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IL PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE NEL NUOVO PROCESSO CIVILE-UNA SCELTA NON ESCLUSIVAMENTE IL PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE NEL NUOVO PROCESSO CIVILE-UNA SCELTA NON ESCLUSIVAMENTE PROCESSUALE di Gianluca Ludovici-La previdenza.it

 

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La legge 69/2009, nell’ottica di revisione del sistema processualcivilistico cui è stata preordinata, ha posto fine ad un’annosa querelle dottrinaria e giurisprudenziale circa il riconoscimento dell’esistenza del cosiddetto “principio di non contestazione”. Se altrove l’intervento della novella è stato nel senso di “conformare” il testo normativo alle prevalenti elaborazioni ed interpretazioni della giurisprudenza di legittimità, nel caso in esame si è preferito seguire l’opposto indirizzo: come noto, infatti, pur dovendo far salve eccezioni degne di nota ( tra cui vale la pena ricordare: Cass., S.U., sent. n. 761/2002 ), più volte la Suprema Corte e le Corti di merito hanno ritenuto non potesse operare indiscriminatamente nel nostro ordinamento processuale civile il principio in argomento, finendo per confinare lo stesso entro ambiti così angusti da ridurne sensibilmente l’applicabilità concreta ( cfr.: Cass. n. 14880/2002; Cass. n. 13814/2002; Cass. n. 13904/2000; Cass. n. 10434/2000; Cass. n. 9424/2000, Cass. n. 11513/1999; Cass. n. 4687/1999; Cass. n. 1213/1999 ). In poche parole, per l’impostazione maggioritaria un fatto doveva considerarsi pacifico e, quindi, non necessitava di essere provato, solo allorquando l’altra parte lo avesse ammesso esplicitamente, quando avesse impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento o quando si fosse limitata a contestare esplicitamente e specificamente alcune circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le altre. Il principio di diritto da sempre prevalente sconfessava, dunque, la convinzione di chi credeva che, anche al di fuori del rito del lavoro, la mancata precipua replica ad un’allegazione di controparte comportasse sul piano processuale un’implicita conferma di quanto ex adverso sostenuto, con conseguente attribuzione di valore di prova ad una simile omissione: tutto ciò, in ragione dell’assenza di espressi oneri in tal senso e, forse, pure a seguito di una lettura troppo poco sistematica del complesso delle norme che regolavano e regolano il processo civile ( su tutte, si veda: Cass. civ. n. 13958/2006 ).

 

Orbene, il Legislatore, con il nuovo art. 115, comma I C.P.C., ha scelto di seguire la strada contraria a quella tradizionale e maggiormente percorsa, configurando tra gli elementi di prova idonei a supportare la decisione dell’organo giudicante adito anche i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita ( “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita” ). Tale precisazione normativa, a parere di chi scrive, non può dirsi semplicemente adagiata sulle argomentazioni di dottrina e giurisprudenza minoritarie, ma fondata su una più attenta e corretta “rilettura” delle norme di cui agli artt. 167, comma I e 416, comma III C.P.C., nonché di altri numerosi articoli del codice di rito ( a titolo esemplificativo, si vedano: art. 14 comma III, art. 35, art. 186 bis, art. 316 comma III, art. 423, art. 512 comma II, art. 541, art. 542, art. 548, art. 597, art. 598, art. 643, art. 785, art. 789 ). In ciò conforta anche la relativamente recente Cass. sent. n. 5191/2008 ( si noti bene, ante riforma 2009! ), secondo cui l’onere di contestazione tempestiva deriverebbe da tutto il sistema processuale, come si può dedurre dal carattere dispositivo del processo ( che comporta una struttura dialettica a catena ), dal sistema di preclusioni ( che comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa ), dai principi di lealtà e probità di cui all’art. 88 C.P.C. e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo ex art. 111 Cost.. Ne deriva che per i procedimenti introdotti dopo l’entrata in vigore della legge 69/2009 ( poiché così espressamente stabilito dal Legislatore in deroga al tradizionale principio dell’immediata applicabilità delle nuove norme processuali ), le parti saranno sempre gravate dall’onere di prendere, nella prima difesa utile, specifica posizione ( ovviamente contraria ) in ordine a tutti i fatti storici introdotti in giudizio dalla controparte, pena il dover il giudice ritenere tali fatti pacifici e, pertanto, provati.

 

Quanto agli aspetti meramente tecnici del nuovo istituto, appare opportuno precisare alcuni punti rimasti inespressi. Al fine di impedire il realizzarsi della conseguenza di cui all’art. 115, comma I C.P.C., la contestazione, le cui ragioni potranno essere chiarite in un momento successivo alla proposizione della stessa, deve necessariamente essere specifica e deve concernere fatti, siano essi principali o secondari, e non la loro qualificazione giuridica. Il requisito della specificità è di facile comprensione: la contestazione dovrà, pertanto, riferirsi puntualmente ad un dato fatto storico allegato dalla parte avversa ( attore, convenuto, terzo chiamato in causa o interveniente ) e non essere assorbita nella più ampia eccezione di “infondatezza in fatto ed in diritto”, propria delle verbalizzazioni di prima udienza. Tuttavia, se si tengono nel giusto conto tanto la ratio, quanto il dato testuale della disposizione in argomento, dovrà ritenersi che la specificità non implichi un riferimento espresso ( di segno negativo ) al fatto introdotto ex adverso; ne discende che dovranno considerarsi contestazioni specifiche anche le allegazioni di accadimenti incompatibili con le narrazioni di controparte, qualora le “contro-affermazioni” si pongano in contrapposizione logico-funzionale con la ricostruzione fattuale avversaria. Da qui l’ulteriore corollario secondo cui, in caso di continenza logica tra gli accadimenti narrati, se si nega un fatto che costituisce il presupposto di un altro, la contestazione del primo comporterà necessariamente anche la contestazione del secondo ( classico esempio è quello offerto dal rapporto di continenza tra “an debeatur” e “quantum debeatur” ). Relativamente, poi, all’oggetto dell’exceptio, la contestazione dovrà riguardare  solo ed esclusivamente i fatti storici, quelli costitutivi dei diritti azionati in giudizio e quelli modificativi, impeditivi ed estintivi relativi alle eccezioni di controparte. Deve, pertanto, escludersi che l’omessa qualificazione giuridica di un elemento della fattispecie fattuale dedotta in giudizio porti con sé l’automatica rinuncia di parte avversaria ad argomentare diversamente o significhi acquiescenza della medesima al risultato dell’attività di sussunzione del fatto alla norma operata dall’altra parte. Altro aspetto da non trascurare è quello della valutazione dell’omessa contestazione specifica a fronte dell’acquisizione al processo di una prova di segno opposto. Ben potrebbe accadere, infatti, che nel corso dell’istruttoria, seppur non a seguito di puntuale domanda, un teste renda dichiarazioni sostanzialmente contrarie al fatto non contestato da controparte. Cosa accadrà in tali casi? La risposta che appare più in linea con i principi della logica, ma non con il testo dell’art. 115, comma I C.P.C. ( in virtù del quale le due risultanze probatorie dovrebbero astrattamente equivalersi ), è quella che impone al giudice di prendere atto dell’esistenza di una prova che smentisca a monte l’esistenza del fatto non contestato e di farne derivare, quale unica conseguenza possibile, l’irrilevanza della mancata specifica contestazione. Il tema, comunque, resta opinabile e vale la pena attendere le prime pronunce giurisprudenziali al riguardo.

 

Il giudizio sulla novità introdotta dal Legislatore non può che essere positivo: in primis, tende a garantire più proficui risultati nella ricerca e nell’accertamento della verità in sede processuale, ciò attribuendo significato concludente ( sfavorevole alla parte silente ) alle omissioni argomentative di comodo, laddove il fatto ( costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo che sia ) allegato da controparte non possa costituire oggetto di una minimamente valida eccezione ( per ragioni meramente pragmatiche quali l’inesistenza storica o l’indimostrabilità del fatto contrario ). In secondo luogo, anche qui la necessità di realizzare processi rapidi e snelli ha avuto il suo peso, cosicché se su uno o più fatti non si controverte la nuova norma eviterà che si svolgano istruttorie ( talvolta protratte per tre o quattro udienze ) aperte anche a questi ultimi. Ma vi è di più: nei casi in cui la mancata contestazione sia frutto di demeriti del difensore, si tende a realizzare, qui solo in potenza, indirettamente e molto teoricamente, quella competitività tra avvocati ( e non solo all’interno del singolo giudizio!... ) tipica dei modelli anglosassoni, in quanto dovrebbe o potrebbe svilupparsi in questo modo un mercato concorrenziale basato su scelte legate alle sole capacità professionali e non anche a valutazioni o considerazioni di altra natura.

 

In definitiva, anche se qualcuno penserà “beata ingenuità”, quella del Legislatore non appare una scelta esclusivamente processuale.

 

 

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