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La tutela dei diritti delle persone detenute tra vecchie norme e nuove prospettive alla luce della giurisprudenza costituzionale di Fabio Fiorentin

 

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SOMMARIO: 1. Una questione di drammatica attualità. 2. La tutela dei diritti della persona detenuta. 3. La selezione delle posizioni soggettive tutelate. 4. La sentenza costituzionale n. 26/99 e gli sviluppi successivi. 5.Il caso all’esame della Corte. 6. Il reclamo avanti al magistrato di sorveglianza. 7. Il ruolo del P.M. nel contraddittorio delle parti. 8. Gli strumenti a tutela della terzietà del giudice. 9. L'ottemperanza alle decisioni del magistrato di sorveglianza. 10. Prospettive de jure condendo e la tutela dei diritti fondamentali nella nuova cornice europea.

 

1.      1. Una questione di drammatica attualità.

La tutela delle posizioni soggettive dei detenuti incise da atti o provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria costituisce una sorta di prima linea sul fronte della civiltà giuridica del Paese, alla luce dell’attuale, drammatica situazione del sistema penitenziario, connotata dall’esponenziale aumento della popolazione carceraria e da crescenti difficoltà ad assicurare standard minimi di vivibilità nelle carceri. E’ proprio tale percepita inadeguatezza degli attuali strumenti di salvaguardia dei diritti all’interno degli istituti di pena a fare da sfondo alla questione di costituzionalità degli artt. 35,14-ter e 71 della legge 26 luglio 1975, n. 354, delibata dalla Corte costituzionale con la sentenza 8 ottobre 2009, n. 266, in rassegna.

I punti nodali della questione sottoposta alla Corte si articolano su una molteplicità di profili, se pure – con una certa dose di semplificazione – si possono complessivamente ricondurre alla tematica della configurazione dei poteri del giudice; dell’adeguatezza del modello procedimentale utilizzabile dal magistrato di sorveglianza in sede di giurisdizione esclusiva sull’accertamento della lesione dei diritti nell’ambito del trattamento penitenziario, nonché dei rimedi esperibili nel caso di inottemperanza al dictum giudiziale.

 La Corte, pur dichiarando inammissibile la questione sottoposta, ha mostrato una particolare sensibilità sulla delicata materia oggetto della disamina, e non ha rinunciato a fornire un importante contribuito a meglio precisare l’ambito di tutela assicurato dall’ordinamento penitenziario, dettando alcune coordinate interpretative su cui dovrebbe esercitarsi l’attività di adattamento che le corti di merito sono chiamate a svolgere, facendo corretto uso del potere interpretativo della normativa esistente, così da adeguarla ai principi costituzionali in tema di giusto processo e di rispetto dei diritti fondamentali dell’Uomo sanciti a livello europeo.

Le suggestioni offerte all’interprete dalla pronuncia costituzionale sono, invero, numerose e tali da imporre una riflessione sui possibili sviluppi di una materia che presenta rilevanti profili di incertezza e sconta la perdurante inerzia del legislatore, che non ha ancora risposto alla sollecitazione rivoltagli dalla pronuncia costituzionale n. 26/99, riguardo all’introduzione di una organica disciplina dei c.d. “ reclami atipici” al magistrato di sorveglianza, lasciando in definitiva alla giurisprudenza la delicata opera  nomopoietica di riscrittura degli istituti sostanziali e processuali esistenti.

 

2.      2. La tutela dei diritti della persona detenuta.

La posizione della persona che affronta un'esperienza di detenzione è caratterizzata dalla soggezione ad un sistema che - per sua stessa natura -  impone limiti e stretti controlli sulla sfera personale del soggetto, comprimendo in varia misura alcune delle principali facoltà soggettive (auto-organizzazione della propria esistenza, libertà di comunicazione, di movimento, etc.), in funzione delle esigenze organizzative connesse all’esecuzione penale. Tale situazione, non scevra, evidentemente, di concreti pericoli per la sopravvivenza dei diritti fondamentali della persona, ha indotto sia l'ordinamento interno (legge sull'ordinamento penitenziario 26 luglio 1975, n, 354, c.d. “Ordinamento penitenziario”), che quello europeo (Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo; Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009) a riconoscere nel detenuto un “soggetto debole", destinatario di norme di specifica tutela della sfera di facoltà personali e di salvaguardia delle stesse nei confronti di eventuali incisioni che non trovino valida giustificazione in motivi di ordine e sicurezza pubblica e, in generale, nell'esigenza di assicurare la regolare esecuzione della pena; ovvero derivino da modalità di esecuzione non conformi agli standard minimi che assicurano il rispetto della dignità della persona e dell'umanità nel momento della detenzione.[1]

In una prospettiva ispirata a canoni di civiltà giuridica, occorre riconoscere che il soggetto detenuto ha diritto non soltanto a vedere apprestati dall'ordinamento strumenti adeguati di tutela "negativa” (volta, cioè, alla conservazione, delle facoltà inerenti a una posizione soggettiva pre-esistente alla restrizione carceraria); ma ha, altresì e in egual misura, il diritto di usufruire della tutela "positiva”, costituita da quelle proposte trattamentali, cioè, finalizzate alla rieducazione che consegue alla modificazione della personalità del reo in senso socialmente adeguato. La prima forma di salvaguardia trova origine in fonti sopranazionali e nei principi costituzionali che proteggono il nucleo di incomprimibili diritti fondamentali della persona umana, tali che nemmeno l’esecuzione della sanzione penale può annichilire del tutto, a pena d’illiceità per contrasto con il senso di umanità cui deve essere informata l’esecuzione della pena (art. 27, comma 3, Cost.). Il secondo profilo è, invece, previsto dalla legislazione sull'ordinamento penitenziario, informata al principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.).

L’interesse pubblico alla esecuzione della pena e l’interesse del soggetto detenuto alla conservazione ed allo sviluppo della propria sfera soggettiva, rappresentano, in altri termini, due profili che possono trovarsi in contrasto di fatto, ma sul piano giuridico essi procedono in sintonia. La ponderazione comparativa tra i detti interessi è realizzata dal legislatore col ritenere suscettive di tutela quelle (e soltanto quelle) posizioni soggettive che non comportino un pregiudizio degli interessi pubblici connessi all’esecuzione penale e, in primo luogo, alla salvaguardia dell’ordine e della sicurezza, quali condizioni imprescindibili  della stessa finalizzazione rieducativa dell' esecuzione della pena o della misura di sicurezza: art. 1, comma 3, L. n. 354/75; art. 2, d.p.r. 30.6.2000, n. 230). [2]

 

3. La selezione delle posizioni soggettive tutelate.

           Il rapporto esecutivo penale è caratterizzato dall’esistenza di un potere pubblico che, con i propri atti e provvedimenti, interagisce con i sottoposti a esecuzione penale non già in termini unilaterali (relazione potestà/soggezione); bensì bilaterali ( potere/diritto soggettivo- diritto affievolito- interesse legittimo). Che di rapporto vero e proprio e non di mera soggezione si tratti, è reso evidente dalla considerazione che l’ordinamento democratico riconosce, accanto al potere organizzativo  dell'amministrazione penitenziaria, la sussistenza (recte: permanenza), in capo al soggetto privato su cui si esercita detto potere, di un fascio di diritti e posizioni soggettive non sacrificabili di fronte alle scelte discrezionali dell’organo amministrativo,[3]poiché il detenuto “pur trovandosi in situazione di privazione della libertà personale in forza della sentenza di condanna, è pur sempre titolare di diritti incomprimibili, il cui esercizio non è rimesso alla semplice discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva, e la cui tutela pertanto non sfugge al giudice dei diritti.”[4]

L’ordinamento ha, coerentemente a tale impostazione, riconosciuto, alla persona detenuta o internata, la facoltà di agire personalmente apud judicem a tutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive (artt.4 e 69, ord.penit.). L’ordinamento democratico deve, infatti, assicurare un controllo giurisdizionale completo ed effettivo sulle modalità con cui lo Stato esercita il potere organizzativo e coercitivo in ambito penitenziario, così che non residuino spazi vuoti di tutela nei confronti di eventuali distorsioni nell’uso della potestà amministrativa rispetto alle finalità legislativamente prefissate. E', peraltro, questione di non agevole soluzione stabilire quali siano - concretamente - le posizioni soggettive dei detenuti oggetto della tutela ope judicis affermata dal Giudice delle leggi; quali gli strumenti giurisdizionali di tutela concretamente attivabili; quale, infine, l’ampiezza del controllo del magistrato di sorveglianza sull’atto amministrativo che si assume lesivo.

La giurisprudenza costituzionale ha stabilito che il precetto contenuto negli artt. 24 e 113, Cost. impone che venga assicurata tutela giurisdizionale sia ai diritti aventi rango costituzionale che alle posizioni soggettive che trovano fondamento in fonti normative di rango sottordinato. Si  tratta della tutela dei diritti che possono subire pregiudizio per effetto (a) del potere dell'Amministrazione di disporre, in presenza di particolari presupposti indicati dalla legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del "trattamento" di ciascun detenuto; ovvero per effetto (b) di determinazioni amministrative prese nell'ambito della gestione ordinaria della vita del carcere. [5]

Per effetto del ricordato arresto costituzionale, l'ordinamento prevede ora un articolato sistema di tutela giurisdizionalizzata delle posizioni soggettive dei detenuti che siano lese all'Amministrazione nell'ambito del trattamento penitenziario. La giurisprudenza ha, tuttavia, dato una lettura restrittiva delle possibilità dischiuse dalla pronuncia costituzionale, selezionando rigorosamente le posizioni soggettive suscettibili di tutela, riconoscendo la più ampia tutela giurisdizionale assicurata dal combinato disposto degli artt. 35 e 69, ord. penit., soltanto alle doglianze riferibili alla violazione di diritti soggettivi. Mentre, infatti, è ammesso il ricorso ex art. 111, Cost., avverso le decisioni del magistrato di sorveglianza resi su reclamo avverso atti dell'Amministrazione penitenziaria che incidono su diritti soggettivi dei detenuti (a es. in tema di modalità di perquisizione personale: Cass. I, 3.2.2004); tale possibilità è, invece, negata nel caso di ordinanze emesse dal magistrato di sorveglianza a seguito di un reclamo generico in ordine a provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria che non incidono sui diritti soggettivi del detenuto (a es. nel caso di reclamo nei confronti del rigetto delle richieste di avere copia di un'istanza, di dotazione di acqua calda e docce nelle celle, di rimozione di un pannello posto sulle finestre della cella, ecc. : Cass.I, 21.5.2008). Si tratta, a ben considerare, di una posizione che risente della concezione tradizionale della giustiziabilità delle posizioni soggettive, laddove, alla luce di una moderna concezione della giurisdizione esclusiva del magistrato di sorveglianza in materia di trattamento penitenziario, la tradizionale partizione tra diritti e interessi legittimi perde valore sostanziale, dal momento che tutte le lesioni delle posizioni soggettive dei detenuti incise per effetto del trattamento penitenziario sono suscettibili di tutela concentrata presso il magistrato di sorveglianza, così che in materia la tradizionale distinzione tra diritti ed interessi legittimi assume rilievo del tutto marginale.

Piuttosto, deve riconoscersi che l’abuso/cattivo uso del potere pubblico costituisce la fattispecie generatrice dell’illecito dal quale si può produrre la lesione del diritto, e tanto più essa potrà trovare ristoro, quanto più l’ordinamento estenderà l’ambito del controllo giurisdizionale sull’attività dell’amministrazione penitenziaria. Il punto critico sta nel selezionare, tra tutte le doglianze che pervengono alla magistratura di sorveglianza, quali debbano comportare l'adozione della procedura giurisdizionalizzata introdotta dalla Corte costituzionale. Il problema non si pone, ovviamente, riguardo alle ipotesi in cui sia applicabile una procedura specifica, espressamente prevista dalla legge (a es., in tema di reclamo avverso il decreto che dispone controlli sulla corrispondenza dei detenuti:art. 18 ter, ord. penit.); bensì in relazione a quelle fattispecie indeterminate per cui resta esperibile (unicamente) la via del ricorso "atipico" previsto dall'art. 35, ord. penit.[6] Il problema più complesso (e più importante in pratica) è allora stabilire dove passi il confine tra le posizioni pienamente tutelabili e aspettative di mero fatto. In effetti, si possono ipotizzare modelli teorici assai diversi, ma la soluzione resta difficile. Una delle tentazioni più irresistibili per l'interprete, in proposito, è cercare di selezionare tra diritti soggettivi e interessi legittimi, o modelli concettuali simili, che tuttavia – nell’ambito della giurisdizione esclusiva, tendono a perdere consistenza. Un'altra strada può essere percorsa verificando se, nella fattispecie, sono in gioco interessi che effettivamente non sono o non devono essere incisi dalla detenzione (e allora la tutela è quella ordinaria), ovvero si tratta di interessi che vengono incisi dalla detenzione. Ma se si verifica questa seconda situazione è evidente che l'interessato si trova in una posizione giuridicamente differente da quella del soggetto libero. Nella situazione, cioé, di chi ha posizioni giuridiche da contemperare con la detenzione, o meglio con lo scopo della detenzione.

 Tale situazione è delicatissima e meritevole della massima attenzione e tutela, anzi forse di tutela più attenta e intensa di quella di un soggetto libero, ma pur sempre differente. Il giudizio da compiere è sempre quello della proporzione tra le esigenze di sicurezza (sociale e penitenziaria) e interesse del singolo. Siamo, in altri termini, nell'ambito della valutazione della proporzionalità dell'azione amministrativa, nell'attuazione dei suoi scopi, rispetto ai diritti individuali. La linea di confine della tutela accordata dall'ordinamento sembra dover essere, allora, quella delle aspettative di mero fatto: non è azionabile la procedura a fronte di doglianze che non coinvolgano lesione di posizioni giuridicamente tutelate, ma mere aspettative.[7]

A simmetriche conclusioni si approda con riferimento alle fattispecie generatrici del danno risarcibile: il danno si genera – attesa la particolare condizione del soggetto detenuto – in due ipotesi: qualora la condotta dell’Amministrazione incida su posizioni della sfera soggettiva non comprimibili in assoluto; ovvero nel caso l'azione amministrativa involga profili soggettivi connotabili dal potere organizzativo, senza rispettare il criterio di proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e interesse della singola persona In altri termini: il sacrificio imposto al singolo non deve eccedere quello minimo necessario, e non deve ledere posizioni non sacrificabili in assoluto. Tra queste ultime va annoverata la lesione da detenzione inumana, la cui lesione è tutelata dalla CEDU con un “equa soddisfazione” (cfr. art. 41, Convenzione EDU), ma che trova anche nell'ordinamento interno un adeguato riconoscimento.[8]

Il catalogo dei diritti non comprimibili dal potere organizzativo dell'amministrazione penitenziaria, che rispetto ad essi riveste una posizione di garanzia, coincide con i diritti fondamentali enunciati dalla Carta costituzionale. Rileva, anzitutto, la tutela della salute, quale bene giuridico primario tutelato in via primaria dall’art. 32, Cost. e – sia pure in via indiretta e con specifico riferimento all’esecuzione penale – dall’art. 27, comma 3, Cost., che vieta l’adozione di pratiche contrarie al senso di umanità nel corso dell’esecuzione delle pene.[9] Parimenti, deve essere riconosciuto il “diritto a non essere curato”, implicante un comportamento passivo/omissivo con il quale si realizza un aspetto della personalità umana: si pensi, a es., al rifiuto di cure dettato dall’adesione a particolari gruppi religiosi (a es. in tema di trasfusioni di sangue), da idee politiche (manifestazione suprema di ribellione allo Stato), da motivazioni personali (affermazione di sé di fronte all’istituzionalizzazione penitenziaria).[10]

Viene quindi in linea di conto il riconoscimento della dignità umana, che deve essere salvaguardata anche nella condizione restrittiva della libertà personale.[11] L’amministrazione penitenziaria assume in tal senso una posizione di garanzia al rispetto della dignità umana dei detenuti e degli internati. Essa non può essere sacrificata se non nei limiti strettamente necessari a garantire l’ordine e la sicurezza degli istituti. Particolarmente impellente, nell’attuale situazione di sovraffollamento degli istituti di pena, è il dovere dell’Amministrazione penitenziaria di garantire sufficienti condizioni di vivibilità nelle camere di detenzione, evitando di custodire nelle celle un numero di detenuti superiori a quello consentito. L’eventuale violazione di tali parametri è tutelabile di fronte al magistrato di sorveglianza e in sede europea (CEDU). In terzo luogo, è suscettibile di tutela la violazione del diritto del detenuto alla comunicazione con l’esterno (art. 18, ord.penit.)   La più recente giurisprudenza ha riconosciuto ai colloqui natura di vero e proprio diritto, tutelabile in sede giurisdizionale, riconoscendo al giudice “più vicino” (il magistrato di sorveglianza) incisivi poteri di controllo e sanzione dell’eventuale illegittimità dell’atto di diniego emesso dall’Amministrazione penitenziaria.[12]

E’ stata, altresì, recentemente riconosciuta la tutela giurisdizionale del diritto alla procreazione. [13] Tale posizione soggettiva assume spessore maggiormente significativo quando il ricorso a tale procedura sia necessario per rimuovere le cause impeditive della procreazione, quali sterilità o di infertilità, alla luce delle “Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita”, di cui al decreto del Ministero della Salute dd. 11 aprile 2008, pubblicato in G.U. n. 101 del 30 aprile 2008.[14]

E’, infine, tutelato il rispetto dell’ “umanità”, il diritto, cioè, ad una detenzione sofferta nel rispetto delle condizioni di “umanità” (art. 27, comma 3, Cost.; art. 3, CEDU). Si tratta di posizione non sacrificabile, in senso assoluto.[15]

 

4. La sentenza costituzionale n. 26/99 e gli sviluppi successivi.

L'art. 35, L. 26.7.1975, 354 e l'art. 75, d.P.R. 30.6.2000, n. 230, rendono possibile al detenuto l'immediato contatto con il magistrato di sorveglianza e la possibilità, per tutti i detenuti e internati, di rivolgersi direttamente a detta autorità giudiziaria, anche per mezzo di periodici colloqui individuali. Nel corso di tali colloqui, i detenuti possono presentare istanze o reclami al magistrato di sorveglianza che, svolti i necessari accertamenti, comunicherà agli interessati i provvedimenti adottati o i motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento. Il magistrato di sorveglianza può, inoltre, effettuare accessi ispettivi presso gli istituti di prevenzione e pena, su denuncia o di ufficio, per verificare personalmente la sussistenza di eventuali violazioni dei diritti dei detenuti o altre situazioni di illegalità, disponendo all'esito i provvedimenti necessari a far cessare le irregolarità eventualmente riscontrate.

Tuttavia, l'ordinamento penitenziario, pur riconoscendo in capo ai soggetti detenuti un fascio di diritti soggettivi e facoltà, non ha espressamente previsto correlative forme di tutela giurisdizionale a salvaguardia di quelle posizioni soggettive, adeguate al riconosciuto rango di primaria importanza delle situazioni giuridiche che fanno capo alla persona detenuta. Tale situazione si pone(va) in contrasto con i principi costituzionali, segnatamente con quelli concernenti il diritto di difesa giurisdizionale dei diritti e interessi delle persone, sancito dall'art. 24, Cost.

Investita della questione di incostituzionalità degli artt. 35 e 69, L. 26.7.1975, n. 354, sotto il profilo che tali norme non garantivano alcuna tutela giurisdizionale nei confronti delle eventuali lesioni dei diritti soggettivi dei detenuti, la Corte, con una sentenza per molti aspetti "storica", ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69, L. 26.7.1975, n. 354 nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale (Corte cost., 8-11.2.1999, n. 26).[16] Si è realizzato, con tale arresto, un importante passo nella direzione della giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penitenziaria che, tuttavia, appariva monco, poiché la Corte non indicava un modello procedimentale tra i tanti azionabili.[17] La svolta decisiva nella tormentata questione della scelta del rito applicabile ai procedimenti per reclamo in materia di colloqui dei detenuti si è determinata in seguito all’intervento delle Sezioni Unite,  che hanno individuato quale strumento procedimentale idoneo ad assicurare, nella materia de qua, forme garantite di tutela giurisdizionale dei detenuti, il procedimento disciplinato dall’art. 14-ter, L. 26.7.1975, n. 354.[18] La Cassazione riunita, adottando un’interpretazione secundum Constitutionem  della normativa in materia di mezzi di tutela designati dai caratteri della giurisdizione, assicurati dall’ordinamento nei confronti della lesioni delle posizioni soggettive dei detenuti, alla luce del quadro costituzionale delineato secondo le progressive sequenze ermeneutiche illustrate dalla sentenza n. 26 del 1999, ha autorevolmente affermato che un simile mezzo non può che identificarsi – proprio per le esigenze di speditezza e semplificazione che necessariamente devono contrassegnarlo, considerando le posizioni soggettive fatte valere,  in quello previsto dal disposto dell’art.14-ter della legge sull’ordinamento penitenziario. In seguito a tale arresto, la giurisprudenza dei magistrati di sorveglianza e della Corte di cassazione, nonché parte della dottrina, ha configurato ex novo il reclamo di cui al citato art. 35, attribuendogli carattere giurisdizionale nel prevedere la possibilità di decidere mediante l'adozione della procedura prevista dagli artt. 69, sesto comma, e 14-ter per i reclami dei detenuti e degli internati concernenti la lesione di posizioni soggettive. La pronuncia della Suprema Corte è assai rilevante perché alla “approvazione” circa il rito adottato dal magistrato di sorveglianza consegue che a tale giudice viene riconosciuta la competenza a conoscere delle violazioni subite dai detenuti nelle loro posizioni soggettive e dunque che essi sono titolari di posizioni giuridiche che per la loro stretta inerenza alla persona umana sono qualificabili come diritti soggettivi.[19] 

 

 

5.Il caso all’esame della Corte.

          Il quadro giuridico-normativo sopra sinteticamente riassunto induce il giudice rimettente a sottoporre – come accennato – alla Corte la questione della illegittimità costituzionale dell’assetto disciplinato dagli artt.14-ter, 35 e 71 dell’ordinamento penitenziario, articolandola su alcuni profili di ritenuto contrasto con le norme costituzionali ed europee. Anzitutto, il procedimento ex art. 14-ter, ord. penit., non garantirebbe un adeguato contraddittorio, poiché non prevede la partecipazione dell’Amministrazione penitenziaria, laddove all’interessato è consentita la partecipazione al procedimento con il ministero del difensore. In secondo luogo, la posizione del magistrato di sorveglianza, organo incaricato della vigilanza sugli istituti di prevenzione e pena e dotato del potere-dovere di impartire le disposizioni necessarie ad eliminare le violazioni dei diritti dei detenuti, farebbe dubitare della terzietà di tale A.G. nel momento in cui sia chiamato a verificare la legittimità dell'operato dell'amministrazione penitenziaria e la sussistenza, in concreto, di lesioni delle posizioni soggettive di singoli detenuti. Infine, il carattere non vincolante per l’amministrazione della decisione assunta dal giudice si risolverebbe in una forma di denegata tutela per il soggetto che sia leso in un proprio diritto per effetto della condotta della P.A.

             La Corte ha individuato alcuni profili di inammissibilità e assunto la conseguente decisione. Ciò che pare interessante, sotto tale profilo, è l’approfondimento che la Consulta opera nell’indicare con precisione all’interprete quali strade siano percorribili ai fini dell’adeguamento in via ermeneutica dell’attuale disciplina ai principi costituzionali ed europei evocati dal rimettente, ciò che costituisce- e la Corte lo ricorda espressamente – un dovere cui l’interprete non può sottrarsi. 

 

6. Il reclamo avanti al magistrato di sorveglianza.

           Anzitutto, la sentenza in rassegna “rassicura” il rimettente sulla adeguatezza dell’attuale strumento di tutela delle posizioni soggettive dei detenuti previsto dalla legge penitenziaria, rappresentato dal reclamo “giurisdizionalizzato” forgiato dall’arresto costituzionale n. 26/99 e dagli sviluppi giurisprudenziali che ne sono conseguiti.  Tale assetto è stato posto in discussione in seguito alla sentenza costituzionale n. 341/2006, che ha sottratto alla competenza del magistrato di sorveglianza le controversie di natura laburistica insorte tra l'Amministrazione e i soggetti detenuti, proprio ritenendo lo strumento di cui all'art. 35, ord.penit., inadeguato ad assicurare un idonea soglia di garanzia giurisdizionale. La Corte ha dunque precisato il suo pensiero, chiarendo che l’inadeguatezza del rito ex art. 14-ter, ord.penit., deve essere limitata alla materia laburistica, poiché ingenera una ingiustificata disparità di trattamento con riguardo esclusivo a quella particolare categoria di posizioni giuridiche, mentre per quanto concerne le altre posizioni  incise nel corso del trattamento penitenziario rimane fermo il principio dell’adeguatezza della tutela assicurata con il reclamo al giudice di sorveglianza. La Corte ha, precisamente, osservato che l’arresto n. 341/2006 aveva ritenuto illegittima ogni «irrazionale ingiustificata discriminazione», con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini; così che il procedimento di cui all’art. 14-ter, ord. penit., carente sotto il profilo delle garanzie difensive, alla luce del coordinato disposto di cui agli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., appariva inidoneo – se riferito alle controversie di lavoro – ad assicurare un nucleo minimo di contraddittorio e di difesa (ponendo in evidenza, tra l'altro, che il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore restava addirittura escluso dal contraddittorio).

Tale approdo, peraltro, non ha affatto posto in discussione  la competenza generale della magistratura di sorveglianza, “avendo inciso su una ben precisa tipologia di reclami in materia di lavoro, ossia con riferimento a situazioni giuridiche per le quali nell'ordinamento generale è istituito un giudice specializzato.” Anzi, la Corte riafferma la validità dell’impianto generale, già delineato con la sentenza n. 212/1997, per la quale l'ordinamento penitenziario costituisce “un assetto chiaramente ispirato al criterio per cui la funzione di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti è posta in capo a tali uffici della magistratura ordinaria.”

La distribuzione delle competenze, pare, in definitiva, sistematizzabile nel senso che il detenuto, al pari di ogni altro soggetto dell'ordinamento, è tutelato nelle forma civilistica e penalistica secondo gli strumenti ordinari: potrà quindi ricorrere al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno aquiliano per fatto doloso o colposo dell'amministrazione (a es. nel caso di infortunio occorso in seguito a carenze addebitabili all'amministrazione); potrà rivolgersi al giudice penale nel caso si ritenga vittima di un reato (a es., nel caso di omissioni o di condotte dell'amministrazioni che integrino fattispecie presidiate a livello penale); potrà, infine, rivolgersi al G.A. per ottenere l'annullamento dell'atto amministrativo che assuma illegittimo. Ma egli, in ragione della sua posizione di soggetto debole”, gode di una tutela maggiore per tutte le incisioni della propria sfera soggettiva che siano consequenziali all'effettuazione del trattamento penitenziario, la cui cognizione è attribuita alla giurisdizione esclusiva del magistrato di sorveglianza Nell'ambito di tale giurisdizione, la detta A.G. opera con lo strumento della mera segnalazione all'amministrazione, nel caso venga investito di doglianze inerenti a mere aspettative di fatto; mentre opera con provvedimento giurisdizionale nel caso di violazione di posizioni soggettive normativamente tutelate, attraverso il procedimento di cui al coordinato disposto degli artt. 14-ter, 35 e 69, ord. penit.

 

7. Il ruolo del P.M. nel contraddittorio delle parti.

               Un’indicazione assai stimolante offerta dalla sentenza in commento concerne la disciplina del contraddittorio, che il rimettente aveva ritenuto inadeguata soprattutto con riferimento alla non prevista partecipazione dell’amministrazione penitenziaria al procedimento, potendo essa unicamente interloquire mediante la presentazione di memorie. La Corte indica la possibilità di integrare in via ermeneutica l’attuale assetto verificando la possibilità che le ragioni dell’amministrazione siano rappresentate in udienza dal pubblico ministero nel contraddittorio col difensore del reclamante.

             La suggestione ha indubbiamente il pregio dell’assoluta novità, dacché non era mai stata ipotizzata – a quanto consta – la possibilità che la difesa della P.A. fosse assunta dall’organo della pubblica accusa; tuttavia, la soluzione pare di difficile praticabilità, e la sinteticità dell’indicazione offerta dalla Corte non aiuta certamente l’interprete. E però, non si può non rilevare la difficoltà di assegnare al P.M. compiti di difesa tecnica della posizione dell’Amministrazione, che parrebbero meglio disimpegnati da un difensore anche formalmente individuato come tale (e, per rimanere nell’ambito pubblicistico, potrebbe invece verificarsi la possibilità di avvalersi, da parte della P.A., dell’Avvocatura dello Stato), senza contare il fatto che – inevitabilmente – nell’ambito del procedimento avanti al magistrato di sorveglianza il ruolo della parte pubblica e quello del “difensore” dell’amministrazione verrebbero a confliggere, se non altro nel momento in cui al P.M. viene chiesto di formulare le conclusioni sulle ragioni illustrate nel contraddittorio delle parti. 

              Inoltre, più in generale, un ruolo così scopertamente “di parte” esperito dal pubblico ministero – nei termini ipotizzati dalla Corte – finirebbe  per inquinare la posizione dell’organo dell’accusa nel quadro dell’esecuzione penale e penitenziaria, dal momento che in tale sede il P.M: esercita il ruolo di tutela delle ragioni dello Stato, e dunque pur sempre agisce quale soggetto “terzo” e “imparziale”, nel perseguimento di tali obiettivi.  Il carattere pubblicistico delle funzioni svolte dal P.M. appare evidente alla luce dell’art. 112, Cost., da cui si ricava il principio che la funzione esecutiva è obbligatoria, connotando la discrezionalità del P.M. a tale obiettivo, così che, per tale ragione, si comprende come, nella fase dell’esecuzione penale,   la partecipazione del pubblico ministero all’udienza è sempre necessaria (art. 666, c. p. p.).[20]  L’obbligatorietà , d’altra parte, deriva dalla evidente assenza di discrezionalità rilevabile sia nel codice di rito ( “il pubblico ministero … cura di ufficio”, art. 655, comma 1, c.p.p. ; “il pubblico ministero emette ordine di esecuzione”, art. 656, comma  1, c.p.p.; art. 659, comma 1, c.p.p.; ecc.) ovvero dalle leggi speciali relative ad esecuzione di provvedimenti giudiziari suscettibili di esecuzione.[21]

 

 

8. Gli strumenti a tutela della terzietà del giudice.

             La Corte ritiene che gli istituti dell’astensione e della ricusazione – applicabili, quali istituti di valenza generale, anche ai procedimenti davanti alla magistratura di sorveglianza – siano sufficienti ad assicurare il profilo di terzietà del giudice. Nelle materie affidate alla magistratura di sorveglianza, tuttavia, la specificità delle fattispecie, impregnate dell’aura rieducativa che spira dal principio costituzionale di cui all’art.27, comma 3, Cost., impone alcune necessarie precisazioni. Anzitutto, sotto il primo profilo, l’equidistanza formale del giudice tra la parte pubblica (amministrazione penitenziaria) e soggetto privato (il detenuto o l’internato) è fortemente incisa dalle disposizioni dell’Ordinamento penitenziario che attribuiscono alle persone ristrette una serie articolata di diritti e posizioni attive nei confronti dell’amministrazione penitenziaria (art.1, Ord.pen.), identificando nel magistrato di sorveglianza il “garante dei diritti” dei detenuti (art.69, Ord.pen.).

 In questa cornice del tutto peculiare, “imparzialità” del giudice può allora sottendere un ruolo attivo del magistrato, chiamato, nel confronto di due parti, la pubblica e la privata, che hanno, per loro natura, poteri differenziati (l’amministrazione quello di connotare, attraverso l’utilizzo di poteri autoritativi, la posizione soggettiva del detenuto al fine di somministrare l’esecuzione della pena), a “riequilibrare” la posizione di debolezza del condannato o internato, nell’ambito di un rapporto tra amministrazione penitenziaria e soggetto passivo dell’esecuzione, non più di mera soggezione di quest’ultimo nei confronti della prima, quanto di rapporto giuridico caratterizzato dalla reciprocità di diritti e doveri, alla luce della connotazione rieducativa propria della (di ogni) pena.

 In secondo luogo, la posizione di terzietà del giudice nell’ambito del procedimento di sorveglianza è anch’essa peculiare, laddove generalmente non vi è, in tale contesto, una sostanziale differenza di posizione tra il giudicante e la parte pubblica, poiché entrambi istituzionalmente incaricati di realizzare, se pure all’interno dei propri specifici ruoli, la realizzazione della “pretesa punitiva” dello Stato alla luce della legislazione vigente in tema di benefici penitenziari e della finalizzazione rieducativa della pena.

      Non v’è, in altre parole, nel procedimento di sorveglianza, una contrapposizione dialettica tra il ruolo dell’accusa e quello della difesa in termini di confronto sul tema colpevolezza/innocenza dell’imputato, destinata ad essere risolta dal giudice “terzo”. Vi è, piuttosto, o dovrebbe esservi, una tendenziale convergenza nell’individuazione della pena “legittima”, cioè, della soluzione esecutiva che meglio di altre si presta ad assicurare all’esecuzione penale, nel caso concreto, le migliori chances di realizzazione della finalità rieducativa costituzionalmente valorizzata.

 

 

 

9. L'ottemperanza alle decisioni del magistrato di sorveglianza.

           La sentenza in rassegna si occupa infine del dubbio espresso dal rimettente sul carattere non vincolante per l'amministrazione dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza. Sulla base del richiamo alla interpretazione letterale, la Corte riafferma la natura delle prescrizioni od ordini emessi dal magistrato di sorveglianza quali disposizioni, “il cui carattere vincolante per l'amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue.” Nulla tuttavia è detto sulla questione più spinosa, quella degli strumenti per garantire la esecuzione coattiva del dictum giudiziale nei confronti dell’amministrazione penitenziaria.

La principale ragione dell'inefficacia pratica della tutela prevista dagli artt.35, 69, ord. penit. risiede, invero, nel fatto che le decisioni assunte dal magistrato di sorveglianza, se pure formalmente vincolanti per le parti e soprattutto per l'Amministrazione penitenziaria, sono del tutto prive della possibilità di essere eseguite in forma coattiva nel caso di inottemperanza. Ciò è dovuto ad una grave carenza normativa, che non prevede una specifica disciplina dell'esecuzione di tali provvedimenti. Tale presa d'atto è alla base del diffuso scetticismo manifestato dalla dottrina in ordine alla concreta efficacia dell'istituto.[22]

La casistica è alquanto articolata. Anzitutto, può darsi il caso in cui il magistrato di sorveglianza abbia riconosciuto la lesione della posizione soggettiva di un detenuto provocata da una condotta dell'Amministrazione, materializzata in un atto amministrativo (es. programma di trattamento; sanzione disciplinare; diniego di autorizzazione a colloqui, telefonate, etc.). In tal caso, l'ordinanza del magistrato che afferma la sussistenza della lesione (e del correlativo diritto negato) disapplica l'atto amministrativo, ma tale esito può non essere sufficiente al ristoro della posizione incisa, nel caso l'Amministrazione non uniformi la propria condotta al rispetto del dictum: a es., a poco vale, per l'interessato, vedere riconosciuto il diritto al colloquio con un proprio familiare se poi l'Amministrazione persiste nel negare l'autorizzazione all'ingresso in istituto del congiunto. In secondo luogo, può verificarsi che il magistrato di sorveglianza accerti l’incisione di una posizione soggettiva non comprimibile (es. ha ristretto i detenuti in spazi troppo angusti; ha negato prestazioni sanitarie necessarie, etc.) da parte di una scelta organizzativa dell'Amministrazione. In terzo luogo, è possibile che il giudice accerti che una determinata situazione o stato di fatto contrasta con i diritti dei detenuti (a es. assenza di servizi igienici; insalubrità dei luoghi di detenzione, etc.). Anche in questi casi, la mera declaratoria della sussistenza di una lesione è lettera morta laddove non sia consentito al giudice di emettere sentenze di condanna in seguito all'accertamento dell'illiceità di determinati fatti o condotte, imputabili all'Amministrazione penitenziaria; né dettare alla medesima prescrizioni assistite da sanzioni per il caso di inottemperanza, così che il provvedimento del magistrato di sorveglianza possa costituire titolo esecutivo contro la P.A.

 Il diritto vivente è, allo stato attuale, contrario alla possibilità che il magistrato di sorveglianza possa emettere pronunce di annullamento dell'atto amministrativo e/o di condanna dell'Amministrazione. Pesa, soprattutto, la ragione che l'attuale configurazione della procedura di reclamo davanti al magistrato non garantisce un livello di contraddittorio adeguato – sotto il profilo delle garanzie costituzionali in tema di contradditorio e diritto di difesa - a sostenere una eventuale pronuncia di condanna.[23]

Nella stessa ottica restrittiva, la giurisprudenza mantiene un atteggiamento assai prudente, e nega la possibilità di ricorso ex art. 111, Cost., avverso le decisioni assunte dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35, ord. penit., anche dopo la sentenza costituzionale n. 26/1999. Tale arresto costituzionale non è ritenuto, infatti, di ostacolo alla ravvisata inammissibilità dei gravami esperiti mediante lo strumento dell'art. 111, Cost., poiché la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale del ricordato art. 35 non consente di intervenire additivamente sul sistema normativo vigente.[24] Tale indirizzo si richiama al principio secondo cui soltanto la violazione di un diritto soggettivo della persona detenuta giustifica l'attivazione del procedimento giurisdizionale davanti al magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 69, ord. penit., e che unicamente tale ambito è tutelato dalla garanzia del ricorso ex art. 111, Cost. Siffatto orientamento è stato confermato dalle pronunce più recenti, secondo cui l'ordinamento non prevede nessun mezzo di impugnazione avverso provvedimenti eventualmente adottati sui generici reclami proposti nelle forme di cui all'art. 35, ord. penit., che possono essere indirizzati a una pluralità indifferenziata di organi amministrativi o giurisdizionali.

In ogni caso, l'ottemperanza alla decisione rimane un aspetto problematico, qualunque sia l'opzione che si adotta. Anche sotto questo aspetto, si possono ipotizzare soluzioni molto diverse. La più incisiva è ritenere che il pronunciamento del magistrato di sorveglianza secondo quanto previsto dall'art. 69, 5° co., L. 26.7.1975, n. 354, comporti che le direttive del magistrato si sostituiscono a quelle del vertice dell'Amministrazione (che sarebbe una sorta di commissario ad acta individuato ex lege, incaricato dell'esecuzione del contenuto precettivo della pronunzia giudiziale), con conseguente immediato dovere degli operatori penitenziari di attuare la decisione, disapplicando gli eventuali ordini contrari degli organi gerarchicamente sovraordinati (Direttore, Provveditorato e D.A.P.). In tale ricostruzione, il potere di ingerenza del magistrato di sorveglianza assumerebbe un contenuto invasivo nell'area dell'Amministrazione di eccezionale (e forse non opportuna) rilevanza. È assai dubbio che questo fosse il significato della norma in esame nella mente del legislatore. Nell'ipotesi in cui si ritenesse il provvedimento una condanna a carico della P.A., sarebbero attivabili le reazioni per l'inottemperanza al giudicato, con tutti i problemi - di ben nota rilevanza - rispetto all'esecuzione coattiva di un facere, per di più da parte della P.A. Se, invece, si ritiene che il provvedimento sia un accertamento di una condotta antigiuridica, l'effetto della decisione è limitato alla dichiarazione di illegittimità di un certo assetto. Tale accertamento non ha però effetti diretti dal punto di vista esecutivo, pur potendo formare oggetto della valutazione incidentale quando sorga un diverso giudizio (disciplinare o penale) sulle eventuali responsabilità.

 

10. Prospettive de jure condendo e la tutela dei diritti fondamentali nella nuova cornice europea.

De jure condendo, occorre riconoscere che la scarsa effettività della tutela dei diritti all'interno del carcere è soprattutto originata dalla situazione di fatto che vede i soggetti detenuti  grandemente limitati nella possibilità di far valere in giudizio le proprie pretese risarcitorie in ragione delle oggettive limitazioni imposte dalla restrizione carceraria. Ne deriva la necessità, alla luce del disposto costituzionale (artt. 3,24 Cost.), di implementare il ruolo del “giudice vicino”, e dunque del magistrato di sorveglianza. In tale prospettiva, si può pensare a strutturare la giurisdizione del magistrato di sorveglianza sul modello della giurisdizione esclusiva del G.A., riconoscendo la competenza sulla base dell’attribuzione “a blocchi di materie” (attualmente, con riguardo, a es., a tutto quanto concerne il trattamento penitenziario), ed attribuendo, entro tali ambiti, incisivi poteri al giudice in ordine all'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo ed al consequenziale ristoro patrimoniale; nonché in relazione alla possibilità di accertare la lesioni di posizioni soggettive e di pronunciare condanna al risarcimento del danno ex artt. 2043 e 2059, c.c. Sul piano processuale, occorre adottare il procedimento ex artt. 666 e ss., c.p.p., più garantito della procedura sommaria di cui all’art. 14-ter, ord. penit., in materia di cognizione sulla lesione delle posizioni soggettive in materia di trattamento penitenziario, attribuendo, anche sulla scorta dell'autorevole indicazione venuta dalla Corte costituzionale (sent. 266/09) le funzioni di tutela delle ragioni dell'Amministrazione al PM, quale “avvocato della parte pubblica”. A garanzia dell'effettività dell'intervento del magistrato di sorveglianza, sarebbe opportuno, infine, stabilire una taxatio per ogni giorno di inottemperanza dell'Amministrazione alle disposizioni impartite dal giudice di sorveglianza, da versarsi a favore della cassa delle ammende a titolo di sanzione processuale, sulla base della loro immediata vincolatività per l'Amministrazione. La materi della tutela dei diritti delle persone detenute è oggetto anche di interventi normativi di matrice europea. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, amplia, infatti, la prospettiva della protezione dei diritti fondamentali nello spazio europeo.[25] La nuova fonte pattizia dichiara  che l’Unione si fonda su un insieme di valori, taluni dei quali non erano esplicitamente menzionati nei trattati precedenti: dignità, eguaglianza, tolleranza, giustizia, solidarietà (art. 2, Trattato dell'Unione Europea). Alla solenne proclamazione consegue l'obbligo per gli Stati aderenti e per le istituzioni europee di adeguare i propri ordinamenti e - più in generale – la propria politica alla tutela di quei valori, anche nelle relazioni internazionali (art. 3, p. 5, Trattato UE). L'attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta dei Diritti fondamentali dell'Uomo (art. 6, TUE) e l’adesione dell’Unione alla CEDU (art. 12, TUE) determina un radicale cambiamento di prospettiva, che vincola direttamente gli ordinamenti interni al rispetto della dignità e dei diritti delle persone, con particolare riguardo per i soggetti che risultano particolarmente a rischio. Tra le "Osservazioni", indirizzate dall' Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa al Parlamento europeo ai fini dell'attuazione di una migliore protezione dei diritti fondamentali, si trovano alcune importanti enunciazioni, che investono direttamente la questione della tutela dei diritti delle persone in stato di limitazione della libertà personale.

In particolare, si raccomanda il ravvicinamento delle legislazioni con riguardo alle disposizioni relative a “standard minimi di detenzione" (minimum standards in prison conditions: cfr. relazione Turco 24 febbraio 2004, recante "Proposta di raccomandazione del Parlamento europeo destinata al Consiglio sui diritti dei detenuti nell’Unione europea"). E' auspicato che gli strumenti adottati in materia non siano limitati ai soli casi “transfrontalieri” ma siano suscettibili di applicarsi a tutte le persone coinvolte in procedimenti penali negli Stati membri, "creando un elevato zoccolo comune di diritti per tutti coloro che si trovano nel territorio dell’UE." E', inoltre, raccomandata la stipula di accordi internazionali di assistenza giudiziaria e di estradizione con gli Stati terzi che in tema di diritti fondamentali, al fine di prevenire "ogni rischio di trattamenti inumani e degradanti."

Sul piano giudiziario, la prevista adesione dell’Unione alla CEDU, la forza vincolante attribuita alla Carta dei diritti fondamentali e il - pur limitato - ampliamento dei poteri della Corte di Giustizia rappresentano convergenti fattori destinati a potenziare il ruolo e gli spazi di intervento dei giudici delle Corti europee e nazionali. Nello spazio europeo, in definitiva, la tutela dei diritti è sempre più affidata ad un sistema “multilivello” in cui si intersecano gli ordinamenti nazionali, l’ordinamento comunitario e l’ordinamento CEDU.

 

 

 

 

 

 


 

[1] Le fonti internazionali valorizzano soprattutto il profilo di tutela dei diritti fondamentali afferenti alla persona detenuta: a salvaguardia della sfera di libertà, patrimonio di ogni persona umana, è posto il presidio dell’art. 5, L. 848/1955 (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che sancisce il diritto di tutti alla libertà e alla sicurezza, stabilendo i casi tassativi nei quali tale diritto può essere limitato. A tutela della dignità della persona si pone l’art. 7, L. 25.10.1977, n. 881, di ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, a sanzione dell’illiceità di pene inumane e degradanti. Gli artt. 10 e 11 della L. 3.11.1988, n. 498 (Ratifica della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre 1984), impongono agli Stati membri di reprimere in ogni modo possibile il ricorso alla tortura dei soggetti detenuti, prevedendo (art. 14) il diritto ad un equo risarcimento alle vittime di torture. L’art. 5, comma 5, L. 848/1955 e l’art. 9, comma 5, l. 881/1977, attribuiscono alla persona che ha subito senza legittima ragione un periodo di arresto o detenzione il diritto a un congruo indennizzo. Sul piano della rieducazione dei condannati, la Risoluzione O.N.U. 30.8.1955 offre interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni correlate ai diritti della persona in ambito carcerario: il par. 65 stabilisce che il trattamento dei condannati a pene privative della libertà deve avere lo scopo “di suscitare in essi la volontà e le capacità che permetteranno loro, dopo la liberazione, di vivere nel rispetto della legge e di provvedere a se stessi”, aggiungendo: “Tale trattamento deve essere tale da incoraggiare nel soggetto il rispetto di se stesso e da sviluppare in lui il senso della responsabilità.” Il successivo par. 71, prevede, in tema di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, che esso deve essere, nei limiti del possibile, di tale natura da mantenere ed aumentare (…) la capacità di guadagnare onestamente da vivere dopo la liberazione (…) Nei limiti compatibili con una selezione professionale razionale e con le esigenze dell’Amministrazione e della disciplina penitenziaria, i detenuti devono poter scegliere il genere di lavoro che desiderano compiere”(Ris.ONU 30.8.1955,par.71). Il par. 78 impone all’Amministrazione penitenziaria di organizzare all’interno degli istituti di pena delle attività volte a favorire il benessere fisico ed intellettuale dei detenuti. Questi ultimi devono essere “(…) incoraggiati a mantenere o iniziare relazioni con persone o enti esterni che possono favorire gli interessi della sua famiglia e il proprio riadattamento sociale” (Ris.ONU 30.8.1955, par.80). Nell'ordinamento interno, la tutela dei diritti della persona detenuta si fonda sulla già ricordata legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario (L. 26.7.1975, n. 354), ampiamente modificata dalla legge 10.10.1986, n. 663 (c.d. “legge Gozzini”); e dal correlato regolamento di esecuzione (d.P.R. 30.6.2000, n. 230).[1] A tale corpus fondamentale si aggiungono numerose leggi extravagantes, che hanno inciso sulla disciplina di specifici profili, quali la L. 26.5.98, n. 165, in materia di applicazione provvisoria delle misure alternative alla detenzione; la L. 19.12.2002, n. 277, in materia di riforma della liberazione anticipata; la L. 8.4.2004, n. 95, in materia di controllo sulla corrispondenza dei detenuti. In dottrina, sulla tutela dei diritti dei detenuti, cfr. P. Corso, Il procedimento per reclamo, in Manuale della Esecuzione penitenziaria, Monduzzi, 2006, 256;  M.G. Coppetta, commento all'art. 35 della legge del 26 luglio 1975 n. 354, "Diritto di reclamo", in Ordinamento penitenziario, a cura di Vittorio Grevi, Glauco Giostra, e Franco Della Casa, III edizione, Cedam, Padova 2006, 391;  F. Della Casa, commento all'art. 69 della legge del 26 luglio 1975 n. 354, "Funzioni e provvedimento del magistrato di Sorveglianza", in L’Ordinamento Penitenziario, cit.  822; F. Fiorentin, La tutela dei diritti dei detenuti, in Ordinamento penitenziario,(collana “Giurisprudenza Critica”, diretta da P. Cendon), Utet, Torino 2005, 70; F. Fiorentin, Il reclamo nei casi previsti dall'art. 69 della legge del 26 luglio 1975 n. 354, in L'Ordinamento Penitenziario, cit.,79; M. Ruotolo, La tutela dei diritti dei detenuti, in Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino 2002, 189; A. Pennisi, Il tipo di procedimento giurisdizionale per la tutela delle posizioni soggettive dei detenuti, in Diritti dei detenuti, cit.,245.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] Il riconoscimento in capo alla persona condannata di uno status coerente con la titolarità di diritti e interessi non comprimibili neppure per effetto dell’applicazione della pena detentiva non ha costituito un approdo immediato, bensì una progressiva codificazione delle posizioni giuridiche attive dei detenuti, a partire dall’intervento della Corte costituzionale che, con una storica decisione in tema di liberazione condizionale (art. 176, c.p.), affermò il diritto del condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva sia riesaminato, al fine di accertare se la quantità di pena già espiata abbia, o no, assolto il suo fine rieducativo (sentenza n. 204/1974). Tale diritto, stabilì la Consulta, “deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”. La riforma dell’ordinamento penitenziario, varata proprio su impulso della sentenza costituzionale n. 204/1974, ha determinato un vero e proprio ribaltamento dei tradizionali rapporti fra il detenuto e l’Amministrazione penitenziaria, di tal che la figura del detenuto viene portata in primo piano, non più quale soggetto passivo dell’esecuzione penale, bensì quale titolare di posizioni soggettive e destinatario delle proposte trattamentali degli operatori penitenziari.[2] Vi fu anche chi osservò, non senza una sfumatura paradossale, come la riforma penitenziaria rappresentasse “il solenne riconoscimento che lo status di detenuto o di internato non solo non fa venir meno la posizione di lui come titolare di diritti soggettivi connessi a tale status, ma, anzi, altri gliene attribuisce” (G.Galli, La politica criminale in Italia negli anni 1974-77, Giuffré, Milano 1978,128).

[3] Corte Cost., sent. 8-11.2.1999, n. 26/1999, G.U.17.2.1999, n.7, I Serie Speciale.

[4] Così Corte Cost. n. 212/1997. Più in generale, per il riconoscimento che, anche in situazioni di restrizione della libertà personale, sussistono diritti che l’ordinamento tutela, cfr. le sentenze della Corte Costituzionale n. 410/1993, n. 351/1996, n. 376/1997 e la stessa Corte Cost., sent. n. 26/1999, cit.

[5] Corte Cost., sent. n. 26/1999, cit.

[6] Cfr. F. Fiorentin – A. Marcheselli,  Il punto sui diritti dei detenuti, in Giur.Merito 2006, I, 20: “Si tratta di un aspetto che incide pesantemente sulla efficacia della tutela, posto che è la stessa materiale difficoltà di governare la massa delle istanze, denunce, segnalazioni a rendere tardiva e inefficiente la tutela, poiché una indiscriminata attuazione di tali modelli per ogni segnalazione ricevuta non solo rischia di comportare la paralisi della attività, ma renderebbe pressoché impossibile la selezione dei casi: la diluizione degli interventi su una miriade di casi ne eliderebbe la capacità di penetrazione.”

[7] Cass., Sez. I, 30.1.2008, n. 7791, in CED Cass.

[8]“Il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale” (Sez.Un. n. 26972/2008).

[9] La potestà punitiva dello Stato, che si esplica nella sottoposizione coattiva del condannato alla detenzione trova un limite nella salvaguardia della salute, tutelata quale bene e valore primario dalla Costituzione (Cass. Sez. I, 26.4.1994, n. 1138,Tana, in Ced Cass.).

[10] Cfr. Mantovani F., Diritto Penale,CEDAM,Padova 1988. V. anche Manna A., Considerazioni in tema di consenso presunto,Parte Prima, in La Giustizia Penale,1984, II,168-192, e L’operatività del consenso presunto nell’ordinamento penale italiano, in La Giustizia Penale,1984, II,231-255. Secondo tale A., “Il consenso del paziente deve essere in ogni caso richiesto, ma non per rendere lecito l’intervento con riferimento ai beni della vita e dell’integrità fisica, bensì per rispettare il diritto alla libera determinazione del paziente medesimo. In altri termini, se il medico omette di chiedere al malato l’assenso per l’operazione e quest’ultimo era in condizioni di manifestarlo, commetterà in primo luogo il delitto di violenza privata o quello, forse più consono alla fattispecie, previsto dall’art. 613 c.p., e ciò a prescindere dalle ulteriori ipotesi criminose inerenti ai delitti di lesione e di omicidio.” Sul c.d. “sciopero della fame”, cfr. I.Allegranti I. e G.Giusti, Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico-legali e deontologici, CEDAM,Padova 1983. Sui profili di liceità dell’alimentazione forzata nel caso di sciopero della fame, cfr. L. Riello, Sciopero della fame e alimentazione forzata, in Nuovo Diritto, 1982, 369 ss. V. anche Onida V., Dignità della persona e diritto di essere ammalati, in Questioni giuridiche, 1982, 361. In  giurisprudenza si è affermato il principio secondo cui:  “Nel caso di rifiuto di intervento in rapporto ai casi di “sciopero della fame”, il sanitario dell’istituto penitenziario sarà tenuto, per un verso, ad informare l’interessato circa e conseguenze che tale condotta può comportare sulle condizioni di salute; dall’altro, in presenza di una determinazione autentica e genuina non può che fermarsi, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte” (Cass. Sez. I, 29.5.2002, n. 26446,in Cass.Pen,2003,542).

[11] “Il rispetto della dignità della persona, che il detenuto ha ritenuto  violata dall’operato dell’Amministrazione penitenziaria, costituisce una posizione giuridica soggettiva qualificabile quale diritto soggettivo pieno e costituzionalmente tutelato dall’art. 27 Cost.. Ne consegue l’ammissibilità del reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 69 Ord.penit., anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 99/26, la quale,  riconosciuta la carenza, nell’ordinamento vigente, di uno strumento giuridico adeguato di tutela delle eventuali lesioni dei diritti delle persone detenute, auspica un intervento del legislatore nel senso indicato,essendo ad ogni effetto insufficiente l’attuale disciplina dettata dagli artt. 35 e 69 Ord.pen “ (Mag.sorv.Vercelli,ord.17.4.2003,in  Giur. Merito , 2003,9).

[12] La giurisprudenza più recente ha condiviso l’orientamento secondo cui “I reclami contro i provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria che incidono  sui diritti dei detenuti, tra cui quelli relativi ai colloqui e alle  conversazioni telefoniche, danno origine a procedimenti che si concludono con  decisioni del magistrato di sorveglianza munite della forma e del contenuto  della  giurisdizione.  Ne consegue che in mancanza di forme procedurali speciali  relative  alla materia dei reclami contro gli atti dell'Amministrazione  lesivi  dei  diritti dei detenuti, l'attuazione della tutela giurisdizionale  deve necessariamente realizzarsi attraverso l'ordinario modello procedimentale  delineato  dall'art. 678 cod. proc. pen., che attraverso il rinvio  all'art. 666, comma 6, dello stesso codice, rende ricorribili per cassazione le ordinanze emesse dalla magistratura di sorveglianza.” (Cass. Sez. I, 15.5.2002, n. 22573, p.m. in proc. Valenti,in Ced Cass.;conforme Cass. Sez. I, 19.2.2002, n. 654, Di Liberto, in Rass. Pen. Crim.,2002,231). Un indirizzo di merito ha affermato che “Il reclamo proposto dal detenuto riguarda il diniego di concessione dell’autorizzazione al colloquio con la signora. XXX, persona diversa da familiare o convivente. (…) La posizione giuridica dell’odierno reclamante consiste nel diritto alla corretta osservanza delle norme in materia di colloqui, espressamente individuata dalla ricordata sentenza delle SS.UU. come posizione giuridica soggettiva suscettibile di tutela giurisdizionale piena, e pertanto adeguatamente valutabile con la procedura prevista dagli artt. 14 ter e 69 L. 354/75.” (Mag.sorv.Varese, ord. 24.2.2005). In dottrina, per un ampio excursus giurisprudenziale, sia consentito il rinvio a F. Fiorentin- G.G.Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, CEDAM,Padova 2007. Per quanto concerne i profili di tutela a livello europeo, il leading case è costituito dalla sentenza CEDU 15.11.1996 (Diana c. Italia, in S. Bartole - B. Conforti- P. Raimondi, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedam,Padova 2001, 311-312.

[13] Cass., Sez. I, 30.01.08, n. 7791, in Ced Cass.

[14] Cass., Sez. I,10.05.07, n. 20673, in Ced Cass. Ricorrendo le condizioni previste dalla legge,  l’accesso alla procreazione assistita integra, infatti, un diritto soggettivo perfetto garantito al cittadino dall'art. 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, pubblicata in G.U. n. 45 del 24 febbraio 2004).  Nella giurisprudenza europea rileva la decisione adottata dalla CEDU (Grande Chambre, sent. 4 dicembre 2007, Dickson vs. Regno Unito), che ha condannato il Regno Unito per violazione dell’art. 8 della Convenzione.  La giurisprudenza di merito si è occupata di un caso in cui tale procedura appariva la più idonea ad evitare rischi per il feto, poiché il padre, detenuto, era risultato positivo per HCV (Mag. sorv. Padova, ordinanza 29 gennaio 2009).

[15] La Corte ricorda che l’articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Esso proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i fatti commessi dalla persona interessata (Saadi c/Italia [GC], n. 37201/06, § 127, 28 febbraio 2008, e Labita c/Italia [GC], n. 26772/95, § 119, CEDU 2000-IV). Esso impone allo Stato di assicurarsi che le condizioni detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente assicurate (Kudła c/Polonia [GC], n. 30210/96, § 92-94, CEDU 2000-XI).

[16] Sulla sentenza costituzionale n. 26/99, cfr. S. Bartole, I requisiti dei procedimenti giurisdizionali ed il loro utilizzo nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 1999, num. 1, 190;  E. Fazzioli, Diritti dei detenuti e tutela giurisdizionale, in Giur. Cost., 1999, num. 1, 199; M. Ruotolo, La tutela dei diritti del detenuto tra incostituzionalità per omissione e discrezionalità del legislatore, in Giur. Cost., 199, num. 1, 203; C. Santoriello, Quale tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti dell'Amministrazione Penitenziaria?, in Giur. Cost., 1999, num. 1,222.

 

 

 

 

 

 

[17] In dottrina, ex plurimis, cfr. A.Presutti, La disciplina del procedimento di sorveglianza dalla normativa penitenziaria al nuovo codice di procedura penale, in RIDPP, 1993,993. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 26/99, aveva precisato che “(…)i procedimenti e le varianti procedurali previste, nei singoli casi, dall’ordinamento, sono numerosi e importanti, cosicché manca un rimedio giurisdizionale che possa essere considerato di carattere generale, che possa essere assunto ad archetipo da estendere ad ogni ipotesi di violazione di diritti della persona detenuta.”

[18]Sez.Un., 26.2.2003,n. 25079,Gianni,in Giust. Pen.,2004,II,282-300): “(..)l'esistenza di un microsistema entro il quale lo stato di detenzione, lasciando sopravvivere posizioni soggettive e spazi di tutela giurisdizionale coincidenti col diritto di azione, anche a prescindere dalle tipizzazioni stratificate da novazioni legislative o da decisioni della Corte costituzionale, impone la verifica dello strumento attivabile, da attivare sempre e comunque in un modello diretto ad investire la magistratura di sorveglianza” (Sez. Un. penali, 26 febbraio 2003, n. 25079).

[19] (…) sembra dunque sgomberato il campo da dubbi residui circa la titolarità in capo ai detenuti di diritti soggettivi e la conseguente attribuzione al giudice ordinario della competenza a conoscere delle eventuali lesioni di tali diritti poste in essere … mediante atti dell'Amministrazione penitenziaria. Legittimata dunque a conoscere di atti e comportamenti lesivi provenienti dall’Amministrazione penitenziaria è la magistratura di sorveglianza, alla quale la Corte costituzionale riconosce “una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati”e, specificamente il magistrato di sorveglianza quale giudice “più vicino””(L.Cesaris , Nota a ord.Mag.Sorv.Agrigento 8.11.2001, in Rass. Pen. Crim., 2002, 237. Nello stesso senso, cfr. Della Casa F., Un importante passo verso la tutela giurisdizionale del detenuto, in Dir.Pen.Proc.,1999, 859).

[20]Cass. Sez.I,14.4.2005, n. 13986, Rv. 231438,  Di Bari, CED Cass.

[21] Si rilevano, infine, dei limiti all’autonomia valutativa del pubblico ministero: non gli è consentito, a es., di emettere ordine esecutivo anche se, dall’esame dei precedenti, egli riscontri la revocabilità della sospensione condizionale: occorre che l’accertamento segua ad un provvedimento definitivo del giudice al riguardo, assunto nel contraddittorio del condannato (Cass.Sez.I, 15.3.1996, Verde, CP, 1997, 434; Cass.Sez. VI, 9.2.1996, Orlando, CP, 1997; Cass. Sez. VI, 27.8.1997, Mangione, CP,   1998, 2048; Cass. Sez. 5, 28.3.1996, PM. in proc. Juric, CED Cass. ; Cass. Sez. I, 8.2.1999, PM. in proc. Pelle, CP, 2000, 947).

 

[22] Per tutti, cfr. V.Grevi (a cura di), Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella l.10 ottobre 1986, n.663, in L’ordinamento penitenziario dopo la riforma (L.10 ottobre 1986, n.663), CEDAM, Padova 1988, 83.

[23] Fiorentin e Marcheselli, cit., 27.

[24] Cass. Sez. I, 7.3.2001; Cass. I, 16.2.2000; Cass. Sez. I, 6.3-8.4.2008, n. 14656.

[25] Cfr. Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa,(reperibile alla url www.europeanrights.eu), I diritti fondamentali nello spazio di libertà sicurezza e giustizia - prospettive e responsabilità dopo il trattato di Lisbona, 2009.

 

 

 

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