Avv. Paolo Nesta


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“Cento anni nel Palazzaccio storia dell’Ordine degli Avvocati di Roma 20 giugno – 21 giugno 2011”

 

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Un’occasione da non perdere

 

a cura di Paolo Nesta

 

In occasione della celebrazione dei cento anni di storia degli Avvocati di Roma nel “Palazzaccio” che si terrà i giorni 20 e 21 giugno 2011 presso l’Aula Avvocati del Palazzo di Giustizia di Roma, secondo il programma riportato nella locandina, che segue, ho il privilegio  di riportare  l’introduzione del nostro Presidente Antonio Conte alla pubblicazione, che è stata redatta e che sarà distribuita in occasione di tale importante evento, nonché le prefazioni di illustri avvocati Manfredo Rossi, indimenticato e stimatissimo Presidente del nostro Ordine, Enrico Biamonti e Virgilio Gaito, già autorevoli ed apprezzati Consiglieri che hanno onorato e reso prestigioso il nostro Ordine, oltre  Rodolfo Murra, attuale Consigliere Segretario, che già si sta distinguendo per la sua dedizione e la competenza nell’espletamento dell’attività istituzionale.

 

Sicuramente i Colleghi non faranno mancare la loro massiccia partecipazione a tale evento epocale, che va a celebrare la nostra storia, permeata dai fulgidi esempi di insigni giuristi, che hanno ispirato la loro vita alla tutela di quei valori di giustizia, che costituiscono l’essenza di ogni società civile e  democratica.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

CENTO ANNI NEL “PALAZZACCIO”

1911-2011

ono certo di rappresentare il naturale sentimento di orgoglio che pervade i

tanti Colleghi – che hanno avuto, in anteprima, la notizia (e sono molti) – per

l’iniziativa dell’attuale Consiglio, di organizzare la celebrazione dei 100 anni dell’Ordine

degli Avvocati di Roma all’interno del “Palazzaccio” (prima di allora l’Ordine era

ubicato nei locali della Congregazione dell’Oratorio, in Piazza della Chiesa Nuova),

per consentire alle giovani generazioni di Avvocati di conoscere la meravigliosa storia

dell’Avvocatura Romana.

Tutto il Consiglio auspica che questo evento verrà “festeggiato” da migliaia di Colleghi,

perché la presenza dell’Ordine di Roma, all’interno del Palazzaccio, ha sempre

rappresentato un elemento di grande rilievo per tutta la Classe forense. Ne è prova

l’appassionata partecipazione di tutti gli Ordini forensi italiani quando vi fu una inspiegabile

“frizione”, oggi superata, con la Suprema Corte di cassazione, due anni or

sono. Da sempre, l’Ordine degli Avvocati di Roma è un punto di riferimento per tutti

gli Avvocati italiani che vengono a Roma per discutere innanzi alla Suprema Corte di

cassazione.

Basti ciò per spiegare l’importanza e il signifi cato di questi 100 anni.

E da allora, l’Avvocatura ha saputo trovare il rango che le compete e assumersi le

sue responsabilità, con coraggio e capacità, fronteggiando “il dramma” del tempo che

trascorre, che cadenza il declino inesorabile di una Amministrazione della Giustizia

sempre più carente, con l’Avvocato, che deve assolvere all’incarico difensivo, sempre

più tra mille diffi coltà, tutelando gli interessi del cittadino/cliente che vorrebbe giustizia

con successo e in tempi ragionevoli. Questo rende l’idea, con due semplici parole,

di quanto sia complesso oggi svolgere la nostra professione.

I Colleghi Consiglieri dell’Ordine sanno quanto è arduo l’impegno, per il nostro

Consesso, di aver avuto l’altissimo onore di organizzare e sacralizzare questo evento

eccezionale per la storia dell’Avvocatura romana.

Il grandissimo onore di un Consiglio che è consapevole dell’ineguagliabile valore

del patrimonio storico dell’Avvocatura romana, di cui oggi siamo eredi e, quindi, della

responsabilità che ci spetta di mostrarcene degni custodi e continuatori. Mai dimenticando,

però, l’ampiezza di orizzonti che ha animato gli spiriti più altamente rappresentativi

del genio dell’Avvocatura romana.

Ripeto, è un compito arduo, che ci emoziona fortemente, perché dobbiamo consegnare

il testimone di una vita intemerata al servizio di un ideale supremo di giustizia e

libertà per continuare le luminose tradizioni dell’Ordine forense romano.

I prossimi 20 e 21 giugno 2011, saranno giorni in cui gioia e commozione si intrec-

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ceranno e, forse, ci sovrasteranno, ma vicino a noi avremo sicuramente le centinaia

di Grandi Avvocati che ci hanno preceduto e che hanno reso la nostra, la regina delle

attività: la professione forense.

Tanti anni fa, Pasquale Stanislao Mancini, acclamato primo Presidente del Consiglio

dell’Ordine degli Avvocati di Roma, nel discorso di insediamento così tratteggiava la

fi gura dell’Avvocato: “quanto poco all’esperienza addimostrata suffraghino l’ingegno e gli studi

senza la prima virtù, una probità a tutta prova riconosciuta e rispettata dalla pubblica opinione, una

perpetua e costante volontà di attribuire a ciascuno il suo, di dimenticare sempre ed in tutte le occasioni

se stesso, ed ogni utilità della sua persona, della sua casta, del suo partito, per rendere unicamente e

perennemente omaggio alla grande ed eterna idea della Giustizia”.

Così come, tanti anni fa, M.K. Gandhi diceva: “Mi resi conto che la vera funzione dell’Avvocato

è di unire parti che si sono disunite; la lezione s’impresse così indelebilmente in me che occupai

gran parte del tempo per ottenere compromessi privati in centinaia di casi. Non ci persi nulla, neppure

denaro, certamente non l’anima. Io sono un avvocato”.

Ed infi ne, ancor mille e mille anni prima, l’Avvocato per eccellenza, Marco Tullio

Cicerone, defi niva così la Categoria dell’Avvocatura: “Non solus nostro imperio militare

credimus illos qui gladiis, clypeis et thoracibus nituntur, sed etiam Advocatos. Militant namque causarum

patroni, qui gloriosae vocis confi si munimine, laborantium spem, vitam et posteros defendunt”.

“Nel nostro impero non crediamo che militino solamente coloro che sono armati di spada, di elmo

e di scudo, ma pure gli Avvocati. Poiché militano i patroni delle cause, i quali con la loro voce gloriosamente

difendono la speranza dei miseri, la vita ed i posteri”.

Noi siamo gli eredi di tutto ciò.

Dobbiamo esserne degni.

Grazie.

Antonio Conte

Presidente del Consiglio

dell’Ordine degli Avvocati di Roma

 

AVVOCATURA: ESPERIENZE E PROBLEMI

Le vicende del nostro Consiglio, con il susseguirsi delle sue varie composizioni

e con la sua storia così fortemente radicata nel Palazzo di Piazza Cavour, è

stata tracciata da Virgilio Gaito con cura scrupolosa e con la passione che da sempre

lo contraddistingue.

È un testo che rimane e al quale si potrà sempre ricorrere per informarsi e documentarsi.

È forse solo il caso di riprendere il discorso che riguarda questi ultimi anni e

non tanto per rievocare fatti e persone, che è da supporre cogniti alla grande maggioranza

dei Colleghi, quanto piuttosto per toccare argomenti che attengono direttamente

alla stessa funzionalità dell’istituzione. Non senza, aggiungo subito, qualche cenno al

passato che ritengo aderente al tema.

Intanto, una breve rifl essione sulle origini e su quanto, a mio avviso, ne consegue.

Che la nostra cultura istituzionale sia consiliare, non può revocarsi in dubbio e sarà

bene ricordarlo agli ignari, veri o fi nti che siano. La sua tradizione sarà pur francese,

saggiata beninteso da secoli di vita, ma Giuseppe Zanardelli, che ne ha curato lo stesso

impianto legislativo, ha avuto la soddisfazione di constatarne la piena riuscita.

Segno dei tempi venuti a maturazione e di esigenze insopprimibili che individuavano

nell’Ordine una realtà che esprimeva la libertà dell’Avvocatura con relativa sua

autodisciplina e connesso suo governo affi dato al Consiglio eletto dal voto dei Colleghi

tutti. Questa particolare collocazione dell’Ordine ne sottolinea tuttora la specifi cità

sullo stesso piano concettuale.

Sappiamo tutti e lo sappiamo bene che l’Ordine, proprio perché tale, non è una

semplice associazione, che non sorge a guisa di un inquadramento coatto e che non è

neppure una sorta di mutua o di sindacato.

Giusto per tenerlo a mente, non è una semplice associazione perché coinvolge l’intera

categoria e d’altra parte non ha a che fare con una sorta di inquadramento coatto,

a smentir la quale ipotesi sarebbe suffi ciente ricordare la costante e massiccia partecipazione

alle elezioni del Consiglio, perfi no a quella indotta post-commissariamento,

allorquando particolari e apprezzabili ragioni indussero consistenti ed autorevoli voci

della nostra Avvocatura romana a consigliare l’astensione dalle urne.

Ma non è neppure un sindacato e tanto meno una mutua – pur non disinteressandosi

certo dei problemi materiali della categoria – perché, per dirla in due parole, va

oltre e ha di mira l’inserimento dell’Avvocatura, curandone il ruolo, nell’ambito della

società. Un antico detto – “né Stato né mercato” – ci ammoniva austeramente a salvaguardare

l’esigenza primaria della nostra indipendenza esterna ed interna.

Come stanno in effetti le cose, oggi come oggi? A mio personalissimo giudizio,

tutto sommato, direi che reggono.

Non mi risulta che l’Avvocatura romana si sia resa mancipia dello “Stato”, e dunque

del pubblico potere. Al contrario, non mi pare proprio che si possa parlare di una

qualsivoglia sudditanza del nostro ceto forense romano ad imposizioni o comunque direttive

dall’alto, ferme restando ovviamente le libere ed insindacabili opinioni politiche

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individuali. Il fenomeno, chiamiamolo così, dell’avvocato parlamentare che agisce su

due scacchieri intercomunicanti in reciproca spola (dove non arriva l’uno, arriva l’altro

a rincalzo) non ci riguarda, concernendo eventualmente altri Consigli.

Quanto al “mercato”, è chiaro che il dilagare incontenibile del fattore economico e

della spinta pubblicitaria un qualche effetto lo hanno inevitabilmente prodotto.

Importante sarebbe, ovviamente, preservare la propria autonomia rifi utando o manifestando

aperto dissenso rispetto a talune esigenze formulate dal committente in

contrasto con i nostri canoni e soprattutto con il nostro motivato parere. Il che, certo,

non è facile, specie in tempi di crisi e di fabbisogni che incalzano e che vanno comunque

soddisfatti.

Caso mai, e il discorso riporta direttamente al rapporto con la politica e con taluni suoi

esponenti, si desidererebbe maggiore trasparenza negli affi damenti di grossi e lucrosi incarichi

da parte del parastato, tanto più se sotto forma di consulenze permanenti.

Che ci sia un deterioramento, lo si avverte ma non potrebbe essere diversamente

in presenza di un Ordine, il nostro, che annovera oltre 23.000 iscritti e punta inarrestabile

al traguardo dei 30.000 ed oltre, senza poi parlare dell’incalcolabile numero dei

praticanti.

Lo so anch’io che Calamandrei, ormai temporibus illis, ha scritto contro l’Albo chiuso,

ma ritengo scarsamente probabile che persisterebbe nello stesso parere.

Ancora una ventina di anni fa, la situazione era governabile. Sovviene, se mi è consentito,

il ricordo personale. Quando, nell’88, sono stato eletto Consigliere, presiedeva

Carlo Martuccelli, con grande perizia e riconosciuto equilibrio.

Vi era una sostanziale compattezza fra tutti noi e i lavori procedevano con giusta

alacrità e senza l’assillo del momento.

Quando, nei due bienni successivi, sono acceduto alla Presidenza grazie alla fi ducia

dei Colleghi, ho benefi ciato dello stesso clima (migliore nel secondo rispetto al primo,

come del resto è normale perché il mestiere s’impara e i reciproci rapporti si consolidano

col tempo).

Ricordo solo, per rimanere in argomento, che mi sono accorto, apponendo la fi rma

ai tesserini dei nuovi Colleghi che via via venivano ad ingrossare le nostre fi la, del

progressivo loro aumento sia in assoluto che in relazione alle normali quote annuali.

Così pure mi sono reso conto della componente femminile in costante incremento.

Argomenti sui quali si fa presto a discettare alla buona tra amici e conoscenti e che

tuttavia si imprimono con crudezza nella mente solo allorquando se ne vede scorrere

l’inesorabile documentazione sotto i propri occhi.

Accennare all’aumento impressionante dei partecipanti all’esame è poi francamente

superfl uo e ne vediamo la traduzione pratica alla semplice consultazione dell’Albo, che

ormai, quanto a mole, se la batte con l’elenco telefonico.

Cosa è successo dopo, era scritto, a mio giudizio, in questa specie di legge bronzea

dell’incremento numerico. Reggere il Consiglio e governarlo è divenuto allora non solo

sempre più diffi cile, ma direi anche e soprattutto faticoso.

Il breve interregno di quel gran signore che è stato Massimo Frattali Clementi è

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sfuggito di misura, per sua benigna e meritata sorte, al diluvio di cui erano gravidi i

nuvoloni in agguato.

La faticosità di cui accennavo ha ingenerato diffi coltà di fare fronte alla situazione

via via in corso di rapido deterioramento, con manifestazioni di scollamento dovute

alla fermentazione inevitabile di difformità di vedute quanto alle modalità con le quali

ovviare alla bisogna. Dal che l’affi orare di crepe nella solidarietà imposta dal comune

operato, con i rifl essi esterni di competizioni esagerate fi no a giungere a campagne

elettorali solcate da personalismi fuori luogo e senza autocontrollo.

Immaginabile la ripercussione a cascata nei mandati susseguitisi. Sia ben chiaro che

nessuno ha il diritto di lasciarsi andare ad espressioni di voto di natura soggettiva e

squisitamente persone, perché è proprio la situazione oggettiva venuta prepotentemente

alla luce che, con la rottura di tutte le paratìe stagne che fi no allora, bene o male,

avevano sorretto la diga, a rendere estremamente diffi coltoso il governo dell’Ordine.

Certe situazioni vanno vissute dall’interno per poterle convenientemente valutare,

al di là di troppo invitanti censure.

Sta di fatto che Lubrano, nonostante tutto il suo impegno, è stato il primo a dovere

fare i conti con questo stato di cose, tant’è che le componenti consiliari divenute reciprocamente

ingestibili hanno condotto alla dolorosa e certo non esaltante pagina del

commissariamento.

La reazione della categoria, tornata in massa alle urne – l’ho già accennato – dimostrando

così il proprio attaccamento all’istituzione e il desiderio di cancellare la pagina

quanto meno imbarazzante, è sfociata nella Presidenza Bucci, circondata da legittima

curiosità per le particolari vedute spesso esternate dall’interessato e manifestate nero

su bianco nel suo programma di governo.

Uno stato di cose tuttavia che ha però retto solo per poco all’urto di forti sezionalismi

culminati con la defl agrazione della sua stessa maggioranza e, di conseguenza, con

la Presidenza di Alessandro Cassiani.

Le ultime vicende, con una competizione ormai a tutto campo, le conosciamo bene

e si può ben dire, ricollegandosi a quanto poc’anzi osservato, che ancora una volta la

diffi coltà estrema della situazione oggettiva ha fatto aggio sulla passione e sull’impegno

sempre profusi dai Presidenti e dai Consiglieri.

Ora, il governo è nelle mani di Antonio Conte, fi glio d’arte ed espressione schietta

della nuova generazione.

Ha un compito diffi cile ma lo sta affrontando con un piglio e con una decisione che

incoraggiano fondatamente a bene sperare e di cui è già dato constatare i primi risultati.

Va sostenuto con una consapevolezza piena e consapevole e non già per ripetere il

“nutriamo fi ducia” di factiana memoria (Facta, per i più giovani che non sono tenuti

ad averne memoria, è quel buontempone di Presidente del Consiglio, che il 27 ottobre

del ’22, per l’appunto, “nutriva fi ducia” che una maggioranza parlamentare aggrovigliata

nelle sue reciproche contorsioni potesse ancora tirare avanti benché Mussolini

avesse già appoggiato il piede sul predellino del vagone-letto che l’avrebbe condotto a

Roma per accettare dal Re, dal canto suo indisponibile alla fi rma dello stato d’assedio,

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l’incarico governativo e benché le squadre d’azione fossero già concentrate a Perugia

in patente ostentazione minatoria). Che il nostro Ordine allora – è questo l’auspicio –

riprenda il suo pieno vigore, riorganizzi le fi la e proceda nella marcia con meticolosità,

compattezza e decisione.

Si preoccupi soprattutto della compattezza, Conte, e non demorda in proposito,

con tranquilla ma infl essibile energia.

È importante l’esempio dell’Ordine romano, a confutazione di coloro che ormai

troppo sovente sdottoreggiano sulla supposta inutilità e sulla asserita necessità di eliminare,

nientemeno!, lo stesso Ordine forense in quanto tale, in nome di non sa bene

quale “liberalizzazione”, quasi che la società civile, proprio per assicurare il libero e pieno

dispiegarsi di tutte le sue potenzialità, non debba contare su questo fondamentale e

secolare corpo intermedio.

Manfredo Rossi

 

 

Due premesse:

A) Quando nel dicembre 2009, in occasione della consegna delle medaglie,

fui richiesto di fare un intervento a nome degli avvocati iscritti all’albo da settanta anni,

l’allora Presidente Alessandro Cassiani non ebbe diffi coltà nella scelta: ero io l’unico

avvocato ancora iscritto all’albo dal 1939!

B) Ho sempre cercato, anche nell’esercizio della professione, di valermi del dono

della sintesi e di seguire nella forma e nella forza della lingua latina del detto “rem tene

verba sequentur”. Spero anche questa volta di non deludere il lettore.

1) Come risulta dal volume pubblicato nel 1995, ideato e curato dal caro amico Virgilio

Gaito, ho fatto parte del Consiglio dell’Ordine dal 1964 al 1969 sotto la presidenza

i primi quattro anni di Filippo Ungaro e di Carlo Fornario negli altri due. Entrambi mi

hanno sempre voluto bene ed hanno sopportato la mia attiva, talora alquanto movimentata,

partecipazione alle sedute. Mi fa piacere in questa occasione ricordare le due

personalità che hanno saputo presiedere il Consiglio con quell’equilibrio che è necessario

soprattutto in una riunione di persone di diverso carattere.

Ricordo. Filippo Ungaro, grande avvocato penalista; mi sorprese in alcune occasioni

la rapidità con la quale centrava il punto della questione in discussione, specie

nei casi con rifl essi disciplinari, prima ancora di aver esaminato tutto il fascicolo. Mi

sia permesso a questo proposito di far cenno ad un episodio faceto: presidente in

una udienza di un processo disciplinare, evidentemente in un momento di stanchezza,

sembrò assopirsi; sollecitato dal segretario Valensise che gli era vicino aprì gli occhi e

fece una domanda all’avvocato incolpato come se avesse seguito tutto lo svolgimento

del processo. Io gli fui vicino fi no a quando è mancato. Di carattere diverso, ma pari

a lui nell’equilibrato metodo di presiedere, è stato Carlo Fornario che ben conoscevo

precedentemente alla mia nomina. Anche lui sempre tranquillo aveva l’abilità di conciliare

le varie opinioni dei consiglieri e di trovare il quid novi per una soluzione accettabile

almeno dalla maggioranza, e ci riusci va quasi sempre: abilità di Presidente. Lavoratore

intenso iniziava la sua giornata molto presto per presenziare le udienze, soprattutto di

Cassazione, e passare poi molto tempo presso il Consiglio. Due episodi posso ricordare

se la memoria non mi fallisce. Il primo, durante una seduta io mi ero accapigliato

con un collega – al quale peraltro ero legato da stima ed amicizia – Carlo Fornario,

che mi voleva bene, mi disse “Enrico, adesso basta!”. Entrambi i contendenti tacquero.

L’altro episodio, che per me è particolarmente lusinghiero, quando non era più in

grado di presiedere l’udienza, per ragioni di salute, mi chiamò e mi pregò di sostituirlo

nella trattazione di un ricorso in Cassazione. Con vivo rimpianto non ricordo se feci in

tempo per comunicargli l’esito. Un pensiero particolare va a Ottorino Petroni, avanti

negli anni, esperto conoscitore della materia penalistica di carattere commerciale e

fallimentare.

2) Le materie che ho sempre preferito come membro del Consiglio dell’Ordine

erano due alle quali (perdonatemi l’elogio di me stesso) mi sono molto dedicato: la

disciplina e i rapporti con le avvocature straniere. Quanto alla disciplina è stato sempre

l’argomento attinente alla professione che ho considerato e considero tutt’ora come

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fondamentale perché l’Avvocatura mantenga o, se volete, riprenda quel prestigio che

deve qualifi carla nei riguardi di ogni altra professione. Senza una legge scritta data la natura

del tutto particolare la professione forense se non segue le regole della sua etica perde

quei caratteri che devono contraddistinguerla. Specie in un tempo in cui nella società i

valori autentici sembrano tanto deceduti. Purtroppo gli avvocati iscritti all’albo, di cui

una parte non esercita, sono troppi e non è facile il controllo. Anche qui mi sia permesso

un ricordo che riguarda la mia persona. In considerazione del mio metodo di istruire le

pratiche disciplinari – da alcuni colleghi considerato troppo severo – mi fu proposto di

lasciare la direzione di quella materia e di occuparmi della parcellazione: rifi utai decisamente

quest’ultima proposta. Nel campo della rappresentanza internazionale credo di

aver fatto quanto era nelle mie capacità per far conoscere le regole ed i pregi dell’avvocatura

italiana e collaborare con le varie istituzioni estere. Era un momento particolarmente

importante: la regolamentazione in sede europea del principio comunitario riguardante la

“libera circolazione” degli avvocati e il “diritto di stabilimento”. Fu necessario superate

le diffi coltà connesse con le discipline dei vari paesi, specialmente quelli di “Common

Law”. Partecipai anche allo studio di altra materia di diritto europeo in una commissione

istituita dell’Unione Internazionale degli avvocati riguardante il Diritto Societario, commissione

che dette notevole impulso alla cosiddetta “armonizzazione” delle leggi dei vari

paesi e fu apprezzata dalle Autorità della Comunità.

3) A questo punto devo purtroppo soffermarmi su una nota molto amara: l’attuale

situazione della giustizia in Italia. L’argomento fu oggetto del breve intervento che io

feci nel dicembre del 2009, sopra menzionato. Dissi allora e purtroppo non posso che

ripetere oggi: quello che sta succedendo in Italia nei riguardi dell’amministrazione della

giustizia è veramente umiliante. Con una magistratura che nella sua grande maggioranza

ritengo sia pronta a compiere il suo dovere consapevole delle diffi coltà, e talora

anche con sacrifi cio, le meschine polemiche oggetto di dissidie menomano fortemente

il ruolo dell’istituto della Giustizia. Si dimentica che trattasi di una materia del più alto

livello umano, intellettuale e morale che è molto vicino alla “verità” in particolare in

un paese che nella sua grande maggioranza crede nelle virtù cristiane. Su questo argomento

valga peraltro una nota positiva: che soprattutto i giovani pratichino quella virtù

che si chiama SPERANZA, che signifi ca anche volontà di far sì che la Giustizia torni

al livello che l’umanità richiede per la sua vita futura.

4) Chiudo per esprimere anche in questa sede il mio disappunto riguardante quello

che io stimo il pessimo costume giornalistico di trattare a lungo in modo talora sconveniente

i processi in corso, in particolare quelli ancora in istruttoria. Il processo è

di spettanza di Magistratura e Avvocatura, non deve avere una pubblicità preventiva

certamente nociva alla scoperta della verità. È da auspicare che soprattutto i giovani

combattano la buona battaglia per il mantenimento di quei valori che pur adattati alle

esigenze del tempo sono la garanzia del prestigio delle due Istituzioni.

Enrico Biamonti

 

 

PREFAZIONE

AVVOCATURA, UN AMORE INESTINGUIBILE

more, una parola troppo importante per una prefazione: eppure il mio cuore

di Avvocato ottantunenne ma non vecchio, non imputabile di adulterio verso

la più bella professione del mondo, mi ha suggerito di mantenerla anche per questa

chiacchierata intorno all’edizione aggiornata del libro “Avvocati a Roma”, da me ideato

e curato sul fi nire degli anni 80 del secolo scorso per ricordare soprattutto alle giovani

generazioni la luminosa storia del nostro Ordine.

Quando, nel lontano autunno del 1951, alla verde età di 21 anni, fi ero della mia

laurea con il massimo dei voti, mio Padre mi accompagnò nello studio degli avvocati

Bruno e Roberto Ascarelli per iniziare la pratica forense, quegli illustri professionisti

che sarebbero stati impareggiabili maestri di diritto e di vita, con mio grande stupore

e malcelata frustrazione, non si informarono tanto sui miei studi, ma mi chiesero se

godessi di buona salute perché “questa professione – dissero – si fa soprattutto con i

piedi e, talvolta, anche col cervello”. Un duro impatto con la realtà per me che uscivo

dall’Università dove la mia mente si era arricchita delle sublimi teorie del negozio giuridico

e dell’ermeneutica elaborate dal mio sommo Maestro Emilio Betti.

Ma un colpo ancora più duro ai miei sogni di emulo di Cicerone mi fu dato il giorno

dell’ingresso nello studio dove il mio Maestro mi aveva consegnato gli atti di un giudizio

di conciliazione chiedendomi di preparare una comparsa di costituzione dove avrei

trasfuso le argomentazioni da sostenere l’indomani in udienza. Ricevuta l’approvazione

del mio primo elaborato, una segretaria severa e sbrigativa mi ordinò di preparare

il fascicolo per l’udienza del giorno dopo mettendomi in mano un ago da materassaio

ed uno spago sottile per trapassare a regola d’arte i vari atti e documenti ben separati

per poi legarli elegantemente alle copertine del fascicolo. Alla mia timida obiezione

che quello fosse un lavoro da segreteria, quella persona – che sarebbe stata poi mia

preziosa consigliera e collaboratrice per oltre mezzo secolo e tuttora – mi rispose che

un Avvocato deve sapersela sempre cavare anche da solo e che i giudici appressano gli

Avvocati non solo per le loro tesi ma anche per l’ordine e la dignità con cui presentano

i propri fascicoli oltre che sé stessi. E, da allora, stoiche lotte contro le micidiali trafi tture

dell’ago e, in udienza, giacca e cravatta anche col solleone.

E l’amore, dapprima incerto perché denso di diffi coltà connesse all’inesperienza

e alla delusione per sentenze ingiuste, divenne sempre più intenso ed appassionato

sull’onda dei successi e delle battaglie di libertà sostenute con tanti miei giovani Colleghi,

spesso da avversari divenuti amici, e insieme protesi ad affrontare e tentare di

risolvere, attraverso la fondazione dell’associazione italiana dei Giovani Avvocati, gli

annosi e, purtroppo, cronicizzati problemi della crisi della giustizia e della riforma della

legge professionale.

A

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Eletto in seno al Consiglio dell’Ordine per un primo biennio, quando ebbi l’onore

di sedere al fi anco del compianto Maestro Virgilio Andrioli, vi ritornai alcuni anni

dopo per altre due legislature in rappresentanza dell’AIGA per prestare un servizio

ancor più effi cace al nostro Ordine.

Incaricato della direzione del Notiziario, gli diedi nuova veste come “Foro Romano”

di maggiore interesse anche culturale e, desiderando offrire ai Colleghi un numero

unico dedicato al quarantennio della nostra gloriosa pubblicazione, mi accinsi

all’improba fatica che si è estesa a ritroso nel tempo fi no alla nascita stessa del nostro

Consiglio dell’Ordine, scoprendo, con legittimo orgoglio, che di esso, nei primi anni

del XX secolo, hanno fatto parte giuristi insigni come Giuseppe Chiovenda, Enrico

Ferri, Carlo Schupfer, Vittorio Scialoja Vittorio Emanuele Orlando, antesignani dei più

recenti nostri iscritti, tra i tanti illustri giuristi, Arturo Carlo Temolo, Salvatore Satta,

Virgilio Andrioli, Cesare Tumedei, Michele Giorgianni, Enzo Gaito, Franco Coppi.

Grazie anche alla preziosa collaborazione dell’ottimo Direttore di Segreteria dell’epoca,

dottor Franco Verrecchia, e del personale tutto, destinatari della mia riconoscenza

imperitura, il numero unico vide la luce come libro intitolato “Avvocati a Roma”,

arricchito anche da un massimario disciplinare di grande interesse anche storico, curato

dall’ora Avvocato Simone Ciccotti.

Attraverso le numerose massime raccolte emerge l’infl essibile rigore del Consiglio

nel vigilare sul corretto esercizio della nostra professione nei rapporti con il cliente,

con i Colleghi, con il pubblico, con la stampa e con i Magistrati. Suscitò apprezzamento

ma anche critiche la sanzione infl itta ad un nostro Collega, censurato per aver preteso

un compenso dalla famiglia di un rapito dalla malavita per l’opera da lui svolta per ottenere

il rilascio della persona sequestrata, mentre sarebbe stato suo dovere esercitare

gratuitamente il proprio munus in ossequio alle altissime esigenze di solidarietà umana

cui l’Avvocato era tenuto in quel particolare momento.

Un libro che, arricchito da articoli di grande respiro anche letterario e umano fi rmati

dai colleghi Claudio Schwarzwenberg, Umberto Mariotti Bianchi e Mauro Mellini,

ha consentito ai pazienti lettori di gettare uno sguardo anche sul mondo della giustizia

amministrata sotto i Papi, oggetto delle satire feroci del Belli le cui più gustose inserimmo

insieme a quelle di Trilussa illustrandole con le caricature del Daumier.

E la storia del nostro Ordine si è snodata in un grande intreccio di eventi, lieti e

tragici come gli anni di piombo, personaggi entrati nella storia, delibere signifi cative.

Ma il tempo scorre inesorabilmente e l’attuale Consiglio, presieduto da Antonio

Conte, fi glio di quel mio carissimo e stimato Amico e Collega Emilio, prematuramente

rapito al nostro affetto, ha deciso, anche come contributo alle celebrazioni del 150º

anniversario dell’Unità d’Italia, di pubblicare una seconda edizione aggiornata di quel

libro, del quale sono stato onorato di curare la prefazione.

E mi fa particolare piacere additare alla gratitudine dei lettori, specie dei più giovani,

l’intelligenza e l’amore prodigati in questo diffi cile lavoro dalla giovane Collega Simona

D’Alò, anch’essa, come me, fi glia d’arte e perciò, accesa di amore inestinguibile per

questa straordinaria professione. Ella ha curato, non solo la sintesi dei lavori del con11

siglio degli ultimi 15 anni, ma anche la cronaca dei più famosi processi svoltisi fi nora

nella Capitale nei quali i più famosi penalisti non solo del foro romano ma anche di

altri, hanno avuto modo di spiegare le loro eccellenti doti oratorie ottenendo risultati

anche clamorosi in quel Palazzaccio, divenuto dagli inizi del XX secolo, l’emblema

della Giustizia, oscurata peraltro quando ospitò il famigerato Tribunale Speciale le cui

sentenze capitali già scritte eliminarono antifascisti ed ex gerarchi caduti in disgrazia.

E la travagliata storia della sede storica del nostro Consiglio, ora defi nitivamente

stabilita per legge dello Stato fortemente voluta dai recenti Consigli, ci viene pure illustrata

da Simona insieme all’ingresso della donna nella vita politica e forense, dapprima

timidamente e, con molta ostilità, superata oggi vittoriosamente, grazie alla serietà

dell’impegno ed alle eccellenti doti di preparazione e morali dimostrate dal gentil sesso

che da sempre considero la parte migliore dell’universo.

Un affettuoso ricordo desidero rivolgere alla memoria di Gabriella Niccolaj, illustre

penalista, prima componente femminile del nostro Consiglio, che mi fu prodiga di incoraggiamenti

durante la mia prima esperienza di giovane Consigliere.

La seconda edizione della nostra storia consiliare si arricchisce dunque dell’encomiabile

lavoro svolto da Simona D’Alò nella quale ho sentito con commozione palpitare

le stesse emozioni da me provate quando mi accinsi alla mia certosina ricerca tra

libroni polverosi dei verbali dei Consigli scritti a mano con inchiostro divenuto rosso

col tempo ma trasudante passione, polemiche, riconciliazioni ma sempre tanto rigore

morale e rispetto dei diritti e della dignità di tutti.

Desidero pertanto, insieme a lei, far vibrare le corde più sensibili specie dei giovani

ai quali anche questo secondo libro di storia forense romana è dedicato come testamento

spirituale di un Avvocato anziano ma non vecchio, dal cuore giovane e, per questo,

inestinguibilmente innamorato della sua professione svolta con coscienza e onestà.

Tra quei ricordi le parole affettuosamente ironiche rivolteci dal Sommo Pontefi ce

Paolo VI in occasione della visita in Vaticano resaGli dagli Avvocati di mezzo mondo

convenuti a Roma per un Congresso dell’Union Internationale des Avocats. Papa

Montini, che era fratello di un illustre Avvocato, ci ricordò il giudizio che di noi aveva

espresso Sant’Ivone, nostro protettore: “Advocatus sed non latro, res miranda populo!”.

Un giudizio che ab immemorabili si contrappone sotto qualsiasi latitudine all’immagine

del defensor libertatis atque iustitiae quasi come le due facce della stessa medaglia e che

ha nutrito divertita e divertente letteratura poiché “dell’Avvocato è più facile dirne male che

farne a meno”.

Forse, a ben rifl ettere in termini psicoanalitici, nei nostri Clienti, nel momento stesso

in cui pronunciano quella fatidica espressione: “ho messo tutto in mano all’Avvocato!”,

si scatena una sorta di confl itto interiore tra l’essersi liberati da un incubo ed il dover

riconoscere la propria incapacità a risolverlo se non attraverso questo esperto di latinorum,

male necessario e costoso da contrapporre – si spera – vittoriosamente al Giudice

terrifi cante e implacabile.

Anche se i maligni sogliono affermare che il primo Avvocato apparso sulla terra fu

il serpente che, da sprovveduto “mozzorecchi” – come certi legulei vengono chiamati

12

a Roma – pensò bene di indurre la malcapitata Eva a cogliere il frutto proibito, ci piace

argomentare a contrario sulla scia di illustri pensatori – che, se quel catastrofi co consiglio

privò i nostri progenitori e noi posteri delle delizie del giardino dell’Eden, tuttavia esso

diede loro coscienza del libero arbitrio. E non è poco!

Gli è che, come scriveva Piero Calamandrei, Avvocato e Giurista insigne: “L’Avvocatura

non è professione facile; può essere un mestiere; può essere un apostolato. Può essere un tormento,

ma può essere anche felicità. Vita faticosa, vita combattuta; ma, se uno si convince che l’unico conforto

della vita così breve è quello di prodigarsi per gli altri, allora l’Avvocatura è una professione invidiabile

e felice.

In quel sublime “prodigarsi per gli altri” in cui si condensano responsabilità, preparazione,

onestà intellettuale, dedizione, ardimento, ricerca inesausta della verità, ma,

soprattutto, amore sconfi nato verso il prossimo bisognoso del nostro aiuto, è infatti

l’essenza della nostra professione, chiamata sovente alla tutela di beni materiali, ma ben

spesso a scendere nel profondo dell’animo umano per capire e saper rappresentare ad

un Giudice inconsapevole e distaccato le scaturigini di certi comportamenti nell’auspicio

di una sentenza giusta.

E quel “tormento”, legato non sempre all’estasi della vittoria, ma piuttosto allo

sconforto per la sconfi tta, specie se imputabile ad una nostra inappropriata difesa, ci

pone a confronto con quegli altri esseri umani che hanno scelto di assidersi sull’alto

scranno del Magistrato, investiti di un potere terribile, quello di giudicare altri loro simili

segnandone talvolta in modo irreparabile il destino proprio e dei loro affetti.

Ancora Piero Calamandrei, nell’Assemblea del Sindacato Nazionale degli Avvocati

e Procuratori di cui era Segretario Nazionale tenutasi a Roma il 21 Agosto 1943, rivendicava

la necessità che la Magistratura sia sempre indipendente dal potere politico

e, ad un tempo, soleva ripetere ai suoi studenti: “le professioni di Magistrato e di Avvocato

sono come vasi comunicanti: quando si abbassa il livello dell’una, fatalmente si abbassa anche quello

dell’altra!”.

E l’esperienza quotidiana di oltre mezzo secolo di vita giudiziaria ce lo conferma,

insieme al dramma della crisi della Giustizia e dell’edilizia giudiziaria da noi sofferto

sin dagli albori della professione con la profonda frustrazione di non poter assicurare

ai nostri patrocinati una conclusione rapida, certa, non economicamente rovinosa, ma

soprattutto giusta, delle loro vicissitudini.

È ben per questo che Carlo Fornario, amato Presidente del nostro Ordine, accolse

la proposta di Tommaso Bucciarelli, illuminato idealista creatore anche dell’Associazione

Italiana dei Giovani Avvocati, di dar vita a Roma, sull’esempio della secolare

parigina Confèrence du Stage – prestigioso torneo di eloquenza – alla Conferenza dei

Giovani Avvocati della quale abbiamo l’orgoglio di aver inventato uno statuto con lo

sguardo rivolto ad un’Avvocatura italiana sprovincializzata e capace di reggere le sfi de

del futuro in una dimensione universale.

Da essa, a partire dal 9 Gennaio 1968, quando la I Conferenza fu tenuta a battesimo

nel nostro Palazzaccio dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, sono stati

selezionati, nel corso di quarantadue anni, le migliori promesse del mondo forense ro13

mano confermatesi tutte Avvocati di spicco. E non è piccolo orgoglio considerarli tutti

miei fi gli in spirito di una famiglia sempre più numerosa e affermata anche all’estero:

l’Ordine di Roma, unico in Italia, può essere legittimamente orgoglioso di questo fi ore

all’occhiello.

Ma, sempre in piena condivisione della constatazione di Piero Calamandrei, noi

tutti Avvocati che abbiamo speso le nostre ore migliori chini su codici e pandette cercando

di affi nare la nostra preparazione e la nostra conoscenza di norme sempre più

numerose e spazianti in dimensioni pressoché impensabili negli anni Cinquanta, auspicheremmo

che, al di là di quegli esami obbligatori o facoltativi connessi ai loro avanzamenti

di carriera, anche i Magistrati cogliessero il nostro esempio istituendo concorsi

di eccellenza tra i giovani uditori, articolati non solo sull’ovvia e profonda conoscenza

del giure, ma anche sulla cultura e sulla centralità dell’Uomo e della sua essenza divina.

È ormai signifi cativa tradizione dell’Ordine di Roma, puntualmente riferita nella

nostra pubblicazione istituzionale, in occasione della premiazione dei vincitori della

Conferenza dei Giovani Avvocati, conferire ogni anno, insieme agli avvocati con 50 e

60 anni di esercizio professionale, anche ai Magistrati di Cassazione collocati a riposo

una medaglia d’oro al termine di una carriera al servizio dello Stato e del bene supremo

della Giustizia.

Ai Magistrati ci lega un rapporto che non è solo di rispetto ma anche di affetto e di

comprensione per la terribile missione cui si sono votati, costellata di dubbi e necessità

di applicare una legge dura ma non di rado intimamente avvertita come ingiusta nel

caso concreto.

Lo affermavamo nel nostro discorso di ringraziamento quando nel 2004 ricevemmo

la medaglia d’oro per i nostri primi cinquant’anni di esercizio professionale e lo

ribadiamo ancor più oggi nel clima di tensione generale determinato dal collasso del

sistema giustizia, così pernicioso per l’assetto economico-sociale nel nostro Paese: non

possiamo sottrarci alla constatazione, lamentata da un lato e dall’altro del fatidico banco

iudicis, di una certa sempre più marcata reciproca insofferenza nel rapporto tra Magistrati

e Avvocati fondamentalmente conseguente, da un lato, a quel rilevato abbassamento

di livello delle due professioni e dall’altro ad una certa arroganza del potere cui

si contrappone uno scarso quanto nocivo rispetto per la funzione del Giudice. Avvocati

e Magistrati da sempre e per sempre siano indissolubilmente legati in una comune

milizia.

E vera e propria milizia è stata quella di valorosi Magistrati come Vittorio Occorsio,

mio indimenticato compagno di studi, Francesco Coco, Mario Amato, Nicola Giacumbi,

Girolamo Minervini, Guido Galli, Antonio Scopelliti e, vivissimi nel ricordo e

nell’affetto di tutti, Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino,

caduti sotto il piombo brigatista e mafi oso, martiri di un Ideale di Giustizia al

servizio di uno Stato di diritto.

Qualcuno ha scritto: “infelice il popolo che ha bisogno di eroi”, ma più infelice quel popolo

che ne disperde il ricordo e l’insegnamento. Ci sembra perciò doveroso ancor più oggi

che la violenza sembra di nuovo assalire le istituzioni, ricordare, specialmente ai giova14

ni assetati di punti di riferimento, quegli altri Magistrati sui cui nomi si sta purtroppo

depositando la cenere del tempo, anch’essi vittime della ferocia che ha insanguinato il

nostro Paese: Vittorio Bachelet, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Rocco Chinnici,

Emilio Alessandrini, Fedele Calvosa, Agostino Planta, Pietro Scaglione, Francesco

Ferlaino, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Bruno Caccia, Gian Giacomo Ciaccio

Montalto, Alberto Giacomelli, Antonio Saetta, Rosario Livatino il più giovane assassinato

dalla mafi a.

Ma, accanto a loro si stagliano le fi gure luminose dei nostri Colleghi trucidati: Enrico

Pedenovi, Giorgio Ambrosoli, Fulvio Croce, ucciso il 28 Aprile 1977 dalle Brigate

Rosse per aver voluto garantire il diritto di difesa assumendo, come Presidente dell’Ordine

di Torino, quella di uffi cio rifi utata da alcuni brigatisti: anche l’Avvocatura in milizia

comune ha pagato il proprio straziante tributo di sangue in nome degli stessi Ideali.

A tutti loro va dedicato l’epitaffi o scritto da Tucidide per Pericle, padre della democrazia:

giudicando che la felicità è nella libertà e che la libertà è nel coraggio, non guardate con ansia

il pericolo che vi recano i nemici”.

Nello stesso tempo, questa consapevolezza di una comune missione, minacciata da

un potere politico-economico sempre più invasivo e corruttore, sempre più insofferente

dei legittimi controlli, deve rendere avvertita anche e soprattutto l’Avvocatura,

sistematicamente emarginata dai centri decisionali del Paese a causa della propria mancanza

di coesione, piaga ricorrente da qualche tempo, purtroppo, anche all’interno del

nostro Ordine, deve rendersi promotrice di una sorta di comitato di salute pubblica

che unisca – come è già accaduto in passato sia pure per breve tempo – in unità di

intenti anche la Magistratura, i giovani e tutte le forze sociali solleciti del bene comune

per individuare rimedi rapidi, semplici e poco onerosi, idonei a curare e debellare il

cancro della giustizia ingiusta.

Gli ausili tecnologici sempre più sofi sticati e alla portata di tutti, neppur lontanamente

immaginabili negli anni verdi della mia professione possono e debbono essere

utilizzati a tal fi ne, ma anche per migliorare la preparazione e la qualifi cazione dei giovani

avvocati, fi nalmente sottratti a mortifi canti forme di sfruttamento.

L’Avvocatura in Italia e nel mondo ha subito un continuo processo di evoluzione:

angolazioni impensabili solo qualche decennio fa (basti por mente al c.d. Avvocato

d’impresa, agli studi multinazionali, alla informatica giuridica, madre del processo telematico),

ma, senza volerci atteggiare a laudatores temporis acti, ammalati di nostalgico

e retrivo conservatorismo, dobbiamo purtroppo registrare che il distacco generazionale

– normale in ogni tempo – separa oggi con sempre maggior velocità i giovani dagli

anziani; sicché i primi, sollecitati dall’ effi cientismo e dalla smania del successo, tipici

della nostra epoca, sono già immersi nel futuro senza però aver consolidato le radici

nel passato.

Ma l’uomo senza tradizioni è come pianta di breve vita, destinata a soccombere alle

prime folate di vento. L’Avvocato del terzo millennio, invece, ancorché in Italia mutilato,

nella maggior parte dei casi, del prezioso ausilio culturale del latino e del greco, ha

necessità imprescindibile di tener sempre ben presente il signifi cato non solo letterale

15

(da tradere = consegnare, trasmettere, confi dare) ma simbolico della parola tradizione,

l’autentico DNA del nostro essere che dobbiamo custodire lontano dai falsi idoli per

trasmetterlo incontaminato ai posteri così come ci fu confi dato dai predecessori.

Da sempre e per sempre l’Avvocato (da advocatus = chiamato a) è destinatario di una

missione, la più alta e la più delicata su questa Terra: quella della affermazione e della

difesa della libertà e della dignità dell’Uomo. Una missione che non si esplica soltanto

nelle aule dei Tribunali ma anche e – diremmo – soprattutto nella società più intensamente

quanto più questa ci si presenta opulenta, apparentemente progredita ma in

realtà soffocatrice degli ideali più puri, permanente patrimonio dei giovani.

A loro dunque dedichiamo questa nostra chiacchierata intorno al caminetto, sperando

che non si siano addormentati. Il premio a questa non lieve fatica sia la speranza

di aver consegnato ai gagliardi staffettisti forensi del 2000 un testimone valido perché

pregno di un sentimento di amore per una professione che è la più bella ed esaltante e

tale può e deve rimanere se sapremo apprezzarne e difenderne i valori fondamentali.

Salvatore Satta, insigne giurista e nostro iscritto, ma, anche, profondo scrittore dal

grande rigore morale, concludeva la sua stupenda autobiografi a, «Il giorno del giudizio

», con l’esortazione: «Per coscienza bisogna svolgere la propria vita fi no in fondo, fi no al

momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti

racconti a te stesso, e agli altri come in un giudizio fi nale». Lungi da noi la presunzione di volerci

anche per un momento accostare ad un simile gigante, ci basti l’aver indotto i nostri

amati Colleghi a quel giudizio, a quella pausa di rifl essione che ci aiuti a rispondere

all’interrogativo di sempre: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo, in una parola, a

conoscere noi stessi. Per essere migliori.

Virgilio Gaito

Avvocato del Foro di Roma

già Consigliere dell’Ordine degli Avvocati

 

 

 

 

PRESENTAZIONE

…c’è un cuore che batte nel cuore di Roma…

IL PALAZZACCIO: LA CASA DEGLI AVVOCATI ROMANI

icorre quest’anno il centenario della inaugurazione del Palazzo di Giustizia

(avvenuta l’11.1.11, che straordinario simbolismo!). La storia di questo monumentale

edifi cio, costruito con tonnellate di “marmo botticino” proveniente dalle cave

di estrazione esistenti nei pressi di Brescia (città natale del Guardasigilli Zanardelli), è

ampiamente descritta nel primo Capitolo di questo bel volume.

Il Palazzaccio ha ospitato dapprima quasi tutti gli uffi ci giudiziari romani (se si

escludono la Conciliazione e la Pretura) ma poi si è andato via via svuotando a causa

dell’impossibilità di contenere tutti i plessi, lasciando sostanzialmente il posto solo alla

Suprema Corte di cassazione ed a qualche altro Uffi cio sconosciuto ai più (come, ad

esempio, il Tribunale superiore delle acque pubbliche).

Da quell’11 gennaio 1911 trova sede presso il maestoso edifi cio anche l’Ordine degli

Avvocati di Roma, l’Ente pubblico non economico che – con i suoi oramai 24.000

iscritti – rappresenta l’Ordine forense più popoloso di gran parte dell’Europa.

Se si vanno a rispolverare gli annali di un secolo fa, e si leggono i discorsi che furono

proclamati in occasione della solenne cerimonia di inaugurazione del Palazzaccio, ci

si avvede facilmente che a quell’epoca il rapporto tra Foro e Curia era ben diverso da

quello dei giorni nostri: era cioè un rapporto improntato a stima e rispetto reciproci,

di riconoscimento dell’importanza fondamentale dell’altrui ruolo. Poi, però, l’aumento

spaventoso del numero degli avvocati e l’incremento di quello dei giudici, unitamente

allo scadimento di valori universali riscontrabile in ogni settore della società civile, ha

rovinato quell’idilliaca relazione di vicendevole ammirazione.

Ma torniamo al 1911 ed al giorno dell’inaugurazione. L’Avvocato generale dello

Stato, Senatore Adriano De Cupis, nel suo discorso di saluto ebbe a dire che nei giureconsulti

antichi “l’uomo politico ed il giurista, il magistrato e l’avvocato, trovano esempi plecari

di dottrina e di virtù. È una storia di secoli che con essi ci si dispiega dinanzi; storia che c’invita a

cosa gloriosa, che dovrebbe essere il vaticinio dell’Italia nuova: dominare ancora il mondo del culto del

diritto”.

Il richiamo alle tradizioni antiche, al diritto della civiltà romana, costituiva la base

per accomunare il giudice all’avvocato, uniti non solo dalla stessa passione per la norma

e per la verità, frutto di uno identico percorso universitario di studi, ma anche legati

da un sentimento di rispetto verso valori condivisi sui quali fondare “l’Italia nuova”.

E sul fatto che il Foro di Roma dovesse trovare degna collocazione, mediante l’insediamento

dei suoi Uffi ci ordinistici, all’interno del nuovo Palazzo di Giustizia, non

c’era dubbio alcuno, se è vero che l’allora Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti, S.E.

R

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Cesare Fani (perugino anche lui), in occasione della solenne inaugurazione del Palazzo,

affermò testualmente: “Ma in questa solennità della giustizia sarebbe colpa in me scordare l’Ordine

al quale io medesimo mi onoro di appartenere. Presidio di libertà nei liberi reggimenti – l’Ordine

degli Avvocati – seppe nei tempi di oppressione sollevarsi e resistere contro ogni maniera di tirannide.

Ma con i suoi studi, con la sua dottrina, con i suoi giureconsulti che ne sono l’orgoglio, esso seppe altresì

dare a Voi un contributo perenne di sapienza e di lavoro che fu di conforto e di guida nelle autorevoli

decisioni vostre. E a questa Curia, così preclara per queste sue tradizioni, di cui serba vivo il ricordo

e l’onore, io, consegnandole in questo edifi cio la nuova sua sede, in nome del Governo rivolgo il mio

migliore augurio e il mio cordiale saluto”.

Da quel momento in poi gli Avvocati romani hanno trovato, nel Palazzaccio, il loro

punto di riferimento ordinistico, la loro casa.

A nulla rileva che recenti cronache parlano di un virulento attacco, fondato però – si

badi – esclusivamente su diatribe di ordine individuale e ruggini personali, volto a far

“sfrattare” l’Ordine forense capitolino dalla sua sede storica ed originaria. Si tratta di

piccoli episodi di miserie umane, alimentati da coloro i quali probabilmente non conoscono

neppure i fasti che l’Avvocatura romana ha avuto nel corso del secolo. Fasti che

si debbono all’opera laboriosa di menti eccelse. Insigni giuristi, mirabili personalità, ingegnosi

artisti dell’eloquenza e del diritto, che la magistratura – con tutto il rispetto che

si deve nutrire per i rappresentanti di uno dei tre poteri dello Stato – non può vantarsi

di aver mai avuto nei suoi ranghi. Abbiamo avuto avvocati che il mondo intero ci ha

invidiato, chiamati spesso contestualmente ad assumere gravosi ruoli di responsabilità

nell’interesse della Patria. Uomini che spesso hanno dato la vita per la difesa dei diritti

e delle libertà, che hanno combattuto contro l’oppressione ed il mendacio, avversando

poteri occulti e sovente corrotti, dando un senso di umanità ed al contempo di grandezza

eterna alla toga indossata.

Penso, tra gli altri, a Francesco Carnelutti, Giuseppe Chiovenda (Consigliere dell’Ordine

dal 1915 al 1921), Vittorio Scialoja (Presidente dell’Ordine dal 1913 al 1916 e poi,

dopo essere stato Ministro, ancora dal 1920 al 1926), Giuliano Vassalli (avvocato, professore,

parlamentare, ministro e infi ne Giudice della Corte Costituzionale), Enrico De

Nicola (reiscrittosi nel 1957 dopo aver lasciato il Quirinale), Umberto Terracini, Leopoldo

Piccardi, Antonio Sorrentino, Edoardo Volterra, Giuseppe Sabatini, Salvatore

Satta, Arturo Carlo Jemolo, Francesco Santoro Passarelli, Rosario Nicolò, Giuseppe

Ferri, Antonio Stella, Aldo Sandulli, Filippo Ungaro (Presidente dell’Ordine dal 1962 al

1967), Gioachino Magrone (Presidente dell’Ordine dal 1954 al 1961), Remo Pannain,

Virgilio Andrioli, Carlo Fornario (Presidente dell’Ordine dal 1968 al 1977), Massimo

Severo Giannini, Adolfo Gatti, Giuseppe Valensise (Presidente dell’Ordine dal 1978

al 1985), Pietro Agostino D’Avack, Giovanni Cassandro, Mario Nigro, Elio Fazzalari,

Francesco Cossiga. E poi a tutti i grandi maestri contemporanei, oggi fortunatamente

ancora viventi, che con la loro opera, le loro imprese, la loro oratoria, le loro difese

nel penale, nel civile, nell’amministrativo, nel tributario, inorgogliscono chi appartiene,

come loro, al foro di Roma.

C’è chi recentemente ha detto, pur non appartenendo al Foro (e per questo merita

19

ancor più rispetto) che “l’avvocatura come libera professione non è un residuo fossile

di un’epoca ormai tramontata. Che la più forte passione civile, la sana ambizione di

servire la res publica, non è prerogativa del pubblico funzionario imparziale ma può

nascere ed essere nutrita anche dalla passione professionale, dall’amore per una libera

professione svolta in modo indipendente e combattivo” (Borgna, Difesa degli avvocati,

Scritta da un pubblico ministero accusatore, Laterza, 2009). È vero: l’Avvocatura

concorre a pieno titolo ad attuare l’ordinamento giuridico, perché è vera protagonista

nel processo.

Gli avvocati della città eterna, poi, sono gli eredi di Cicerone il quale, sebbene fosse

nato ad Arpino, era nel foro di Roma che esercitava la sua nobile professione (iniziò

nell’anno 81 a.C., con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio). E sulla sua scia

hanno continuato ad assumere le difese, a sostenere le ragioni dei propri assistiti, a

chiedere la tutela dei diritti, indossando la toga, quel “cencio nero” (come usava chiamarla

in dialetto toscano Calamandrei) che ci nobilita e ci distingue da tutti gli altri

professionisti.

Io non so se gli avvocati di Roma siano più bravi (dei colleghi delle altre parti d’Italia,

intendo), ma ne leggo negli occhi una passione professionale profonda, forse in

quanto consapevoli della storia che il foro romano ha dietro di con sé, della tradizione

che è obbligato a perpetrare, della responsabilità che porta sulle spalle.

Ed hanno diritto a mantenere la loro “casa” in quell’imponente Palazzo di piazza

Cavour, loro consegnato dal Ministro nel 1911, per almeno un altro secolo, e per quelli

ancora a venire.

Rodolfo Murra

Consigliere Segretario

dell’Ordine degli Avvocati di Roma

 

 

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