc. pen. - censurabile in sede di
legittimità - determina, secondo il condivisibile e più
recente indirizzo interpretativo di questa Corte, una
violazione di legge dalla quale deriva la nullità della
sentenza: "In tema di istruzione dibattimentale, il
giudice ha l'obbligo, a pena di nullità della sentenza,
di acquisire anche d'ufficio, in virtù dei poteri
conferitigli, ex art. 507 cod. proc. pen., i mezzi di
prova indispensabili per la decisione, non essendo
rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra disporre
i necessari accertamenti ed il proscioglimento
dell'imputato; pertanto, il giudice ha l'obbligo di
motivare specificamente in ordine al mancato esercizio
dei poteri di integrazione probatoria, di cui all'art.
507 succitato, e l'assenza di una adeguata motivazione,
censurabile in sede di legittimità, determina una
violazione di legge dalla quale deriva la nullità della
sentenza." (in termini, Sez. 5, n. 38674 del 11/10/2005
Ud. - dep. 21/10/2005 - Rv. 232554, P.G. in proc.
Tiranti; nello stesso senso, Sez. 5, n. 36642 del
20/09/2005 Ud. - dep. 11/10/2005 - Rv. 232377, P.M. in
proc. Di Carlantonio).
Indirizzo interpretativo che ha poi
ricevuto autorevole avallo dalle Sezioni Unite di questa
Corte con la sentenza n. 41281/06 con la quale è stato
affermato il principio di diritto così massimato: "Il
giudice può esercitare il potere di disporre d'ufficio
l'assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall'art.
507 cod. proc. pen., anche con riferimento a quelle
prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non
hanno richiesto. (La Corte ha affrontato la questione
alla luce della nuova formulazione dell'art. 111 Cost.
ed ha ritenuto che condizioni necessarie per l'esercizio
di tale potere sono l'assoluta necessità dell'iniziativa
del giudice, da correlare a una prova avente carattere
di decisività, e il suo essere circoscritto nell'ambito
delle prospettazioni delle parti, la cui facoltà di
richiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova resta,
peraltro, integra ai sensi dell'art. 495 comma secondo
c.p.p.)" [Sez. U, n. 41281 del 17/10/2006 Ud. - dep.
18/12/2006 - Rv. 234907, P.M. in proc. Greco].
Per quel che concerne il secondo
motivo di ricorso, trattasi all'evidenza di denuncia in
fatto - in ordine alla ricostruzione della fattispecie -
che si risolve sostanzialmente in una generica
evocazione di fonti di prova. Ma vi è di più. La
prospettazione difensiva si appalesa invero anche
giuridicamente inconsistente se raffrontata con quanto
precisato da questa stessa Quarta Sezione in tema di
lesioni provocate da animali e di responsabilità del
soggetto tenuto alla custodia, oltre che di
individuazione dei contenuti della colpa, rappresentata
dalla mancata adozione delle debite cautele nella
custodia dell'animale: "In tema di omessa custodia di
animali, al fine di escludere la colpa, consistente
nella mancata adozione delle debite cautele nella
custodia, non è sufficiente tenere l'animale in un luogo
privato e recintato, ma è necessario che tale luogo sia
idoneo a prevenirne la fuga. (Nella fattispecie la Corte
ha ravvisato la responsabilità dell'imputato che aveva
rinchiuso il cane in un cortile da cui l'animale era
facilmente scappato per un'apertura nella recinzione, ed
aveva provocato un sinistro stradale)" [Sez. 4, n. 47141
del 09/10/2007 Ud. (dep. 20/12/2007) Rv. 238351, imp.
lacovella].
Come precisato da questa Corte, in
tema di custodia di animali, l'obbligo sorge ogni volta
che sussista una relazione di possesso o di semplice
detenzione tra l'animale e una data persona, posto che
l'art. 672 cod. pen. relaziona l'obbligo di non lasciare
libero l'animale o di custodirlo con le debite cautele
al possesso dell'animale, possesso da intendersi come
detenzione anche solo materiale e di fatto senza che sia
necessario che sussista una relazione di proprietà in
senso civilistico (così, Sez. 4,n. 599 del 16/12/1998
Ud. - dep. 18/01/1999 -Rv. 212404, Imp. La Rosa V.).
Peraltro è stato altresì puntualizzato nella
giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, n. 7032 del
12/05/1999 Ud. - dep. 03/06/1999 - Rv. 213822 Imp.
Mariani) che "in tema di omessa custodia di animali, tra
i destinatali del precetto di cui all'art. 672 cod. pen.
è innanzitutto, anche se non esclusivamente, il
proprietario dell'animale pericoloso, il quale non è
esonerato da responsabilità in caso di provvisoria
assenza, che non implica di per sé né che egli abbia
affidato la custodia o trasferito la detenzione ad altri
né che questi, assunta tale relazione di fatto con
l'animale, a tanto fosse idoneo e capace". Posto che tra
i destinatari del precetto di cui all'art. 672 cod.
pen., come detto, vi è innanzitutto, di sicuro, ancorché
non in via esclusiva, il proprietario dell'animale
pericoloso, deve riconoscersi in capo allo stesso
l'obbligo di adottare le "debite cautele" di cui
all'art. 672 cod. pen., quanto alla sua custodia; da
tale specifico obbligo il proprietario, poi, è
esonerato, ove sia cessato, anche temporalmente, il
rapporto di detenzione con l'animale, trasferendosi
quell'obbligo in capo al nuovo, e provvisorio,
detentore, idoneo a provvedere al riguardo, secondo
modalità non previamente, concordate: ma si è del tutto
al di fuori del caso di specie, laddove non può certo
addursi - con la prospettazione del ricorrente, in
ordine a chi avesse in quel momento la custodia
dell'animale, se il ricorrente o la madre - che il
rapporto di detenzione del medesimo ricorrente con
l'animale si fosse interrotto. Piuttosto - poiché tutto
lascia intendere, nel caso di specie, che le modalità di
custodia dell'animale fossero del tutto conosciute,
comuni, concordate tra il ricorrente e la madre di
costui, ma concretamente inidonee - potrebbero
ipotizzarsi solo profili di concorsuale responsabilità
tra P. e la madre di costui: il che non rileva in questa
sede di legittimità.
Dunque, non ha pregio la deduzione
difensiva secondo cui quel giorno il ricorrente si
trovava altrove, senza peraltro nemmeno specificare (né
tantomeno comprovare) in che termini e secondo quali
modalità il ricorrente avesse provveduto per il
provvisorio affidamento ad altri, in sua assenza,
dell'animale; è sufficiente osservare al riguardo che la
provvisoria assenza del proprietario non implica, di per
sé, né che egli abbia affidato la custodia o trasferito
la detenzione ad altri (potrebbe, invero, aver affidato
solo il governo dell'animale); né che costoro, assunta
tale relazione di fatto con l'animale, a tanto fossero
idonei e capaci. Del tutto generica al riguardo è
l'allegazione del ricorrente.
Per altro verso, poi, la sentenza
impugnata pure ha dato atto che l'animale ebbe comunque
a superare le protezioni stabilite, evidentemente di
fatto inidonee a contenere lo stesso in situazione tale
da impedire che arrecasse danno ad altri, come poi è
avvenuto.
E se tali erano le pregresse,
predisposte, normali e usuali modalità di detenzione
dell'animale, è evidente che anche il mancato
approntamento di ostacoli congrui, recintivi da parte
dell'imputato, sia che egli fosse in casa sia che ne
fosse assente, milita nel senso di ritenere la sua
penale responsabilità al riguardo.
Sul punto, conclusivamente, non
hanno pregio le prospettazioni del ricorrente in punto
di idoneità in astratto delle cautele adoperate se poi
in concreto tali cautele non si rivelarono adeguate.
Al rigetto del ricorso segue, per
legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. |