Un’occasione da non perdere
a cura
di Paolo Nesta
In
occasione della celebrazione dei cento anni di storia
degli Avvocati di Roma nel “Palazzaccio” che si terrà i
giorni 20 e 21 giugno 2011 presso l’Aula Avvocati del
Palazzo di Giustizia di Roma, secondo il programma
riportato nella locandina, che segue, ho il privilegio
di riportare l’introduzione del nostro Presidente
Antonio Conte alla pubblicazione, che è stata redatta e
che sarà distribuita in occasione di tale importante
evento, nonché le prefazioni di illustri avvocati
Manfredo Rossi, indimenticato e stimatissimo Presidente
del nostro Ordine, Enrico Biamonti e Virgilio Gaito, già
autorevoli ed apprezzati Consiglieri che hanno onorato e
reso prestigioso il nostro Ordine, oltre Rodolfo Murra,
attuale Consigliere Segretario, che già si sta
distinguendo per la sua dedizione e la competenza
nell’espletamento dell’attività istituzionale.
Sicuramente i Colleghi non faranno mancare la loro
massiccia partecipazione a tale evento epocale, che va a
celebrare la nostra storia, permeata dai fulgidi esempi
di insigni giuristi, che hanno ispirato la loro vita
alla tutela di quei valori di giustizia, che
costituiscono l’essenza di ogni società civile e
democratica.
INTRODUZIONE
CENTO ANNI NEL “PALAZZACCIO”
1911-2011
ono
certo di rappresentare il naturale sentimento di
orgoglio che pervade i
tanti
Colleghi – che hanno avuto, in anteprima, la notizia (e
sono molti) – per
l’iniziativa dell’attuale Consiglio, di organizzare la
celebrazione dei 100 anni dell’Ordine
degli
Avvocati di Roma all’interno del “Palazzaccio” (prima di
allora l’Ordine era
ubicato nei locali della Congregazione dell’Oratorio, in
Piazza della Chiesa Nuova),
per
consentire alle giovani generazioni di Avvocati di
conoscere la meravigliosa storia
dell’Avvocatura Romana.
Tutto
il Consiglio auspica che questo evento verrà
“festeggiato” da migliaia di Colleghi,
perché
la presenza dell’Ordine di Roma, all’interno del
Palazzaccio, ha sempre
rappresentato un elemento di grande rilievo per tutta la
Classe forense. Ne è prova
l’appassionata partecipazione di tutti gli Ordini
forensi italiani quando vi fu una inspiegabile
“frizione”, oggi superata, con la Suprema Corte di
cassazione, due anni or
sono.
Da sempre, l’Ordine degli Avvocati di Roma è un punto di
riferimento per tutti
gli
Avvocati italiani che vengono a Roma per discutere
innanzi alla Suprema Corte di
cassazione.
Basti
ciò per spiegare l’importanza e il signifi cato di
questi 100 anni.
E da
allora, l’Avvocatura ha saputo trovare il rango che le
compete e assumersi le
sue
responsabilità, con coraggio e capacità, fronteggiando
“il dramma” del tempo che
trascorre, che cadenza il declino inesorabile di una
Amministrazione della Giustizia
sempre
più carente, con l’Avvocato, che deve assolvere
all’incarico difensivo, sempre
più
tra mille diffi coltà, tutelando gli interessi del
cittadino/cliente che vorrebbe giustizia
con
successo e in tempi ragionevoli. Questo rende l’idea,
con due semplici parole,
di
quanto sia complesso oggi svolgere la nostra
professione.
I
Colleghi Consiglieri dell’Ordine sanno quanto è arduo
l’impegno, per il nostro
Consesso, di aver avuto l’altissimo onore di organizzare
e sacralizzare questo evento
eccezionale per la storia dell’Avvocatura romana.
Il
grandissimo onore di un Consiglio che è consapevole
dell’ineguagliabile valore
del
patrimonio storico dell’Avvocatura romana, di cui oggi
siamo eredi e, quindi, della
responsabilità che ci spetta di mostrarcene degni
custodi e continuatori. Mai dimenticando,
però,
l’ampiezza di orizzonti che ha animato gli spiriti più
altamente rappresentativi
del
genio dell’Avvocatura romana.
Ripeto, è un compito arduo, che ci emoziona fortemente,
perché dobbiamo consegnare
il
testimone di una vita intemerata al servizio di un
ideale supremo di giustizia e
libertà per continuare le luminose tradizioni
dell’Ordine forense romano.
I
prossimi 20 e 21 giugno 2011, saranno giorni in cui
gioia e commozione si intrec-
S
8
ceranno e, forse, ci sovrasteranno, ma vicino a noi
avremo sicuramente le centinaia
di
Grandi Avvocati che ci hanno preceduto e che hanno reso
la nostra, la regina delle
attività: la professione forense.
Tanti
anni fa, Pasquale Stanislao Mancini, acclamato primo
Presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Roma, nel discorso di
insediamento così tratteggiava la
fi
gura dell’Avvocato:
“quanto poco all’esperienza addimostrata suffraghino
l’ingegno e gli studi
senza la prima virtù, una probità a tutta prova
riconosciuta e rispettata dalla pubblica opinione, una
perpetua e costante volontà di attribuire a ciascuno il
suo, di dimenticare sempre ed in tutte le occasioni
se stesso, ed ogni utilità della sua persona, della sua
casta, del suo partito, per rendere unicamente e
perennemente omaggio alla grande ed eterna idea della
Giustizia”.
Così
come, tanti anni fa, M.K. Gandhi diceva:
“Mi resi conto che la vera funzione dell’Avvocato
è di unire parti che si sono disunite; la lezione
s’impresse così indelebilmente in me che occupai
gran parte del tempo per ottenere compromessi privati in
centinaia di casi. Non ci persi nulla, neppure
denaro, certamente non l’anima. Io sono un avvocato”.
Ed
infi ne, ancor mille e mille anni prima, l’Avvocato per
eccellenza, Marco Tullio
Cicerone, defi niva così la Categoria dell’Avvocatura:
“Non solus nostro imperio militare
credimus illos qui gladiis, clypeis et thoracibus
nituntur, sed etiam Advocatos.
Militant namque causarum
patroni, qui gloriosae vocis confi si munimine,
laborantium spem, vitam et posteros defendunt”.
“Nel nostro impero non crediamo che militino solamente
coloro che sono armati di spada, di elmo
e di scudo, ma pure gli Avvocati. Poiché militano i
patroni delle cause, i quali con la loro voce
gloriosamente
difendono la speranza dei miseri, la vita ed i posteri”.
Noi
siamo gli eredi di tutto ciò.
Dobbiamo esserne degni.
Grazie.
Antonio Conte
Presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Roma
AVVOCATURA: ESPERIENZE E PROBLEMI
Le
vicende del nostro Consiglio, con il susseguirsi delle
sue varie composizioni
e con
la sua storia così fortemente radicata nel Palazzo di
Piazza Cavour, è
stata
tracciata da Virgilio Gaito con cura scrupolosa e con la
passione che da sempre
lo
contraddistingue.
È un
testo che rimane e al quale si potrà sempre ricorrere
per informarsi e documentarsi.
È
forse solo il caso di riprendere il discorso che
riguarda questi ultimi anni e
non
tanto per rievocare fatti e persone, che è da supporre
cogniti alla grande maggioranza
dei
Colleghi, quanto piuttosto per toccare argomenti che
attengono direttamente
alla
stessa funzionalità dell’istituzione. Non senza,
aggiungo subito, qualche cenno al
passato che ritengo aderente al tema.
Intanto, una breve rifl essione sulle origini e su
quanto, a mio avviso, ne consegue.
Che la
nostra cultura istituzionale sia consiliare, non può
revocarsi in dubbio e sarà
bene
ricordarlo agli ignari, veri o fi nti che siano. La sua
tradizione sarà pur francese,
saggiata beninteso da secoli di vita, ma Giuseppe
Zanardelli, che ne ha curato lo stesso
impianto legislativo, ha avuto la soddisfazione di
constatarne la piena riuscita.
Segno
dei tempi venuti a maturazione e di esigenze
insopprimibili che individuavano
nell’Ordine una realtà che esprimeva la libertà
dell’Avvocatura con relativa sua
autodisciplina e connesso suo governo affi dato al
Consiglio eletto dal voto dei Colleghi
tutti.
Questa particolare collocazione dell’Ordine ne
sottolinea tuttora la specifi cità
sullo
stesso piano concettuale.
Sappiamo tutti e lo sappiamo bene che l’Ordine, proprio
perché tale, non è una
semplice associazione, che non sorge a guisa di un
inquadramento coatto e che non è
neppure una sorta di mutua o di sindacato.
Giusto
per tenerlo a mente, non è una semplice associazione
perché coinvolge l’intera
categoria e d’altra parte non ha a che fare con una
sorta di inquadramento coatto,
a
smentir la quale ipotesi sarebbe suffi ciente ricordare
la costante e massiccia partecipazione
alle
elezioni del Consiglio, perfi no a quella indotta
post-commissariamento,
allorquando particolari e apprezzabili ragioni indussero
consistenti ed autorevoli voci
della
nostra Avvocatura romana a consigliare l’astensione
dalle urne.
Ma non
è neppure un sindacato e tanto meno una mutua – pur non
disinteressandosi
certo
dei problemi materiali della categoria – perché, per
dirla in due parole, va
oltre
e ha di mira l’inserimento dell’Avvocatura, curandone il
ruolo, nell’ambito della
società. Un antico detto – “né Stato né mercato” – ci
ammoniva austeramente a salvaguardare
l’esigenza primaria della nostra indipendenza esterna ed
interna.
Come
stanno in effetti le cose, oggi come oggi? A mio
personalissimo giudizio,
tutto
sommato, direi che reggono.
Non mi
risulta che l’Avvocatura romana si sia resa mancipia
dello “Stato”, e dunque
del
pubblico potere. Al contrario, non mi pare proprio che
si possa parlare di una
qualsivoglia sudditanza del nostro ceto forense romano
ad imposizioni o comunque direttive
dall’alto, ferme restando ovviamente le libere ed
insindacabili opinioni politiche
L
202
individuali. Il fenomeno, chiamiamolo così,
dell’avvocato parlamentare che agisce su
due
scacchieri intercomunicanti in reciproca spola (dove non
arriva l’uno, arriva l’altro
a
rincalzo) non ci riguarda, concernendo eventualmente
altri Consigli.
Quanto
al “mercato”, è chiaro che il dilagare incontenibile del
fattore economico e
della
spinta pubblicitaria un qualche effetto lo hanno
inevitabilmente prodotto.
Importante sarebbe, ovviamente, preservare la propria
autonomia rifi utando o manifestando
aperto
dissenso rispetto a talune esigenze formulate dal
committente in
contrasto con i nostri canoni e soprattutto con il
nostro motivato parere. Il che, certo,
non è
facile, specie in tempi di crisi e di fabbisogni che
incalzano e che vanno comunque
soddisfatti.
Caso
mai, e il discorso riporta direttamente al rapporto con
la politica e con taluni suoi
esponenti, si desidererebbe maggiore trasparenza negli
affi damenti di grossi e lucrosi incarichi
da
parte del parastato, tanto più se sotto forma di
consulenze permanenti.
Che ci
sia un deterioramento, lo si avverte ma non potrebbe
essere diversamente
in
presenza di un Ordine, il nostro, che annovera oltre
23.000 iscritti e punta inarrestabile
al
traguardo dei 30.000 ed oltre, senza poi parlare
dell’incalcolabile numero dei
praticanti.
Lo so
anch’io che Calamandrei, ormai
temporibus illis,
ha scritto contro l’Albo chiuso,
ma
ritengo scarsamente probabile che persisterebbe nello
stesso parere.
Ancora
una ventina di anni fa, la situazione era governabile.
Sovviene, se mi è consentito,
il
ricordo personale. Quando, nell’88, sono stato eletto
Consigliere, presiedeva
Carlo
Martuccelli, con grande perizia e riconosciuto
equilibrio.
Vi era
una sostanziale compattezza fra tutti noi e i lavori
procedevano con giusta
alacrità e senza l’assillo del momento.
Quando, nei due bienni successivi, sono acceduto alla
Presidenza grazie alla fi ducia
dei
Colleghi, ho benefi ciato dello stesso clima (migliore
nel secondo rispetto al primo,
come
del resto è normale perché il mestiere s’impara e i
reciproci rapporti si consolidano
col
tempo).
Ricordo solo, per rimanere in argomento, che mi sono
accorto, apponendo la fi rma
ai
tesserini dei nuovi Colleghi che via via venivano ad
ingrossare le nostre fi la, del
progressivo loro aumento sia in assoluto che in
relazione alle normali quote annuali.
Così
pure mi sono reso conto della componente femminile in
costante incremento.
Argomenti sui quali si fa presto a discettare alla buona
tra amici e conoscenti e che
tuttavia si imprimono con crudezza nella mente solo
allorquando se ne vede scorrere
l’inesorabile documentazione sotto i propri occhi.
Accennare all’aumento impressionante dei partecipanti
all’esame è poi francamente
superfl uo e ne vediamo la traduzione pratica alla
semplice consultazione dell’Albo, che
ormai,
quanto a mole, se la batte con l’elenco telefonico.
Cosa è
successo dopo, era scritto, a mio giudizio, in questa
specie di legge bronzea
dell’incremento numerico. Reggere il Consiglio e
governarlo è divenuto allora non solo
sempre
più diffi cile, ma direi anche e soprattutto faticoso.
Il
breve interregno di quel gran signore che è stato
Massimo Frattali Clementi è
203
sfuggito di misura, per sua benigna e meritata sorte, al
diluvio di cui erano gravidi i
nuvoloni in agguato.
La
faticosità di cui accennavo ha ingenerato diffi coltà di
fare fronte alla situazione
via
via in corso di rapido deterioramento, con
manifestazioni di scollamento dovute
alla
fermentazione inevitabile di difformità di vedute quanto
alle modalità con le quali
ovviare alla bisogna. Dal che l’affi orare di crepe
nella solidarietà imposta dal comune
operato, con i rifl essi esterni di competizioni
esagerate fi no a giungere a campagne
elettorali solcate da personalismi fuori luogo e senza
autocontrollo.
Immaginabile la ripercussione a cascata nei mandati
susseguitisi. Sia ben chiaro che
nessuno ha il diritto di lasciarsi andare ad espressioni
di voto di natura soggettiva e
squisitamente persone, perché è proprio la situazione
oggettiva venuta prepotentemente
alla
luce che, con la rottura di tutte le paratìe stagne che
fi no allora, bene o male,
avevano sorretto la diga, a rendere estremamente diffi
coltoso il governo dell’Ordine.
Certe
situazioni vanno vissute dall’interno per poterle
convenientemente valutare,
al di
là di troppo invitanti censure.
Sta di
fatto che Lubrano, nonostante tutto il suo impegno, è
stato il primo a dovere
fare i
conti con questo stato di cose, tant’è che le componenti
consiliari divenute reciprocamente
ingestibili hanno condotto alla dolorosa e certo non
esaltante pagina del
commissariamento.
La
reazione della categoria, tornata in massa alle urne –
l’ho già accennato – dimostrando
così
il proprio attaccamento all’istituzione e il desiderio
di cancellare la pagina
quanto
meno imbarazzante, è sfociata nella Presidenza Bucci,
circondata da legittima
curiosità per le particolari vedute spesso esternate
dall’interessato e manifestate nero
su
bianco nel suo programma di governo.
Uno
stato di cose tuttavia che ha però retto solo per poco
all’urto di forti sezionalismi
culminati con la defl agrazione della sua stessa
maggioranza e, di conseguenza, con
la
Presidenza di Alessandro Cassiani.
Le
ultime vicende, con una competizione ormai a tutto
campo, le conosciamo bene
e si
può ben dire, ricollegandosi a quanto poc’anzi
osservato, che ancora una volta la
diffi
coltà estrema della situazione oggettiva ha fatto aggio
sulla passione e sull’impegno
sempre
profusi dai Presidenti e dai Consiglieri.
Ora,
il governo è nelle mani di Antonio Conte, fi glio d’arte
ed espressione schietta
della
nuova generazione.
Ha un
compito diffi cile ma lo sta affrontando con un piglio e
con una decisione che
incoraggiano fondatamente a bene sperare e di cui è già
dato constatare i primi risultati.
Va
sostenuto con una consapevolezza piena e consapevole e
non già per ripetere il
“nutriamo fi ducia” di factiana memoria (Facta, per i
più giovani che non sono tenuti
ad
averne memoria, è quel buontempone di Presidente del
Consiglio, che il 27 ottobre
del
’22, per l’appunto, “nutriva fi ducia” che una
maggioranza parlamentare aggrovigliata
nelle
sue reciproche contorsioni potesse ancora tirare avanti
benché Mussolini
avesse
già appoggiato il piede sul predellino del vagone-letto
che l’avrebbe condotto a
Roma
per accettare dal Re, dal canto suo indisponibile alla
fi rma dello stato d’assedio,
204
l’incarico governativo e benché le squadre d’azione
fossero già concentrate a Perugia
in
patente ostentazione minatoria). Che il nostro Ordine
allora – è questo l’auspicio –
riprenda il suo pieno vigore, riorganizzi le fi la e
proceda nella marcia con meticolosità,
compattezza e decisione.
Si
preoccupi soprattutto della compattezza, Conte, e non
demorda in proposito,
con
tranquilla ma infl essibile energia.
È
importante l’esempio dell’Ordine romano, a confutazione
di coloro che ormai
troppo
sovente sdottoreggiano sulla supposta inutilità e sulla
asserita necessità di eliminare,
nientemeno!, lo stesso Ordine forense in quanto tale, in
nome di non sa bene
quale
“liberalizzazione”, quasi che la società civile, proprio
per assicurare il libero e pieno
dispiegarsi di tutte le sue potenzialità, non debba
contare su questo fondamentale e
secolare corpo intermedio.
Manfredo Rossi
Due
premesse:
A)
Quando nel dicembre 2009, in occasione della consegna
delle medaglie,
fui
richiesto di fare un intervento a nome degli avvocati
iscritti all’albo da settanta anni,
l’allora Presidente Alessandro Cassiani non ebbe diffi
coltà nella scelta: ero io l’unico
avvocato ancora iscritto all’albo dal 1939!
B) Ho
sempre cercato, anche nell’esercizio della professione,
di valermi del dono
della
sintesi e di seguire nella forma e nella forza della
lingua latina del detto “rem tene
verba
sequentur”. Spero anche questa volta di non deludere il
lettore.
1)
Come risulta dal volume pubblicato nel 1995, ideato e
curato dal caro amico Virgilio
Gaito,
ho fatto parte del Consiglio dell’Ordine dal 1964 al
1969 sotto la presidenza
i
primi quattro anni di Filippo Ungaro e di Carlo Fornario
negli altri due. Entrambi mi
hanno
sempre voluto bene ed hanno sopportato la mia attiva,
talora alquanto movimentata,
partecipazione alle sedute. Mi fa piacere in questa
occasione ricordare le due
personalità che hanno saputo presiedere il Consiglio con
quell’equilibrio che è necessario
soprattutto in una riunione di persone di diverso
carattere.
Ricordo. Filippo Ungaro, grande avvocato penalista; mi
sorprese in alcune occasioni
la
rapidità con la quale centrava il punto della questione
in discussione, specie
nei
casi con rifl essi disciplinari, prima ancora di aver
esaminato tutto il fascicolo. Mi
sia
permesso a questo proposito di far cenno ad un episodio
faceto: presidente in
una
udienza di un processo disciplinare, evidentemente in un
momento di stanchezza,
sembrò
assopirsi; sollecitato dal segretario Valensise che gli
era vicino aprì gli occhi e
fece
una domanda all’avvocato incolpato come se avesse
seguito tutto lo svolgimento
del
processo. Io gli fui vicino fi no a quando è mancato. Di
carattere diverso, ma pari
a lui
nell’equilibrato metodo di presiedere, è stato Carlo
Fornario che ben conoscevo
precedentemente alla mia nomina. Anche lui sempre
tranquillo aveva l’abilità di conciliare
le
varie opinioni dei consiglieri e di trovare il
quid novi
per
una soluzione accettabile
almeno
dalla maggioranza, e ci riusci va quasi sempre: abilità
di Presidente. Lavoratore
intenso iniziava la sua giornata molto presto per
presenziare le udienze, soprattutto di
Cassazione, e passare poi molto tempo presso il
Consiglio. Due episodi posso ricordare
se la
memoria non mi fallisce. Il primo, durante una seduta io
mi ero accapigliato
con un
collega – al quale peraltro ero legato da stima ed
amicizia – Carlo Fornario,
che mi
voleva bene, mi disse “Enrico, adesso basta!”. Entrambi
i contendenti tacquero.
L’altro episodio, che per me è particolarmente
lusinghiero, quando non era più in
grado
di presiedere l’udienza, per ragioni di salute, mi
chiamò e mi pregò di sostituirlo
nella
trattazione di un ricorso in Cassazione. Con vivo
rimpianto non ricordo se feci in
tempo
per comunicargli l’esito. Un pensiero particolare va a
Ottorino Petroni, avanti
negli
anni, esperto conoscitore della materia penalistica di
carattere commerciale e
fallimentare.
2) Le
materie che ho sempre preferito come membro del
Consiglio dell’Ordine
erano
due alle quali (perdonatemi l’elogio di me stesso) mi
sono molto dedicato: la
disciplina e i rapporti con le avvocature straniere.
Quanto alla disciplina è stato sempre
l’argomento attinente alla professione che ho
considerato e considero tutt’ora come
D
200
fondamentale perché l’Avvocatura mantenga o, se volete,
riprenda quel prestigio che
deve
qualifi carla nei riguardi di ogni altra professione.
Senza una legge scritta data la natura
del
tutto particolare la professione forense se non segue le
regole della sua etica perde
quei
caratteri che devono contraddistinguerla. Specie in un
tempo in cui nella società i
valori
autentici sembrano tanto deceduti. Purtroppo gli
avvocati iscritti all’albo, di cui
una
parte non esercita, sono troppi e non è facile il
controllo. Anche qui mi sia permesso
un
ricordo che riguarda la mia persona. In considerazione
del mio metodo di istruire le
pratiche disciplinari – da alcuni colleghi considerato
troppo severo – mi fu proposto di
lasciare la direzione di quella materia e di occuparmi
della parcellazione: rifi utai decisamente
quest’ultima proposta. Nel campo della rappresentanza
internazionale credo di
aver
fatto quanto era nelle mie capacità per far conoscere le
regole ed i pregi dell’avvocatura
italiana e collaborare con le varie istituzioni estere.
Era un momento particolarmente
importante: la regolamentazione in sede europea del
principio comunitario riguardante la
“libera circolazione” degli avvocati e il “diritto di
stabilimento”. Fu necessario superate
le
diffi coltà connesse con le discipline dei vari paesi,
specialmente quelli di “Common
Law”.
Partecipai anche allo studio di altra materia di diritto
europeo in una commissione
istituita dell’Unione Internazionale degli avvocati
riguardante il Diritto Societario, commissione
che
dette notevole impulso alla cosiddetta “armonizzazione”
delle leggi dei vari
paesi
e fu apprezzata dalle Autorità della Comunità.
3) A
questo punto devo purtroppo soffermarmi su una nota
molto amara: l’attuale
situazione della giustizia in Italia. L’argomento fu
oggetto del breve intervento che io
feci
nel dicembre del 2009, sopra menzionato. Dissi allora e
purtroppo non posso che
ripetere oggi: quello che sta succedendo in Italia nei
riguardi dell’amministrazione della
giustizia è veramente umiliante. Con una magistratura
che nella sua grande maggioranza
ritengo sia pronta a compiere il suo dovere consapevole
delle diffi coltà, e talora
anche
con sacrifi cio, le meschine polemiche oggetto di
dissidie menomano fortemente
il
ruolo dell’istituto della Giustizia. Si dimentica che
trattasi di una materia del più alto
livello umano, intellettuale e morale che è molto vicino
alla “verità” in particolare in
un
paese che nella sua grande maggioranza crede nelle virtù
cristiane. Su questo argomento
valga
peraltro una nota positiva: che soprattutto i giovani
pratichino quella virtù
che si
chiama SPERANZA, che signifi ca anche volontà di far sì
che la Giustizia torni
al
livello che l’umanità richiede per la sua vita futura.
4)
Chiudo per esprimere anche in questa sede il mio
disappunto riguardante quello
che io
stimo il pessimo costume giornalistico di trattare a
lungo in modo talora sconveniente
i
processi in corso, in particolare quelli ancora in
istruttoria. Il processo è
di
spettanza di Magistratura e Avvocatura, non deve avere
una pubblicità preventiva
certamente nociva alla scoperta della verità. È da
auspicare che soprattutto i giovani
combattano la buona battaglia per il mantenimento di
quei valori che pur adattati alle
esigenze del tempo sono la garanzia del prestigio delle
due Istituzioni.
Enrico Biamonti
PREFAZIONE
AVVOCATURA, UN AMORE INESTINGUIBILE
more,
una parola troppo importante per una prefazione: eppure
il mio cuore
di
Avvocato ottantunenne ma non vecchio, non imputabile di
adulterio verso
la più
bella professione del mondo, mi ha suggerito di
mantenerla anche per questa
chiacchierata intorno all’edizione aggiornata del libro
“Avvocati a Roma”, da me ideato
e
curato sul fi nire degli anni 80 del secolo scorso per
ricordare soprattutto alle giovani
generazioni la luminosa storia del nostro Ordine.
Quando, nel lontano autunno del 1951, alla verde età di
21 anni, fi ero della mia
laurea
con il massimo dei voti, mio Padre mi accompagnò nello
studio degli avvocati
Bruno
e Roberto Ascarelli per iniziare la pratica forense,
quegli illustri professionisti
che
sarebbero stati impareggiabili maestri di diritto e di
vita, con mio grande stupore
e
malcelata frustrazione, non si informarono tanto sui
miei studi, ma mi chiesero se
godessi di buona salute perché “questa professione –
dissero – si fa soprattutto con i
piedi
e, talvolta, anche col cervello”. Un duro impatto con la
realtà per me che uscivo
dall’Università dove la mia mente si era arricchita
delle sublimi teorie del negozio giuridico
e
dell’ermeneutica elaborate dal mio sommo Maestro Emilio
Betti.
Ma un
colpo ancora più duro ai miei sogni di emulo di Cicerone
mi fu dato il giorno
dell’ingresso nello studio dove il mio Maestro mi aveva
consegnato gli atti di un giudizio
di
conciliazione chiedendomi di preparare una comparsa di
costituzione dove avrei
trasfuso le argomentazioni da sostenere l’indomani in
udienza. Ricevuta l’approvazione
del
mio primo elaborato, una segretaria severa e sbrigativa
mi ordinò di preparare
il
fascicolo per l’udienza del giorno dopo mettendomi in
mano un ago da materassaio
ed uno
spago sottile per trapassare a regola d’arte i vari atti
e documenti ben separati
per
poi legarli elegantemente alle copertine del fascicolo.
Alla mia timida obiezione
che
quello fosse un lavoro da segreteria, quella persona –
che sarebbe stata poi mia
preziosa consigliera e collaboratrice per oltre mezzo
secolo e tuttora – mi rispose che
un
Avvocato deve sapersela sempre cavare anche da solo e
che i giudici appressano gli
Avvocati non solo per le loro tesi ma anche per l’ordine
e la dignità con cui presentano
i
propri fascicoli oltre che sé stessi. E, da allora,
stoiche lotte contro le micidiali trafi tture
dell’ago e, in udienza, giacca e cravatta anche col
solleone.
E
l’amore, dapprima incerto perché denso di diffi coltà
connesse all’inesperienza
e alla
delusione per sentenze ingiuste, divenne sempre più
intenso ed appassionato
sull’onda dei successi e delle battaglie di libertà
sostenute con tanti miei giovani Colleghi,
spesso
da avversari divenuti amici, e insieme protesi ad
affrontare e tentare di
risolvere, attraverso la fondazione dell’associazione
italiana dei Giovani Avvocati, gli
annosi
e, purtroppo, cronicizzati problemi della crisi della
giustizia e della riforma della
legge
professionale.
A
10
Eletto
in seno al Consiglio dell’Ordine per un primo biennio,
quando ebbi l’onore
di
sedere al fi anco del compianto Maestro Virgilio
Andrioli, vi ritornai alcuni anni
dopo
per altre due legislature in rappresentanza dell’AIGA
per prestare un servizio
ancor
più effi cace al nostro Ordine.
Incaricato della direzione del Notiziario, gli diedi
nuova veste come “Foro Romano”
di
maggiore interesse anche culturale e, desiderando
offrire ai Colleghi un numero
unico
dedicato al quarantennio della nostra gloriosa
pubblicazione, mi accinsi
all’improba fatica che si è estesa a ritroso nel tempo
fi no alla nascita stessa del nostro
Consiglio dell’Ordine, scoprendo, con legittimo
orgoglio, che di esso, nei primi anni
del XX
secolo, hanno fatto parte giuristi insigni come Giuseppe
Chiovenda, Enrico
Ferri,
Carlo Schupfer, Vittorio Scialoja Vittorio Emanuele
Orlando, antesignani dei più
recenti nostri iscritti, tra i tanti illustri giuristi,
Arturo Carlo Temolo, Salvatore Satta,
Virgilio Andrioli, Cesare Tumedei, Michele Giorgianni,
Enzo Gaito, Franco Coppi.
Grazie
anche alla preziosa collaborazione dell’ottimo Direttore
di Segreteria dell’epoca,
dottor
Franco Verrecchia, e del personale tutto, destinatari
della mia riconoscenza
imperitura, il numero unico vide la luce come libro
intitolato “Avvocati a Roma”,
arricchito anche da un massimario disciplinare di grande
interesse anche storico, curato
dall’ora Avvocato Simone Ciccotti.
Attraverso le numerose massime raccolte emerge l’infl
essibile rigore del Consiglio
nel
vigilare sul corretto esercizio della nostra professione
nei rapporti con il cliente,
con i
Colleghi, con il pubblico, con la stampa e con i
Magistrati. Suscitò apprezzamento
ma
anche critiche la sanzione infl itta ad un nostro
Collega, censurato per aver preteso
un
compenso dalla famiglia di un rapito dalla malavita per
l’opera da lui svolta per ottenere
il
rilascio della persona sequestrata, mentre sarebbe stato
suo dovere esercitare
gratuitamente il proprio munus in ossequio alle
altissime esigenze di solidarietà umana
cui
l’Avvocato era tenuto in quel particolare momento.
Un
libro che, arricchito da articoli di grande respiro
anche letterario e umano fi rmati
dai
colleghi Claudio Schwarzwenberg, Umberto Mariotti
Bianchi e Mauro Mellini,
ha
consentito ai pazienti lettori di gettare uno sguardo
anche sul mondo della giustizia
amministrata sotto i Papi, oggetto delle satire feroci
del Belli le cui più gustose inserimmo
insieme a quelle di Trilussa illustrandole con le
caricature del Daumier.
E la
storia del nostro Ordine si è snodata in un grande
intreccio di eventi, lieti e
tragici come gli anni di piombo, personaggi entrati
nella storia, delibere signifi cative.
Ma il
tempo scorre inesorabilmente e l’attuale Consiglio,
presieduto da Antonio
Conte,
fi glio di quel mio carissimo e stimato Amico e Collega
Emilio, prematuramente
rapito
al nostro affetto, ha deciso, anche come contributo alle
celebrazioni del 150º
anniversario dell’Unità d’Italia, di pubblicare una
seconda edizione aggiornata di quel
libro,
del quale sono stato onorato di curare la prefazione.
E mi
fa particolare piacere additare alla gratitudine dei
lettori, specie dei più giovani,
l’intelligenza e l’amore prodigati in questo diffi cile
lavoro dalla giovane Collega Simona
D’Alò,
anch’essa, come me, fi glia d’arte e perciò, accesa di
amore inestinguibile per
questa
straordinaria professione. Ella ha curato, non solo la
sintesi dei lavori del con11
siglio
degli ultimi 15 anni, ma anche la cronaca dei più famosi
processi svoltisi fi nora
nella
Capitale nei quali i più famosi penalisti non solo del
foro romano ma anche di
altri,
hanno avuto modo di spiegare le loro eccellenti doti
oratorie ottenendo risultati
anche
clamorosi in quel Palazzaccio, divenuto dagli inizi del
XX secolo, l’emblema
della
Giustizia, oscurata peraltro quando ospitò il famigerato
Tribunale Speciale le cui
sentenze capitali già scritte eliminarono antifascisti
ed ex gerarchi caduti in disgrazia.
E la
travagliata storia della sede storica del nostro
Consiglio, ora defi nitivamente
stabilita per legge dello Stato fortemente voluta dai
recenti Consigli, ci viene pure illustrata
da
Simona insieme all’ingresso della donna nella vita
politica e forense, dapprima
timidamente e, con molta ostilità, superata oggi
vittoriosamente, grazie alla serietà
dell’impegno ed alle eccellenti doti di preparazione e
morali dimostrate dal gentil sesso
che da
sempre considero la parte migliore dell’universo.
Un
affettuoso ricordo desidero rivolgere alla memoria di
Gabriella Niccolaj, illustre
penalista, prima componente femminile del nostro
Consiglio, che mi fu prodiga di incoraggiamenti
durante la mia prima esperienza di giovane Consigliere.
La
seconda edizione della nostra storia consiliare si
arricchisce dunque dell’encomiabile
lavoro
svolto da Simona D’Alò nella quale ho sentito con
commozione palpitare
le
stesse emozioni da me provate quando mi accinsi alla mia
certosina ricerca tra
libroni polverosi dei verbali dei Consigli scritti a
mano con inchiostro divenuto rosso
col
tempo ma trasudante passione, polemiche, riconciliazioni
ma sempre tanto rigore
morale
e rispetto dei diritti e della dignità di tutti.
Desidero pertanto, insieme a lei, far vibrare le corde
più sensibili specie dei giovani
ai
quali anche questo secondo libro di storia forense
romana è dedicato come testamento
spirituale di un Avvocato anziano ma non vecchio, dal
cuore giovane e, per questo,
inestinguibilmente innamorato della sua professione
svolta con coscienza e onestà.
Tra
quei ricordi le parole affettuosamente ironiche
rivolteci dal Sommo Pontefi ce
Paolo
VI in occasione della visita in Vaticano resaGli dagli
Avvocati di mezzo mondo
convenuti a Roma per un Congresso dell’Union
Internationale des Avocats. Papa
Montini, che era fratello di un illustre Avvocato, ci
ricordò il giudizio che di noi aveva
espresso Sant’Ivone, nostro protettore: “Advocatus
sed non latro, res miranda populo!”.
Un
giudizio che
ab immemorabili
si
contrappone sotto qualsiasi latitudine all’immagine
del
defensor libertatis atque iustitiae
quasi
come le due facce della stessa medaglia e che
ha
nutrito divertita e divertente letteratura poiché “dell’Avvocato
è più facile dirne male che
farne a meno”.
Forse,
a ben rifl ettere in termini psicoanalitici, nei nostri
Clienti, nel momento stesso
in cui
pronunciano quella fatidica espressione: “ho
messo tutto in mano all’Avvocato!”,
si
scatena una sorta di confl itto interiore tra l’essersi
liberati da un incubo ed il dover
riconoscere la propria incapacità a risolverlo se non
attraverso questo esperto di
latinorum,
male
necessario e costoso da contrapporre – si spera –
vittoriosamente al Giudice
terrifi cante e implacabile.
Anche
se i maligni sogliono affermare che il primo Avvocato
apparso sulla terra fu
il
serpente che, da sprovveduto “mozzorecchi” – come certi
legulei vengono chiamati
12
a Roma
– pensò bene di indurre la malcapitata Eva a cogliere il
frutto proibito, ci piace
argomentare
a contrario
sulla
scia di illustri pensatori – che, se quel catastrofi co
consiglio
privò
i nostri progenitori e noi posteri delle delizie del
giardino dell’Eden, tuttavia esso
diede
loro coscienza del libero arbitrio. E non è poco!
Gli è
che, come scriveva Piero Calamandrei, Avvocato e
Giurista insigne: “L’Avvocatura
non è professione facile; può essere un mestiere; può
essere un apostolato. Può essere un tormento,
ma può essere anche felicità. Vita faticosa, vita
combattuta; ma, se uno si convince che l’unico conforto
della vita così breve è quello di prodigarsi per gli
altri, allora l’Avvocatura è una professione invidiabile
e felice”.
In
quel sublime “prodigarsi
per gli altri”
in cui si condensano responsabilità, preparazione,
onestà
intellettuale, dedizione, ardimento, ricerca inesausta
della verità, ma,
soprattutto, amore sconfi nato verso il prossimo
bisognoso del nostro aiuto, è infatti
l’essenza della nostra professione, chiamata sovente
alla tutela di beni materiali, ma ben
spesso
a scendere nel profondo dell’animo umano per capire e
saper rappresentare ad
un
Giudice inconsapevole e distaccato le scaturigini di
certi comportamenti nell’auspicio
di una
sentenza giusta.
E quel
“tormento”, legato non sempre all’estasi della vittoria,
ma piuttosto allo
sconforto per la sconfi tta, specie se imputabile ad una
nostra inappropriata difesa, ci
pone a
confronto con quegli altri esseri umani che hanno scelto
di assidersi sull’alto
scranno del Magistrato, investiti di un potere
terribile, quello di giudicare altri loro simili
segnandone talvolta in modo irreparabile il destino
proprio e dei loro affetti.
Ancora
Piero Calamandrei, nell’Assemblea del Sindacato
Nazionale degli Avvocati
e
Procuratori di cui era Segretario Nazionale tenutasi a
Roma il 21 Agosto 1943, rivendicava
la
necessità che la Magistratura sia sempre indipendente
dal potere politico
e, ad
un tempo, soleva ripetere ai suoi studenti: “le
professioni di Magistrato e di Avvocato
sono come vasi comunicanti: quando si abbassa il livello
dell’una, fatalmente si abbassa anche quello
dell’altra!”.
E
l’esperienza quotidiana di oltre mezzo secolo di vita
giudiziaria ce lo conferma,
insieme al dramma della crisi della Giustizia e
dell’edilizia giudiziaria da noi sofferto
sin
dagli albori della professione con la profonda
frustrazione di non poter assicurare
ai
nostri patrocinati una conclusione rapida, certa, non
economicamente rovinosa, ma
soprattutto giusta, delle loro vicissitudini.
È ben
per questo che Carlo Fornario, amato Presidente del
nostro Ordine, accolse
la
proposta di Tommaso Bucciarelli, illuminato idealista
creatore anche dell’Associazione
Italiana dei Giovani Avvocati, di dar vita a Roma,
sull’esempio della secolare
parigina Confèrence du Stage – prestigioso torneo di
eloquenza – alla Conferenza dei
Giovani Avvocati della quale abbiamo l’orgoglio di aver
inventato uno statuto con lo
sguardo rivolto ad un’Avvocatura italiana
sprovincializzata e capace di reggere le sfi de
del
futuro in una dimensione universale.
Da
essa, a partire dal 9 Gennaio 1968, quando la I
Conferenza fu tenuta a battesimo
nel
nostro Palazzaccio dal Presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat, sono stati
selezionati, nel corso di quarantadue anni, le migliori
promesse del mondo forense ro13
mano
confermatesi tutte Avvocati di spicco. E non è piccolo
orgoglio considerarli tutti
miei
fi gli in spirito di una famiglia sempre più numerosa e
affermata anche all’estero:
l’Ordine di Roma, unico in Italia, può essere
legittimamente orgoglioso di questo fi ore
all’occhiello.
Ma,
sempre in piena condivisione della constatazione di
Piero Calamandrei, noi
tutti
Avvocati che abbiamo speso le nostre ore migliori chini
su codici e pandette cercando
di
affi nare la nostra preparazione e la nostra conoscenza
di norme sempre più
numerose e spazianti in dimensioni pressoché impensabili
negli anni Cinquanta, auspicheremmo
che,
al di là di quegli esami obbligatori o facoltativi
connessi ai loro avanzamenti
di
carriera, anche i Magistrati cogliessero il nostro
esempio istituendo concorsi
di
eccellenza tra i giovani uditori, articolati non solo
sull’ovvia e profonda conoscenza
del
giure, ma anche sulla cultura e sulla centralità
dell’Uomo e della sua essenza divina.
È
ormai signifi cativa tradizione dell’Ordine di Roma,
puntualmente riferita nella
nostra
pubblicazione istituzionale, in occasione della
premiazione dei vincitori della
Conferenza dei Giovani Avvocati, conferire ogni anno,
insieme agli avvocati con 50 e
60
anni di esercizio professionale, anche ai Magistrati di
Cassazione collocati a riposo
una
medaglia d’oro al termine di una carriera al servizio
dello Stato e del bene supremo
della
Giustizia.
Ai
Magistrati ci lega un rapporto che non è solo di
rispetto ma anche di affetto e di
comprensione per la terribile missione cui si sono
votati, costellata di dubbi e necessità
di
applicare una legge dura ma non di rado intimamente
avvertita come ingiusta nel
caso
concreto.
Lo
affermavamo nel nostro discorso di ringraziamento quando
nel 2004 ricevemmo
la
medaglia d’oro per i nostri primi cinquant’anni di
esercizio professionale e lo
ribadiamo ancor più oggi nel clima di tensione generale
determinato dal collasso del
sistema giustizia, così pernicioso per l’assetto
economico-sociale nel nostro Paese: non
possiamo sottrarci alla constatazione, lamentata da un
lato e dall’altro del fatidico
banco
iudicis,
di una
certa sempre più marcata reciproca insofferenza nel
rapporto tra Magistrati
e
Avvocati fondamentalmente conseguente, da un lato, a
quel rilevato abbassamento
di
livello delle due professioni e dall’altro ad una certa
arroganza del potere cui
si
contrappone uno scarso quanto nocivo rispetto per la
funzione del Giudice. Avvocati
e
Magistrati da sempre e per sempre siano
indissolubilmente legati in una comune
milizia.
E vera
e propria milizia è stata quella di valorosi Magistrati
come Vittorio Occorsio,
mio
indimenticato compagno di studi, Francesco Coco, Mario
Amato, Nicola Giacumbi,
Girolamo Minervini, Guido Galli, Antonio Scopelliti e,
vivissimi nel ricordo e
nell’affetto di tutti, Giovanni Falcone con la moglie
Francesca Morvillo e Paolo Borsellino,
caduti
sotto il piombo brigatista e mafi oso, martiri di un
Ideale di Giustizia al
servizio di uno Stato di diritto.
Qualcuno ha scritto: “infelice
il popolo che ha bisogno di eroi”,
ma più infelice quel popolo
che ne
disperde il ricordo e l’insegnamento. Ci sembra perciò
doveroso ancor più oggi
che la
violenza sembra di nuovo assalire le istituzioni,
ricordare, specialmente ai giova14
ni
assetati di punti di riferimento, quegli altri
Magistrati sui cui nomi si sta purtroppo
depositando la cenere del tempo, anch’essi vittime della
ferocia che ha insanguinato il
nostro
Paese: Vittorio Bachelet, Riccardo Palma, Girolamo
Tartaglione, Rocco Chinnici,
Emilio
Alessandrini, Fedele Calvosa, Agostino Planta, Pietro
Scaglione, Francesco
Ferlaino, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Bruno Caccia,
Gian Giacomo Ciaccio
Montalto, Alberto Giacomelli, Antonio Saetta, Rosario
Livatino il più giovane assassinato
dalla
mafi a.
Ma,
accanto a loro si stagliano le fi gure luminose dei
nostri Colleghi trucidati: Enrico
Pedenovi, Giorgio Ambrosoli, Fulvio Croce, ucciso il 28
Aprile 1977 dalle Brigate
Rosse
per aver voluto garantire il diritto di difesa
assumendo, come Presidente dell’Ordine
di
Torino, quella di uffi cio rifi utata da alcuni
brigatisti: anche l’Avvocatura in milizia
comune
ha pagato il proprio straziante tributo di sangue in
nome degli stessi Ideali.
A
tutti loro va dedicato l’epitaffi o scritto da Tucidide
per Pericle, padre della democrazia:
“giudicando
che la felicità è nella libertà e che la libertà è nel
coraggio, non guardate con ansia
il pericolo che vi recano i nemici”.
Nello
stesso tempo, questa consapevolezza di una comune
missione, minacciata da
un
potere politico-economico sempre più invasivo e
corruttore, sempre più insofferente
dei
legittimi controlli, deve rendere avvertita anche e
soprattutto l’Avvocatura,
sistematicamente emarginata dai centri decisionali del
Paese a causa della propria mancanza
di
coesione, piaga ricorrente da qualche tempo, purtroppo,
anche all’interno del
nostro
Ordine, deve rendersi promotrice di una sorta di
comitato di salute pubblica
che
unisca – come è già accaduto in passato sia pure per
breve tempo – in unità di
intenti anche la Magistratura, i giovani e tutte le
forze sociali solleciti del bene comune
per
individuare rimedi rapidi, semplici e poco onerosi,
idonei a curare e debellare il
cancro
della giustizia ingiusta.
Gli
ausili tecnologici sempre più sofi sticati e alla
portata di tutti, neppur lontanamente
immaginabili negli anni verdi della mia professione
possono e debbono essere
utilizzati a tal fi ne, ma anche per migliorare la
preparazione e la qualifi cazione dei giovani
avvocati, fi nalmente sottratti a mortifi canti forme di
sfruttamento.
L’Avvocatura in Italia e nel mondo ha subito un continuo
processo di evoluzione:
angolazioni impensabili solo qualche decennio fa (basti
por mente al c.d. Avvocato
d’impresa, agli studi multinazionali, alla informatica
giuridica, madre del processo telematico),
ma,
senza volerci atteggiare a laudatores temporis acti,
ammalati di nostalgico
e
retrivo conservatorismo, dobbiamo purtroppo registrare
che il distacco generazionale
–
normale in ogni tempo – separa oggi con sempre maggior
velocità i giovani dagli
anziani; sicché i primi, sollecitati dall’ effi
cientismo e dalla smania del successo, tipici
della
nostra epoca, sono già immersi nel futuro senza però
aver consolidato le radici
nel
passato.
Ma
l’uomo senza tradizioni è come pianta di breve vita,
destinata a soccombere alle
prime
folate di vento. L’Avvocato del terzo millennio, invece,
ancorché in Italia mutilato,
nella
maggior parte dei casi, del prezioso ausilio culturale
del latino e del greco, ha
necessità imprescindibile di tener sempre ben presente
il signifi cato non solo letterale
15
(da
tradere = consegnare, trasmettere, confi dare) ma
simbolico della parola tradizione,
l’autentico DNA del nostro essere che dobbiamo custodire
lontano dai falsi idoli per
trasmetterlo incontaminato ai posteri così come ci fu
confi dato dai predecessori.
Da
sempre e per sempre l’Avvocato (da
advocatus
=
chiamato a) è destinatario di una
missione, la più alta e la più delicata su questa Terra:
quella della affermazione e della
difesa
della libertà e della dignità dell’Uomo. Una missione
che non si esplica soltanto
nelle
aule dei Tribunali ma anche e – diremmo – soprattutto
nella società più intensamente
quanto
più questa ci si presenta opulenta, apparentemente
progredita ma in
realtà
soffocatrice degli ideali più puri, permanente
patrimonio dei giovani.
A loro
dunque dedichiamo questa nostra chiacchierata intorno al
caminetto, sperando
che
non si siano addormentati. Il premio a questa non lieve
fatica sia la speranza
di
aver consegnato ai gagliardi staffettisti forensi del
2000 un testimone valido perché
pregno
di un sentimento di amore per una professione che è la
più bella ed esaltante e
tale
può e deve rimanere se sapremo apprezzarne e difenderne
i valori fondamentali.
Salvatore Satta, insigne giurista e nostro iscritto, ma,
anche, profondo scrittore dal
grande
rigore morale, concludeva la sua stupenda autobiografi
a, «Il giorno del giudizio
», con
l’esortazione: «Per
coscienza bisogna svolgere la propria vita fi no in
fondo, fi no al
momento in cui si cala nella fossa. E anche allora
bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti
racconti a te stesso, e agli altri come in un giudizio
fi nale».
Lungi da noi la presunzione di volerci
anche
per un momento accostare ad un simile gigante, ci basti
l’aver indotto i nostri
amati
Colleghi a quel giudizio, a quella pausa di rifl essione
che ci aiuti a rispondere
all’interrogativo di sempre: chi siamo, donde veniamo,
dove andiamo, in una parola, a
conoscere noi stessi. Per essere migliori.
Virgilio Gaito
Avvocato del Foro di Roma
già Consigliere dell’Ordine degli Avvocati
PRESENTAZIONE
…c’è un cuore che batte nel cuore di Roma…
IL PALAZZACCIO: LA CASA DEGLI AVVOCATI ROMANI
icorre
quest’anno il centenario della inaugurazione del Palazzo
di Giustizia
(avvenuta l’11.1.11, che straordinario simbolismo!). La
storia di questo monumentale
edifi
cio, costruito con tonnellate di “marmo botticino”
proveniente dalle cave
di
estrazione esistenti nei pressi di Brescia (città natale
del Guardasigilli Zanardelli), è
ampiamente descritta nel primo Capitolo di questo bel
volume.
Il
Palazzaccio ha ospitato dapprima quasi tutti gli uffi ci
giudiziari romani (se si
escludono la Conciliazione e la Pretura) ma poi si è
andato via via svuotando a causa
dell’impossibilità di contenere tutti i plessi,
lasciando sostanzialmente il posto solo alla
Suprema Corte di cassazione ed a qualche altro Uffi cio
sconosciuto ai più (come, ad
esempio, il Tribunale superiore delle acque pubbliche).
Da
quell’11 gennaio 1911 trova sede presso il maestoso
edifi cio anche l’Ordine degli
Avvocati di Roma, l’Ente pubblico non economico che –
con i suoi oramai 24.000
iscritti – rappresenta l’Ordine forense più popoloso di
gran parte dell’Europa.
Se si
vanno a rispolverare gli annali di un secolo fa, e si
leggono i discorsi che furono
proclamati in occasione della solenne cerimonia di
inaugurazione del Palazzaccio, ci
si
avvede facilmente che a quell’epoca il rapporto tra Foro
e Curia era ben diverso da
quello
dei giorni nostri: era cioè un rapporto improntato a
stima e rispetto reciproci,
di
riconoscimento dell’importanza fondamentale dell’altrui
ruolo. Poi, però, l’aumento
spaventoso del numero degli avvocati e l’incremento di
quello dei giudici, unitamente
allo
scadimento di valori universali riscontrabile in ogni
settore della società civile, ha
rovinato quell’idilliaca relazione di vicendevole
ammirazione.
Ma
torniamo al 1911 ed al giorno dell’inaugurazione.
L’Avvocato generale dello
Stato,
Senatore Adriano De Cupis, nel suo discorso di saluto
ebbe a dire che nei giureconsulti
antichi “l’uomo
politico ed il giurista, il magistrato e l’avvocato,
trovano esempi plecari
di dottrina e di virtù. È una storia di secoli che con
essi ci si dispiega dinanzi; storia che c’invita a
cosa gloriosa, che dovrebbe essere il vaticinio
dell’Italia nuova: dominare ancora il mondo del culto
del
diritto”.
Il
richiamo alle tradizioni antiche, al diritto della
civiltà romana, costituiva la base
per
accomunare il giudice all’avvocato, uniti non solo dalla
stessa passione per la norma
e per
la verità, frutto di uno identico percorso universitario
di studi, ma anche legati
da un
sentimento di rispetto verso valori condivisi sui quali
fondare “l’Italia nuova”.
E sul
fatto che il Foro di Roma dovesse trovare degna
collocazione, mediante l’insediamento
dei
suoi Uffi ci ordinistici, all’interno del nuovo Palazzo
di Giustizia, non
c’era
dubbio alcuno, se è vero che l’allora Ministro di Grazia
e Giustizia e dei Culti, S.E.
R
18
Cesare
Fani (perugino anche lui), in occasione della solenne
inaugurazione del Palazzo,
affermò testualmente: “Ma
in questa solennità della giustizia sarebbe colpa in me
scordare l’Ordine
al quale io medesimo mi onoro di appartenere. Presidio
di libertà nei liberi reggimenti – l’Ordine
degli Avvocati – seppe nei tempi di oppressione
sollevarsi e resistere contro ogni maniera di tirannide.
Ma con i suoi studi, con la sua dottrina, con i suoi
giureconsulti che ne sono l’orgoglio, esso seppe altresì
dare a Voi un contributo perenne di sapienza e di lavoro
che fu di conforto e di guida nelle autorevoli
decisioni vostre. E a questa Curia, così preclara per
queste sue tradizioni, di cui serba vivo il ricordo
e l’onore, io, consegnandole in questo edifi cio la
nuova sua sede, in nome del Governo rivolgo il mio
migliore augurio e il mio cordiale saluto”.
Da
quel momento in poi gli Avvocati romani hanno trovato,
nel Palazzaccio, il loro
punto
di riferimento ordinistico, la loro casa.
A
nulla rileva che recenti cronache parlano di un
virulento attacco, fondato però – si
badi –
esclusivamente su diatribe di ordine individuale e
ruggini personali, volto a far
“sfrattare” l’Ordine forense capitolino dalla sua sede
storica ed originaria. Si tratta di
piccoli episodi di miserie umane, alimentati da coloro i
quali probabilmente non conoscono
neppure i fasti che l’Avvocatura romana ha avuto nel
corso del secolo. Fasti che
si
debbono all’opera laboriosa di menti eccelse. Insigni
giuristi, mirabili personalità, ingegnosi
artisti dell’eloquenza e del diritto, che la
magistratura – con tutto il rispetto che
si
deve nutrire per i rappresentanti di uno dei tre poteri
dello Stato – non può vantarsi
di
aver mai avuto nei suoi ranghi. Abbiamo avuto avvocati
che il mondo intero ci ha
invidiato, chiamati spesso contestualmente ad assumere
gravosi ruoli di responsabilità
nell’interesse della Patria. Uomini che spesso hanno
dato la vita per la difesa dei diritti
e
delle libertà, che hanno combattuto contro l’oppressione
ed il mendacio, avversando
poteri
occulti e sovente corrotti, dando un senso di umanità ed
al contempo di grandezza
eterna
alla toga indossata.
Penso,
tra gli altri, a Francesco Carnelutti, Giuseppe
Chiovenda (Consigliere dell’Ordine
dal
1915 al 1921), Vittorio Scialoja (Presidente dell’Ordine
dal 1913 al 1916 e poi,
dopo
essere stato Ministro, ancora dal 1920 al 1926),
Giuliano Vassalli (avvocato, professore,
parlamentare, ministro e infi ne Giudice della Corte
Costituzionale), Enrico De
Nicola
(reiscrittosi nel 1957 dopo aver lasciato il Quirinale),
Umberto Terracini, Leopoldo
Piccardi, Antonio Sorrentino, Edoardo Volterra, Giuseppe
Sabatini, Salvatore
Satta,
Arturo Carlo Jemolo, Francesco Santoro Passarelli,
Rosario Nicolò, Giuseppe
Ferri,
Antonio Stella, Aldo Sandulli, Filippo Ungaro
(Presidente dell’Ordine dal 1962 al
1967),
Gioachino Magrone (Presidente dell’Ordine dal 1954 al
1961), Remo Pannain,
Virgilio Andrioli, Carlo Fornario (Presidente
dell’Ordine dal 1968 al 1977), Massimo
Severo
Giannini, Adolfo Gatti, Giuseppe Valensise (Presidente
dell’Ordine dal 1978
al
1985), Pietro Agostino D’Avack, Giovanni Cassandro,
Mario Nigro, Elio Fazzalari,
Francesco Cossiga. E poi a tutti i grandi maestri
contemporanei, oggi fortunatamente
ancora
viventi, che con la loro opera, le loro imprese, la loro
oratoria, le loro difese
nel
penale, nel civile, nell’amministrativo, nel tributario,
inorgogliscono chi appartiene,
come
loro, al foro di Roma.
C’è
chi recentemente ha detto, pur non appartenendo al Foro
(e per questo merita
19
ancor
più rispetto) che “l’avvocatura come libera professione
non è un residuo fossile
di
un’epoca ormai tramontata. Che la più forte passione
civile, la sana ambizione di
servire la
res
publica, non è prerogativa del pubblico funzionario
imparziale ma può
nascere ed essere nutrita anche dalla passione
professionale, dall’amore per una libera
professione svolta in modo indipendente e combattivo”
(Borgna, Difesa degli avvocati,
Scritta da un pubblico ministero accusatore, Laterza,
2009). È vero: l’Avvocatura
concorre a pieno titolo ad attuare l’ordinamento
giuridico, perché è vera protagonista
nel
processo.
Gli
avvocati della città eterna, poi, sono gli eredi di
Cicerone il quale, sebbene fosse
nato
ad Arpino, era nel foro di Roma che esercitava la sua
nobile professione (iniziò
nell’anno 81 a.C., con la sua prima orazione pubblica,
la Pro
Quinctio). E sulla sua scia
hanno
continuato ad assumere le difese, a sostenere le ragioni
dei propri assistiti, a
chiedere la tutela dei diritti, indossando la toga, quel
“cencio nero” (come usava chiamarla
in
dialetto toscano Calamandrei) che ci nobilita e ci
distingue da tutti gli altri
professionisti.
Io non
so se gli avvocati di Roma siano più bravi (dei colleghi
delle altre parti d’Italia,
intendo), ma ne leggo negli occhi una passione
professionale profonda, forse in
quanto
consapevoli della storia che il foro romano ha dietro di
con sé, della tradizione
che è
obbligato a perpetrare, della responsabilità che porta
sulle spalle.
Ed
hanno diritto a mantenere la loro “casa” in quell’imponente
Palazzo di piazza
Cavour, loro consegnato dal Ministro nel 1911, per
almeno un altro secolo, e per quelli
ancora
a venire.
Rodolfo Murra
Consigliere Segretario
dell’Ordine degli Avvocati di Roma
|