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Le dichiarazioni della persona
offesa possono essere assunte anche da sole come prova
della responsabilità dell'imputato, purché siano
sottoposte ad un attento controllo circa la loro
attendibilità, senza la necessità di applicare le regole
probatorie di cui all'art. 192, commi terzo e quarto,
c.p.p. che richiedono la presenza di riscontri esterni,
anche se nel caso in cui la persona offesa si sia
costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di
pretese economiche il controllo di attendibilità deve
essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si
sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e
può rendere opportuno procedere al riscontro di tali
dichiarazioni con altri elementi
Cassazione, sez. II, 24 novembre
2011, n. 43307
(Pres. Carmenini – Rel. Cammino)
Osserva
Con sentenza in data 12 luglio 2010
la Corte di appello di Napoli confermava la sentenza
emessa il 22 maggio 2009 dal giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale di S. Maria Capua Vetere con
la quale C.S. , all'esito del giudizio abbreviato, era
stato dichiarato colpevole del reato di estorsione
continuata, in esso assorbiti i reati di minacce
continuate e percosse continuate, ai danni dei genitori
ed era stato condannato, con la diminuente per il rito,
alla pena di anni tre, mesi otto di reclusione ed Euro
1.000,00 di multa, con la pena accessoria
dell'interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.
Avverso la predetta sentenza
l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso
per cassazione.
Con il ricorso si deduce:
1) il difetto di motivazione e la
violazione di legge in relazione all'art.192 c.p.p. per
essere stata attribuita attendibilità alle dichiarazioni
delle persone offese (i genitori dell'imputato) senza
confrontarle con quelle rese dall'imputato in sede di
interrogatorio di garanzia e di udienza preliminare; le
dichiarazioni del padre del C. circa il mancato
espletamento di attività lavorativa da parte del figlio
sarebbero state peraltro smentite da una nota della
Guardia di Finanza prodotta dalla difesa; i genitori
dell'imputato attraverso la denuncia avrebbero inteso
raggiungere, comunque, la finalità di costringere il
figlio ad entrare in una comunità terapeutica per
disintossicarsi e non quella di tutelare il patrimonio
familiare, tanto che in data 16 dicembre 2008 avevano
rimesso la querela; quanto alla pretesa di ottenere il
risarcimento dei danni subiti in un sinistro stradale
dall'autovettura formalmente intestata al padre,
l'imputato non avrebbe in concreto ricevuto alcuna somma
di denaro; gli episodi di violenza riferiti dalla madre
del ricorrente, rimasti privi di riscontro in quanto
l'altro denunciante non era presente, non sarebbero
stati, infine, né datati né contestualizzati;
2) la violazione di legge e il
difetto di motivazione in relazione all'art.649 c.p. in
quanto il giudice di merito non avrebbe tenuto conto che
l'unico episodio di estorsione circostanziato, relativo
alla somma proveniente dal risarcimento dei danni subiti
dall'autovettura intestata al padre, era rimasto allo
stadio del tentativo e, pertanto, non era punibile ex
art.649 c.p.;
3) la violazione di legge e il
difetto di motivazione in relazione all'applicazione
dell'art.133 c.p. e all'art.62 bis c.p., poiché il
giudice di appello avrebbe potuto applicare anche
d'ufficio ex art.597 co.5 c.p.p. una o più circostanze
attenuanti, tra cui le circostanze attenuanti generiche,
e riconoscere quanto meno il vizio parziale di mente
dovuto al grave stato di tossicodipendenza, se non il
difetto di imputabilità per cronica assunzione di
sostanze stupefacenti, anche alla luce della sentenza
delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n.9163 del
25 gennaio 2005.
Il primo motivo è infondato.
La Corte territoriale si è infatti
adeguata alla consolidata giurisprudenza di legittimità
secondo la quale le dichiarazioni della persona offesa
possono essere assunte anche da sole come prova della
responsabilità dell'imputato, purché siano sottoposte ad
un attento controllo circa la loro attendibilità, senza
la necessità di applicare le regole probatorie di cui
all'art. 192, commi terzo e quarto, c.p.p. che
richiedono la presenza di riscontri esterni, anche se
nel caso in cui la persona offesa si sia costituita
parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese
economiche il controllo di attendibilità deve essere più
rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono
le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere
opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni
con altri elementi (Cass. sez. I 24 giugno 2010 n.29372,
Stefanini; sez. I 4 novembre 2004 n.46954, Palmisani;
sez.VI 3 giugno 2004 n.33162, Patella; sez. III 27
aprile 2006 n. 34110, Valdo Iosi; sez. III 27 marzo 2003
n. 22848, Assenza). Detto controllo avviene peraltro
nell'ambito di una valutazione di fatto che non può
essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il
giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni
(Cass. sez. III 22 gennaio 2008 n. 8382, Finazzo). Nel
caso in esame il giudice di merito, all'esito del
giudizio abbreviato, ha ritenuto attendibile il
contenuto - univoco, circostanziato, concordante oltre
che del tutto privo di intento calunniatorio - delle
reiterate denunce sporte ai Carabinieri dai coniugi C.
-T. , genitori dell'imputato, circa i ripetuti episodi
di violenza e di minaccia posti in essere nei loro
confronti dal figlio che aveva così ottenuto, quasi
quotidianamente, somme di denaro destinate
principalmente a fronteggiare il suo stato di
tossicodipendenza. Correttamente è stata ritenuta
sussistente l'ipotesi di estorsione consumata, con
riferimento ai numerosi episodi in cui effettivamente
all'imputato erano state corrisposte somme di denaro.
Del tutto irrilevanti sono le ulteriori doglianze
difensive tendenti a indebolire il giudizio di
attendibilità delle persone offese con riferimento al
mancato svolgimento di attività lavorativa da parte
dell'imputato, essendosi la condotta delittuosa del C.
protratta fino all'agosto 2008 mentre la documentazione
difensiva, di cui si sostiene l'omessa valutazione da
parte del giudice di merito, riguardava un'esperienza
lavorativa limitata all'anno 2007. Quanto agli episodi
di violenza, la prova è stata correttamente individuata
nelle dichiarazioni accusatorie della persona offesa T.
, madre dell'imputato, sulla cui attendibilità il
giudice di merito ha fornito ampia ed adeguata
motivazione. Relativamente infine al valore da
attribuire alla remissione della querela, la Corte
rileva che detta remissione, priva di efficacia in
ordine al reato di estorsione che è perseguibile di
ufficio, non ha comunque comportato alcuna smentita
delle precedenti dichiarazioni accusatorie da parte
delle persone offese.
Il secondo motivo è infondato.
La causa di non punibilità prevista
dall'art.649 c.p. non si applica infatti all'estorsione
consumata e, correttamente, il giudice di appello ha
osservato che "dal contenuto delle reiterate denunce
sporte è emerso che i genitori furono di fatto costretti
ad elargire all'imputato, quasi quotidianamente, somme
di denaro per cui nel caso in esame ricorre l'ipotesi di
estorsione consumata e non già di estorsione tentata".
In ordine all'episodio del tentativo di estorsione
citato dal ricorrente (relativo alla somma riscossa a
titolo di risarcimento danni per un sinistro stradale
dal padre dell'imputato), la Corte rileva che detto
episodio (commesso con minaccia, e non con violenza, ai
danni dei genitori) non risulta nemmeno autonomamente
contestato e si inserisce, comunque, in una serie
pressoché quotidiana di estorsioni consumate in
relazione alle quali il legislatore ha escluso (art.
649, comma terzo, c.p.) l'operatività della causa di non
punibilità prevista per i reati contro il patrimonio ai
danni di congiunti.
Il terzo motivo è anch'esso
infondato.
Il giudice di appello ha infatti
ritenuto congrua la pena rilevando che la stessa era
stata determinata dal giudice di primo grado in misura
prossima ai minimi edittali. La Corte a questo proposito
ribadisce il principio giurisprudenziale secondo il
quale allorché la pena, come nel caso in esame, non si
discosti eccessivamente dai minimi edittali, l'obbligo
motivazionale previsto dall'art. 125 co.3 c.p.p. deve
ritenersi assolto anche attraverso espressioni che
manifestino sinteticamente il giudizio di congruità
della pena o richiamino sommariamente i criteri
oggettivi e soggettivi enunciati dall'art. 133 c.p.
(Cass. sez. VI 12 giugno 2008 n.35346, Bonarrigo; sez.
III 29 maggio 2007 n.33773, Ruggieri).
Quanto alle circostanze attenuanti
generiche, il diniego è stato adeguatamente giustificato
con riferimento alla reiterazione degli episodi
estorsivi commessi dall'imputato in danno dei genitori.
La Corte rileva a questo riguardo che la sussistenza di
circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art.
62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto e può
essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle
sole ragioni preponderanti della propria decisione, di
talché la stessa motivazione, purché congrua e non
contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione
neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento
per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati
nell'interesse dell'imputato (Cass. sez. VI 24 settembre
2008 n.42688, Caridi; sez. VI 4 dicembre 2003 n.7707,
Anaclerio). Pertanto il diniego delle circostanze
attenuanti generiche può essere legittimamente fondato
anche sull'apprezzamento di un solo dato negativo,
oggettivo o soggettivo, che sia ritenuto prevalente
rispetto ad altri (Cass. sez.VI 28 maggio 1999 n.8668,
Milenkovic). La concessione o meno delle attenuanti
generiche rientra, in conclusione, nell'ambito di un
giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del
giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli
limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua
valutazione circa l'adeguamento della pena concreta alla
gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo
(Cass. sez.VI 28 ottobre 2010 n.41365, Straface; sez.VI
16 giugno 2010 n.34364, Giovane).
Le ulteriori omissioni oggetto di
doglianza riguardano il mancato riconoscimento del vizio
totale o parziale di mente dovuto allo stato di
tossicodipendenza, che non risulta tuttavia essere stato
oggetto di gravame (nell'atto di appello in maniera del
tutto superficiale e senza formulare alcuna specifica
richiesta, nel sollecitare la riduzione della pena e
l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche,
si era sostenuto che l'imputato era "affetto da una vera
e propria patologia quale deve essere considerata la
tossicodipendenza"; nelle conclusioni il difensore, come
emerge dal verbale dell'udienza in data 12 luglio 2010,
si era limitato a riportarsi ai motivi di appello). È
pur vero che l'accertamento della capacità di intendere
e di volere dell'imputato non necessita della richiesta
di parte e può essere compiuto d'ufficio dal giudice di
merito, allorché tuttavia vi siano concreti elementi per
dubitare dell'imputabilità che siano stati dedotti dalla
parte interessata o che emergano ictu oculi dagli atti
(Cass. sez. Ili 8 aprile 2010 n. 19733, Vinci; sez. VI 1
marzo 2007 n. 16544, Scoraggi; sez. VI 20 febbraio 1998
n.3823, Cornacchia). Nel caso in esame il ricorrente si
è invece limitato a evidenziare in maniera del tutto
generica lo stato di tossicodipendenza, definito
cronico, dell'imputato, senza indicare specifici aspetti
della sua condotta che avrebbe dovuto indurre il giudice
di appello a riconoscere di ufficio, unicamente sulla
base dell'esame degli atti (non risultando essere stata
nemmeno prospettata dalla difesa l'esigenza di ulteriori
accertamenti), il vizio totale o parziale di mente. La
giurisprudenza di legittimità è consolidata, del resto,
nel senso che la situazione di tossicodipendenza che
influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo
quella di intossicazione cronica che, per il suo
carattere ineliminabile e per l'impossibilità di
guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti,
cioè una patologia a livello cerebrale implicante
psicopatie che permangono indipendentemente dal
rinnovarsi di un'azione strettamente collegata
all'assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare
apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una
vera e propria malattia psichica (Cass. sez.III 8 maggio
2007 n.35872, Alia; sez.VI 16 dicembre 2002 n.1775,
Borrelli; sez.V 29 ottobre 2002 n.7363, Dezi; sez.VI 22
dicembre 1998 n.7885, Carlini): La Corte ha inoltre
affermato che nessun rilievo può invece assumere la
presenza, in capo all'autore della condotta delittuosa,
di un generico stato di agitazione determinato da una
crisi di astinenza dall'abituale consumo di sostanze
stupefacenti, non accompagnato da una grave e permanente
compromissione delle sue funzioni intellettive e
volitive (Cass. sez.VI 20 aprile 2011 n. 17305, Angius).
Anche le Sezioni Unite nella sentenza n.9163 del 2005,
citata nel ricorso, affermano peraltro che, ai fini del
riconoscimento del vizio totale o parziale di mente
possono essere presi in considerazione i "disturbi della
personalità", purché siano tuttavia di consistenza,
intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla
capacità di intendere o di volere, escludendola o
scemandola grandemente, e a condizione che sussista un
nesso eziologico con la specifica condotta criminosa,
per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto
causalmente determinato dal disturbo mentale, mentre
nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere
dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e
disarmonie della personalità che non presentino i
caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e
passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano,
eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità".
Il ricorso sul punto è privo di riferimenti al caso
concreto e del tutto generico.
Al rigetto del ricorso consegue ex
art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. |