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COSA RISARCIRE AL MEDICO: ASPETTI PATRIMONIALI E NON PATRIMONIALI

 

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Avv. Stefano Rossi

Casella di testo: Un mattino d’inverno (fuori nevicava, in una luce torbida) K. stava nel suo ufficio, già stanchissimo benché fosse ancora presto […]
Il pensiero del processo non lo lasciava più. Più volte aveva pensato se non sarebbe stato meglio stendere un memoriale di difesa e inviarlo al Tribunale.
Lo avrebbe fatto precedere da un breve curriculum, spiegando per ogni avvenimento di qualche importanza, per quali ragioni si era comportato così, se questo comportamento, secondo il suo giudizio attuale, era da approvare e da condannare, e quali erano i motivi per l’una o l’altra alternativa.
 
Il Processo – F. Kafka

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Una premessa: la medicina difensiva come causa e non come soluzione.

 

Viviamo in un contesto giuridico e culturale nel quale quando si verifica un incidente, la tendenza immediata è quella di cercare ed individuare un colpevole al quale vanno attribuite le responsabilità: ciò determina quindi una reazione che si sviluppa principalmente sotto il profilo disciplinare e sanzionatorio. L’organizzazione e l’amministrazione, nel cui ambito si è originato il processo causale che ha portato all’evento lesivo, invece, rimangono sullo sfondo come se la ricerca delle responsabilità individuali costituisse la panacea di tutti i mali. A fronte di tale situazione la medicina difensiva diventa la soluzione più semplice che i medici vengono ad adottare per tentare di tutelarsi, anche se ciò inibisce l’apprendimento organizzativo, con il rischio di minare la qualità delle attività di cura aumentandone i costi.

Nella definizione fornita dal Congresso degli Stati Uniti[1], la medicina difensiva si concreta in quell’insieme di condotte e prassi adottate dai medici volte a ordinare esami, procedure o visite (assurance behaviors)[2], o ad evitare di dover trattate pazienti a rischio o procedure ad alto rischio (avoidance behaviors)[3], principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la propria esposizione al contenzioso legale. Esistono perciò due tipi di comportamento difensivo: l’uno orientato ad effettuare azioni e procedure in esubero, l’altro, invece, indirizzato ad eludere alcuni trattamenti che possono essere considerati a rischio.

La percezione di un rischio concreto[4] di incorrere in un’azione di responsabilità induce i medici a modificare le proprie condotte professionali, in modo tale che la tutela della salute del paziente, può, spesso, diventare per il sanitario un obiettivo subordinato alla minimizzazione del rischio legale.

Tale fenomeno è strettamente legato all’aumento costante delle richieste di risarcimento da parte dei pazienti, che rivela come la categoria degli operatori sanitari sia particolarmente esposta al rischio di dover affrontare procedimenti giudiziari tanto in sede civile che in sede penale[5].

Detto questo, ci si può chiedere il perché abbia dato avvio alla mia esposizione dalla considerazione del fenomeno della cd. medicina difensiva. Semplicemente perché nella vulgata la si considera uno strumento efficace, uno scudo pre-giudiziario, se serve utilizzabile anche nelle aule dei Tribunali, per ridurre l’esposizione al rischio di essere vittima di cause di malpractice.

In realtà tale atteggiamento da parte della classe medica comporta una sorta di eterno ritorno all’errore[6], nella misura in cui la medicina difensiva è causa di un aumento esponenziale della conflittualità tra il personale sanitario (in quanto ognuno pensa in primis a tutelare sè stesso) e nei confronti dei pazienti, dando luogo inevitabilmente ad un clima nel quale il rischio di errore[7] cresce esponenzialmente.

Essenziale appare quindi il processo di decostruzione del concetto di medicina difensiva, in quanto ad essere rilevante è il profilo sistemico di tale fenomeno nella misura in cui le conseguenze dell’errore medico si irradiano non solo attraverso i danni ai pazienti e la condanna degli operatori e delle strutture sanitarie, ma hanno un impatto sulla gestione dei rischi e dei relativi risarcimenti e conseguentemente sul funzionamento e sui costi degli ospedali.

 

Quali gli strumenti per ottenere giustizia ?

 

L’aumento delle denunce in materia di responsabilità medica induce a riflettere sugli strumenti che il nostro ordinamento mette a disposizione per tutelare i diritti e gli interessi dei medici vittime di ingiuste accuse: in particolare si possono prospettare, in astratto, diversi percorsi che vanno dalla presentazione di una querela per calunnia nei confronti del paziente o dei suoi familiari (con la speranza di potersi costituire parte civile in un’istaurando procedimento penale a loro carico), alla citazione in giudizio per ottenere, ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c., il risarcimento dei danni che da una denuncia infondata inevitabilmente derivano a chi è ingiustamente coinvolto in un procedimento giudiziario, sia esso civile che penale, ed infine alla reazione di tipo processuale del medico convenuto in un giudizio civile, il quale potrebbe richiedere, in via riconvenzionale, il risarcimento del danno o la condanna dell’attore per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c.[8].

Tuttavia, passando dalla poesia del diritto ideale alla prosa della prassi giudiziaria, si può notare come sia una «porta stretta»[9] quella che deve attraversare il medico per ottenere giustizia, in quanto sia la contro-querela per calunnia che l’azione autonoma di risarcimento danni si appalesano come soluzioni poco praticabili e irte di insidie, specie per l’onere probatorio che verrebbe a gravare sul medico.

In particolare quest’ultima ipotesi trova un’evidente limite nella consolidata giurisprudenza[10], secondo cui necessario presupposto dell’azione risarcitoria è la configurabilità del reato di calunnia ex art. 368 c.p.[11], dato che «la sola denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione dell’imputato, se non quando essa possa considerarsi calunniosa» (ex plurimis, Cass. civ., 20 ottobre 2003, n. 15646; Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005, n. 560; App. Roma, sez. III, 6 febbraio 2007; Trib. Roma, sez. XII, 16 febbraio 2009; Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2009, n. 13531; Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 2010, n. 1703; Trib. L’Aquila, 8 febbraio 2010; Trib. Bologna, sez. III, 21 settembre 2010)[12].

Interessanti sono invece i riscontri in giurisprudenza[13] relativamente al caso in cui il medico si sia difeso chiedendo la condanna della controparte al risarcimento del danno per lite temeraria[14], concetto che definisce quel particolare illecito avente ad oggetto non un qualunque fatto, bensì un comportamento particolarmente qualificato, ossia un’attività processuale, colorata, nell’ipotesi di cui al primo comma, da malafede o colpa grave, in quelle di cui al secondo, da mancanza di “particolare prudenza”, prevedendosi infine al terzo comma una sorta di sanzione per l’ipotesi di temerarietà “temperata”[15]

Occorre precisare, onde scongiurare possibili equivoci, che i danni in questione non presentano differenze ontologiche quanto alla natura delle conseguenze lesive rispetto ai danni considerati dal diritto sostanziale, per cui l’elemento discretivo e peculiare dei danni processuali è costituito dalla fonte causativa del pregiudizio, ascrivibile – secondo un nesso di derivazione eziologica immediata e diretta – ad un’attività processuale svolta dal litigante temerario o imprudente, cioè ad un contegno tenuto in un processo o ad esso correlato[16].

Volendo riassumere si può icasticamente dire che, per prassi consolidata, “la difesa è il miglior attacco”, ossia che il medico ha maggiori possibilità di veder tutelati e risarciti i suoi diritti quando innesta la propria azione nel solco del procedimento avviato dal paziente, muovendosi sostanzialmente in “contropiede” attraverso una riconvenzionale ovvero con domanda ex art. 96 c.p.c.  

 

Il danno patrimoniale.

 

L’essere chiamati in Tribunale a seguito di una malpractice litigation per il medico ha gravi ripercussioni sotto il profilo professionale, economico, morale e psicologico-relazionale.

Pare necessario approfondire il profilo attinente al versante patrimoniale del danno che può subire il medico in tali circostanze, notando come le conseguenze di una denuncia ingiusta possano ingenerare diversi effetti a seconda che il sanitario sia un dipendente di una struttura pubblica o privata, ovvero svolga, in via esclusiva o meno, anche la libera professione.  

Nel caso di lavoro dipendente presso strutture pubbliche o private, infatti, il medico – su determinazione della direzione sanitaria – potrebbe essere sospeso e, nei casi più gravi licenziato, il che comporterebbe una evidente perdita patrimoniale, facilmente quantificabile essendo per lo più corrispondente alla retribuzione che egli avrebbe percepito. Più complessa è invece la valutazione da effettuare per il medico libero professionista, nella misura in cui, pur potendo valutare il quantum del danno emergente, comprensivo di ogni perdita di utilità attuali già presenti nel suo patrimonio, sulla base della situazione preesistente la denuncia, si può profilare anche una perdita corrispondente al lucro cessante, costituito dal venir meno per il futuro di un reddito di cui si fruiva in precedenza nonché di ogni mancato guadagno eventuale che si sarebbe prodotto in futuro - in eccedenza rispetto a quello ristorato quale perdita attuale - laddove il fatto illecito non fosse stato attualizzato dal danneggiante. Si tratta quindi di considerare anche il mancato guadagno solitamente commisurato alla ricchezza che il danneggiato avrebbe potuto presuntivamente ottenere in futuro, ma non ha conseguito.

Danno emergente e lucro cessante individuano due concetti diversi anche dal punto di vista temporale, in quanto il primo si è già prodotto, occasionando danno attuale, mentre il secondo, vale a dire il lucro cessante, deve ancora prodursi (danno eventuale) o non si sarebbe prodotto in futuro se non vi fosse stata la denuncia per malpractice del paziente[17].  

Connessa al lucro cessante è poi l’ipotesi di danno determinato da perdita di chance. In merito al danno conseguente alla perdita di chance, occorre premettere che essa va intesa come concreta ed effettiva occasione di conseguire un determinato bene o risultato, ossia non va intesa come una mera aspettativa di fatto, ma come un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, già esistente nel patrimonio del danneggiato al momento del verificarsi dell’illecito, la cui perdita integra un danno che, se allegato e provato, deve essere risarcito[18]. Il risarcimento del danno da perdita di chance risulta funzionale, quindi, alla tutela del patrimonio del soggetto sia sul versante dell’essere, la perdita dell’occasione, sia su quello del dover essere, le utilità che da quell’occasione potevano derivare (art. 1223 c.c.); in questi termini tale danno si presenta come una pura perdita patrimoniale (pure economic loss), ossia un pregiudizio meramente economico che consegue alla lesione di interesse protetto del danneggiato[19].

In particolare, in ambito sanitario, la perdita di chance può concretarsi nell’azzeramento ovvero nella maggiore difficoltà per il medico, colpito da una denuncia ingiusta, di ottenere un avanzamento di carriera o di vincere un concorso pubblico[20]. Nell’applicazione pretoria il danno de qua viene quantificato e liquidato prendendo in considerazione un criterio equitativo ed individuandone il canone applicativo nella valutazione della probabilità di promozione che aveva il danneggiato desunta dal rapporto tra i dipendenti promossi e i dipendenti astrattamente idonei alla promozione. La valutazione della chance in termini di effettività deve dunque tener conto anche delle possibilità di cui godevano i soggetti concorrenti con il danneggiato ed aventi analoghe o comparabili possibilità di successo, e non può pertanto ridursi a tutela di una mera aspettativa di fatto, ma deve essere valutata sulla base delle concrete e ragionevoli possibilità di risultato.

Non da ultimo va considerato pure il danno alla reputazione (che può essere causa di una mancata promozione sul lavoro o della perdita di clientela per il libero professionista) che consiste nella proiezione verso l’esterno dell’insieme dei valori che vengono riconosciuti ad una persona dal corpo sociale e che concernono non solo le qualità morali ma qualsiasi ambito e aspetto in cui si esplica la vita umana sia essa inerente l’attività economica, culturale, politica o sociale. Essa non consiste in un sentimento individuale, scollegato dal mondo esterno, o nel semplice amor proprio che ciascuna persona ha per se stessa; la reputazione che rileva giuridicamente va identificata con l’idea di dignità personale che è presente, in un dato momento storico, nell’opinione comune e che è ritenuta esigibile da parte di tutti i consociati.

Sotto questo profilo, è necessario tener distinto il diritto alla reputazione professionale dal diritto alla reputazione personale, poiché nel primo la lesione provoca un discredito “commerciale” a danno del soggetto esclusivamente nel settore lavorativo in cui opera, mentre nel secondo caso si ha una lesione della sua dignità e del prestigio di cui ogni persona gode indipendentemente dall’attività che svolge. Pertanto, il soggetto (medico libero professionista o lavoratore subordinato che sia) che  subisce, a seguito dell’ingiusta accusa, una lesione della propria reputazione professionale ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente alla lesione[21].

Si può terminare considerando, da un lato, le spese irripetibili[22], ed in particolare le spese stragiudiziali che la parte sostiene per l’approntamento della propria linea difensiva, per la ricerca dei mezzi probatori, per i colloqui con il proprio difensore, per recarsi nel luogo di ubicazione del giudice competente e altre spese di carattere preparatorio rispetto alla lite, purché si tratti di esborsi in stretta connessione causale con l’attività processuale[23], con l’esclusione delle spese eccessive o superflue; dall’altro, i c.d. opportunity costs, cioè le utilità non conseguite per attività lavorativa non prestata e per il temporaneo abbandono delle proprie attività in ragione del dispendio di energie necessariamente impiegati per colloqui col difensore o per interessarsi allo svolgimento del giudizio (Trib. Milano 14 maggio 2003; Trib. Roma, 9 ottobre 1996). Vi sono infine da considerare, in quanto non certamente secondari, i costi indiretti che il medico subisce a livello di rinnovo della polizza assicurativa sulla responsabilità professionale[24]. Non è superfluo rammentare che, nel nostro Paese, alcune tra le maggiori compagnie assicurative, già oggi, rifiutano di prestare la garanzia ai ginecologi ed ai chirurghi plastici e, considerando spesso la semplice denuncia al pari del sinistro,  tendono a revocare la polizza a chi sia stato vittima di richiesta risarcitoria ancorché terminata senza esito. Ciò determina una vera difficoltà a trovare poi una compagnia che assuma il rischio rifiutato da altra e comunque a costi superiori.

 

Il danno non patrimoniale.

 

La storia del danno non patrimoniale ha visto trascorrere un lustro abbondante tra la celebre svolta interpretativa sancita dalle sentenze gemelle (Cass. civ., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in Resp. civ. prev., 2003, 675, con nota di P. Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà) e le quattro recenti decisioni adottate in serie dalle Sezioni Unite nel 2008.

Queste ultime pronunce presentano un corpo comune dedicato all’esame e alla ridefinizione della complessa materia della responsabilità extracontrattuale, del sistema risarcitorio inerente il danno non patrimoniale. Tale intento, tuttavia, non ha trovato concreta realizzazione; per usare una metafora abusata ma quanto mai adatta a descrivere la sensazione che si ricava dalla lettura di tale corpo comune, ben si può affermare che la montagna ha partorito un topolino[25].

A nessuno sfugge la sproporzione che emerge tra lo sforzo profuso nell’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 dove viene evocata tutta la complessa trama di nodi che devono essere sciolti al fine di dar vita ad un sistema risarcitorio armonioso e costituzionalmente coerente e la risposta fornita dalle sentenze dell’11 novembre 2008.

A venire, anzitutto, in evidenza è la sostanziale inadeguatezza di carattere dogmatico della quale appaiono permeate le argomentazioni messe in campo dai giudici di legittimità. Le stesse risultano esposte in maniera frammentaria[26], peccano spesso di approssimazione (basti pensare all’elencazione dei casi tipici cui rimanda l’art. 2059 c.c., incompleta e inesatta nei riferimenti)  e si rivelano ora contraddittorie[27], ora categoriche, mettendo in luce inversioni logiche[28]  e alimentando vere e proprie aporie.

Ed è in particolare l’aprioristico rifiuto formulato dalle Sezioni Unite ad utilizzare razionalmente una griglia fenomenologica utile a distinguere le varie categorie di danno[29], anche al fine di governare la materia risarcitoria in termini più generali, che ha spinto autorevole giurisprudenza di merito [30] e di legittimità[31] a discostarsi dalle indicazioni della Suprema Corte, abbracciando altresì le elaborazioni della scuola triestina.

Così dovendo interrogare la vittima di un illecito produttivo di danni non patrimoniali – come nel caso che ci riguarda – non chiederemo al danneggiato quali compromissioni del valore-uomo questi ritenga di aver subito, ma più semplicemente cercheremo di illustrare le varie conseguenze negative subite sul piano del valore salute (danno biologico), sul piano emotivo (danno morale), nonché i cambiamenti della propria vita esterna (c.d. sconvolgimento dell’agenda di vita fonte del danno esistenziale) indotti dal torto. Solo una volta effettuato l’inventario circa la ricorrenza di questo o quel riflesso negativo, si tratterà di valutare l’idoneità dello stesso a incidere sul valore-uomo.

In questa prospettiva si possono delineare a carico del medico diverse conseguenze negative che a loro volta si concretano in diverse voci di danno. Si può prospettare, in alcuni casi, la trasmutazione delle predette conseguenze in forma di danno alla salute (o biologico)[32] del medico vittima di una denuncia ingiusta: si cita, a conferma, lo studio pubblicato nel 1999 da Ashok[33] che ha rivelato come una percentuale di medici di medicina generale, di fronte ai «complaint» da parte dei propri assistiti, avessero reagito con perdita di stima in sé stessi, stati di depressione accompagnati da idee suicidiarie.

Non meno devastanti sul piano complessivo sono inoltre i possibili danni morali che si vengono a creare: essi si manifestano nella sofferenza, turbamento, stress e angoscia determinati dalla condizione di precarietà, dal senso di colpa che consegue all’accusa di aver commesso un errore e dal fatto che tale errore, nel peggiore dei casi, ha avuto effetti anche mortali.

E’ stato autorevolmente[34] sottolineato come il danno morale (“temporaneo e transeunte”, secondo la giurisprudenza, ma anche, talvolta, eterno ed immutabile) appartenga alla relazione dell’io con sé stesso e con il proprio sé, riflettendosi sull’intimo della persona.

In tal senso varie indagini empiriche hanno dimostrato che i medici accusati di malpractice - prima e durante il processo - soffrono di gravi traumi emozionali, in particolare l’essere processati provoca sentimenti uguali a quelli di un grave lutto, determinando conflitti a proposito delle propria identità e capacità professionale e personale[35].

Ed è proprio questo aspetto[36] che differenzia il danno morale sia dal danno esistenziale, che è riverbero di un vissuto esterno, modificazione delle proprie abitudini, regola, modalità, entusiasmi del vivere con gli altri e tra gli altri, sia dal danno all’immagine professionale, nel suo aspetto non patrimoniale.

Tornando su quest’ultimo si deve notare che la locuzione “danno all’immagine”[37] individua, comunemente, diverse lesioni di diritti inerenti alla personalità, tra cui il diritto all’identità personale (ossia il diritto di essere rappresentato nella realtà sociale con la propria identità), all’onore (a non essere offeso nella considerazione che si ha di sé stesso), alla reputazione (a non vedersi pregiudicata la considerazione che gli altri, in un determinato contesto sociale, economico o commerciale, hanno della nostra persona). La lesione della suddetta situazione giuridica soggettiva, avente una rilevanza costituzionale in forza del dettato di cui all’art. 2 Cost., risulta risarcibile quale danno non patrimoniale, ai sensi e nei limiti di quanto disposto dall’art. 2059 c.c. (Trib. Palermo, sez. III, 7 febbraio 2011; Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2009, n. 22190).

Nella liquidazione di tale danno, possono essere presi quali elementi di valutazione le condizioni sociali del danneggiato e la sua collocazione professionale, in ragione del fatto che il patema d’animo e le sofferenze morali non possono prescindere dal discredito che ne può derivare al soggetto leso nel contesto sociale e lavorativo in cui esso vive.

Vi è poi il danno esistenziale[38] che si fonda sull’idea secondo cui il “valore umano perduto” non è riducibile al mondo interiore, ma contempla il mondo esterno essendo essenzialmente « riverbero di vissuto esterno e modificazione delle proprie abitudini»[39].

Il danno esistenziale[40] si differenzia dagli altri tre canonici tipi di danno: da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una lesione della psiche o del corpo; da quello morale, in quanto esso non consiste in una sofferenza ma nella rinuncia di un’attività concreta; da quello patrimoniale, in quanto esso può sussistere a prescindere da qualsiasi compromissione del patrimonio.

Il danno esistenziale è quindi un pregiudizio areddituale, non patrimoniale, tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione ad attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento”. Pertanto, si verserebbe in tale ipotesi tutte le volte che viene ad essere compromessa, più o meno definitivamente, l’attività creatrice della persona umana, il suo rapporto con il tempo e con lo spazio (ivi compresi il riposo, le attività ricreative e lavorative - che si concretizzi nella lesione del diritto alla “serenità personale”, alla vita sociale ed alla vita affettiva), insomma quando si verifica un peggioramento della qualità della sua vita[41].

Il danno esistenziale si ricollega, in sostanza, alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui esplica la propria esistenza e può manifestarsi alla stregua di un penoso travaglio che impedisce in tutto o in parte di attendere alle ordinarie occupazioni, tra le quali – naturalmente – visitare o operare i malati con l’abituale concentrazione. In tale contesto il danno esistenziale si concreta così nel «…dover organizzare la propria difesa temendo che la verità non verrà ristabilita, sentirsi tagliati fuori dai vari circuiti, sobbalzare all’uscita dei quotidiani, intercettare sorrisetti furtivi nei caffè, ossia i rovesciamenti forzati dell’agenda di vita…»[42].

In questo quadro si deve ritornare infine sul danno da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. che comprende tutte le ipotesi di atti e comportamenti processuali delle parti e copre ogni possibile effetto che ne derivi (Cass. civ., 1 febbraio 1993, n. 1212; Cass. civ., 12 marzo 2002, n. 3573; Cass. civ., 23 marzo 2004, n. 5734). La natura onnicomprensiva della disciplina degli atti e dei comportamenti (processualmente illeciti), che inducono responsabilità da lite temeraria, non comporta limitazione alla risarcibilità delle conseguenze residuate a carico della parte, in quanto tale responsabilità rende risarcibile “qualsiasi tipo di danno” causato da uno dei comportamenti tipicizzati connessi al processo e, perciò, “senza alcuna limitazione ai soli danni processuali”. Possono venire quindi in considerazione non solo i danni patrimoniali[43], ma anche quelli di natura non patrimoniale[44].

In particolare, tra le voci del danno risarcibile ai sensi dell’art. 96 c.p.c. può ricomprendersi anche quello esistenziale. La dimostrazione del pregiudizio esistenziale può essere desunta, in via indiretta, da nozioni di comune esperienza, considerando il danno che la parte abbia subito in quanto costretta a contrastare un’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario; il nocumento si compendia nell’impatto negativo che il processo determina sulla quotidianità del soggetto leso[45] (Trib. Bologna, 24 maggio 2005, in www.personaedanno.it.; Trib. Reggio Emilia, 31 maggio 2005, in www.personaedanno.it in entrambi i casi il danno esistenziale è stato liquidato equitativamente. Anche Trib. Bologna, 27 gennaio 2005, in Resp. civ. prev., 2005, 1430).

 

Una conclusione.

 

Prima che un istituto giuridico, il risarcimento del danno è finanche geneticamente espressione di una specifica forma di giustizia, una forma che ha natura schiettamente giuridica. In questi termini il problema del danno si presenta come rottura di un equilibrio (funzionale) connesso alla giustizia tra sfere private, quella del paziente danneggiato dall’imperizia del sanitario ovvero del medico colpito da una falsa accusa di negligenza professionale. Gli strumenti messi in campo dall’ordinamento per sanare le “ferite” che conseguono all’illecito sono stati sommariamente esposti, ma è necessario guardare oltre, per ridefinire il baricentro del sistema della responsabilità in campo sanitario, in funzione degli attori e dei decisori che vi operano: così se è vero che il costo del danno non deve esser fatto gravare sull’intera società ma sul cheapest cost avoider, cioè su chi può assumerlo nel modo più efficace ed economico possibile, allora a rispondere e ad assumersi l’onere di un rischio - che ha spesso la sua eziologia nell’organizzazione delle strutture sanitarie – devono essere essenzialmente coloro che erano in condizioni di minimizzare i danni, senza per questo ridurre i benefici che un servizio come quello sanitario apporta[46]

 


 

Relazione al convegno “Cura, guarisci e risarcisci: dalla parte dei pazienti, dalla parte dei medici ”, Ospedale Maggiore, Bologna, 13 maggio 2011.

[1] US Congress., Office of Technology Assessment, Defensive medicine and medical malpractice, OTA-H-602, Washington DC: US Governement Printing Office, 1994.

[2] Ad esempio prescrivere una mammografia per una donna in giovane età che non presentasse segnali di un possibile tumore al seno.

[3] Ad esempio l’esecuzione di una biopsia che presenti delle controindicazioni e sia disposta per finalità esclusivamente difensive.

[4] Nel corso della propria vita 8 medici su 10 riceveranno una richiesta di risarcimento: questo è quanto emerso da un congresso organizzato dalla Società italiana di chirurgia. Nonostante la sanità italiana sia stata considerata “eccellente” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il contenzioso medico legale in Italia è aumentato del 184% negli ultimi 10 anni (Doctornews, Sic, +184% di denunce in 10 anni, 7 maggio 2009, 81, 21 ss.)

[5] Le motivazioni che possono spiegare linsorgere del fenomeno sono numerose e complesse, fra le quali: lo sviluppo scientifico che ha aumentato la prevedibilità del successo terapeutico riducendo la possibilità di giustificazione dell’errore, le false aspettative del paziente, l’insuccesso nella comunicazione fra medico e paziente. Si assiste anche ad una trasformazione antropologica del paziente che, a fronte di un’accresciuta tutela del diritto alla salute, iper-responsabilizza il medico e deresponsabilizza se stesso.

[6] Infatti ogni volta che si verifica un incidente di rilievo all’interno di un organizzazione complessa (nella specie un ‘ospedale) si avvia un procedimento penale, volto ad accertare cause e responsabilità dell’evento con la finalità di comminare sanzioni. L’approccio penalistico e retributivo che caratterizza tale procedimento viene a influire anche sul successivo svolgimento in sede civile della causa, per cui – adottando un modello causale lineare incentrato sulla ricerca e rimozione dei responsabili – si ottengono risultati parziali e spesso superficiali, che non consentono di individuare e sanare le falle e i difetti gestionali ed organizzativi all’origine della condotta del singolo. E’ più facile infatti individuare il soggetto a più stretto contatto con il sistema (il medico, l’infermiere…) quale responsabile dell’accaduto piuttosto che i fattori latenti, di natura organizzativa e manageriale.

[7] Con riferimento al sistema sanitario, si è notato come lavorare sotto la minaccia di una controversia legale crea un clima di paura che non conduce al miglior uso delle persone in un sistema medico. Proprio per tali motivi, i medici tendono a nascondere gli errori e a promuovere i comportamenti di medicina difensiva (A. Merry, A.M.C. Smith, Errors, Medicine and the Law, Cambridge University Press, Cambridge, 2001; trad. it. L’errore, la medicina e la legge, Milano, Giuffrè, 2004). 

[8] L’art. 96 c.p.c. che disciplina tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 2043 c.c., di modo che la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96, senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità (Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5069; Cass. civ., sez. III, 20 luglio 2004, n. 13455).

[9] Anche se evangelicamente l’invito è ad entrare «per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti son quelli che entran per essa. Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano»  (Matteo 7:13-14).

[10] Fanno leva su un orientamento minoritario che ravvisa la responsabilità del denunciante anche in caso di colpa grave, e non  solo di dolo, U. Dal Lago, E. Bressan, A. Casarotto, Denuncia infondata: risarcimento dei danni solo in caso di calunnia ?, in www.personaedanno.it. D’altra parte affermare la responsabilità del denunciante sulla base della semplice colpa scoraggerebbe le denunce privandole della loro funzione, essendo peraltro normalmente prevedibile una disparità di valutazioni giuridiche tra il denunciante, anche il più esperto, e gli organi istituzionalmente deputati al vaglio della fondatezza o meno della notitia criminis (vedi in tal senso Cass. 15646/2003) ed andrebbe anche contro la previsione dell’art. 541, 2° co., c.p.p., secondo il quale il semplice denunciante che non sia costituito parte civile non può mai essere condannato al risarcimento dei danni in favore dell’imputato assolto anche se versi in colpa grave (Trib. Tivoli, 26 giugno 2010, gu. Picaro).

[11] Il reato di calunnia è punito a titolo di dolo, richiedendosi la volontà dell’incolpazione, unita alla consapevolezza che l’incolpato è innocente e che il fatto attribuito ha carattere delittuoso: requisiti questi non certo agilmente dimostrabili.

[12] Ancor più esplicita è Cass. civ., sez. un., 29 novembre 1996, n. 10677 per cui «la denunzia per il reato di calunnia, rivelatasi infondata, non comporta perciò stesso la consumazione del medesimo reato da parte del denunziante, richiedendosi a tal fine che questi sia consapevole della non responsabilità del denunziato. Pertanto ove quest’ultimo ponga la propria assoluzione dal reato di calunnia a fondamento di un’azione di risarcimento del danno morale nei confronti del denunziante, è preclusa al giudice civile, in mancanza di accertamento del reato da parte del giudice penale, (e salvo che non si sia verificato un definitivo ostacolo a quell’accertamento) la liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.». Ancora Cass. civ., 27 gennaio 2010 n. 1703; Cass. civ., 11 giugno 2009 n. 13531. In senso contrario una marginale giurisprudenza di merito Trib. Napoli, 22 gennaio 2000, Giur. napoletana, 2000, 431; Trib. Bologna, 12 maggio 1994, Giur. di Merito, 1995, 29.

[13] Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2010, n. 6045; Trib. Bologna, sez. III,  9 ottobre 2007 in cui l’attore che aveva citato in giudizio il medico ritenendolo responsabile del decesso della moglie per un ritardo nelle cure prestate, era stato condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c.  in quanto era incorso in «colpa grave nell’agire nel giudizio come emerge dalle considerazioni sopra svolte in ordine alla mancata prova ma soprattutto mancata allegazione del nesso eziologico tra la morte della signora B. S. e la condotta del dott YY, circostanza ostativa ad ogni pronuncia sul merito del presente giudizio. Tale circostanza configura una grave mancanza di diligenza nell'acquisizione da parte dell'attore della consapevolezza della carenza nella allegazione e nell’offerta dei mezzi di prova a sostegno della propria tesi».; Trib. Roma, sez. XIII, 23 gennaio 2007, n. 1394; Trib. Roma, sez. XIII, 31 maggio 2006, gu. Rossetti per cui in un caso di wrongful birth, i genitori erano stati condannati a risarcire ex art. 96 c.p.c. la ginecologa, che aveva effettuato solo la prima ecografia, in quanto «secondo l'opinione unanime e concorde della scienza medica, prima della 20a settimana di gestazione è impossibile accertare l’esistenza di malformazioni cardiache. Si consideri, del resto, che quando G. N. e L. DL. eseguirono le proprie prestazioni non solo il feto non era dotato di tutti gli organi di un organismo formato, ma aveva dimensioni infinitesime, a fronte delle quali nessuno strumento per indagini ecografiche avrebbe consentito la visualizzazione delle 4 camere cardiache […]Pertanto delle due l'una: - o gli attori hanno agito nonostante ben sapessero che alla 8a od alla 13a settimana le malformazioni cardiache non sono rilevabili ecograficamente, e dunque in mala fede; - ovvero ignoravano tale circostanza, ed allora hanno agito con colpa grave, trattandosi di ignoranza inescusabile. Non rileva che tali nozioni, pur essendo incontroverse, rientrino nel campo della scienza medica: colui il quale promuove un giudizio ha infatti l'onere di accertarsi della ragionevole e verosimile fondatezza della propria pretesa, anche chiedendo pareri o consigli ad esperti del settore: e nessun esperto di ostetricia o ginecologia avrebbe mai potuto sostenere che dopo 13 settimane di gestazione siano visibili all'esame ecografico le cavità cardiache».  

[14] F. Cordopatri, L'abuso del processo, Padova, 2000; Id., Spese giudiziali (dir. proc. civ.), in ED, XLIII, Milano, 1990; Id., Responsabilità processuale aggravata, in ED, XXXIX, Milano, 1990; M. De Cristofaro, in Comm. Consolo, Luiso, II, 3ª ed., Milano, 2007; G. De Marzo, Le spese giudiziali e le riparazioni nella riforma del processo civile, in FI, 2009, V; C. Mandrioli, A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009; A. Nappi, in Comm. Consolo, De Cristofaro, Milano, 2009.

[15] Così l’art. 96 c.p.c. (Responsabilità aggravata) «1. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave [c.p.c. 220], il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. 2. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare [c.p.c. 669-bis], o trascritta domanda giudiziale [c.c. 2652, 2818], o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata [c.c. 2920, 2927; c.p. 483], su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni [c.p.c. 97] l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. 3. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».

[16] In questo senso la giurisprudenza inferisce una fondamentale demarcazione dei confini esterni della categoria oggetto di indagine: sub specie di responsabilità aggravata ex art. 96 non possono essere sussunte le conseguenze pregiudizievoli che, seppure in astratto riconducibili all’esistenza e alla durata di una lite, traggono scaturigine causale originaria in un altro fatto illecito, produttivo ex se di responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, che il giudizio è volto ad accertare, conseguenze pertanto risarcibili in base alle regole della responsabilità civile sostanziale. In questo senso l’istanza ex art. 96 c.p.c.  non può essere considerata espressione di una potestas agendi esercitabile al dì fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata, e quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice (Cass. civ., sez. III, 6 agosto 2010, n. 18344; Cass. civ., 3, 18 aprile 2007, n. 9297).

[17] La fisionomia del danno risarcibile si articola ex art. 1223 c.c. nelle due sottocategorie normative del danno emergente inteso come violazione dell'interesse del creditore al conseguimento del bene dovuto e alla conservazione degli altri beni che integrano in atto il suo patrimonio e del lucro cessante, che s'identifica con l'incremento patrimoniale netto che il danneggiato avrebbe conseguito mediante l'utilizzazione della prestazione inadempiuta o del bene leso ovvero mediante la realizzazione del contratto risoluto.

[18] La perdita di chance costituisce un’ipotesi di danno patrimoniale futuro e, come tale, essa è risarcibile a condizione che il danneggiato dimostri, sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno. Al fine di ottenere il risarcimento per la perdita di chance, dunque, è necessario provare la realizzazione in concreto almeno di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta, ossia il danneggiato deve fornire la prova del fatto che, in assenza della condotta che si assume dannosa, vi sarebbe stata, non la certezza, bensì la ragionevole probabilità di conseguire il risultato utile sperato (Trib. Rovigo, 7 luglio 2010).

[19] Si deve comunque rammentare che il danno da perdita di chance ha anche un profilo non patrimoniale per l’analisi del quale si rinvia a D. Chindemi, Il danno non patrimoniale da perdita di chance dopo le sentenze di S. Martino, in Resp. civ. prev., 2011, 2, 10 ss.

[20] Occorre tenere distinte le domande di risarcimento del danno aventi per oggetto, da un lato, il pregiudizio derivante dalla mancata promozione (promozione configurata come sicura in caso di partecipazione al concorso) e, dall’altro, la perdita di chance, cioè la mera probabilità di conseguire la promozione in conseguenza della partecipazione al concorso, in quanto costituiscono domande diverse, non ricomprese l’una nell’altra, in relazione alla diversità di fatti e circostanze da cui desumere l’entità della probabilità per l’interessato per vincere il concorso. Diverso è anche il contenuto dell’onere probatorio posto a carico del lavoratore nei due casi, in quanto, in caso di domanda di risarcimento danni per perdita di chance, il ricorrente ha l’onere di provare, anche facendo ricorso a presunzioni e al calcolo delle probabilità, soltanto la possibilità che avrebbe avuto di conseguire il superiore inquadramento, atteso che la valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile (Cass. civ., sez. lav., 18 gennaio 2006, n. 852).

[21] Sotto il profilo dello strumento processuale atto a richiedere il risarcimento di tale specie di danno si rammenta Cass. civ., sez. I, 4 aprile 2001, n. 4947 per cui «la previsione della speciale responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. comprende tutte le ipotesi di atti e comportamenti processuali delle parti e copre ogni possibile effetto pregiudizievole che ne derivi, restando perciò preclusa la possibilità di invocare, con una domanda autonoma e concorrente, i principi generali della responsabilità per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c. con riguardo ad una specifica asserita conseguenza dannosa di quegli stessi atti. Pertanto nell'ipotesi in cui il convenuto, proposta domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., proponga ulteriore domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. per il discredito professionale subito in conseguenza dell’azione giudiziaria intrapresa dall’attore, chiedendo soltanto la condanna generica di quest’ultimo, tale domanda, dovendo necessariamente essere ricompresa nell’ambito della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., deve essere dichiarata inammissibile, perchè formulata contro il principio della competenza funzionale del giudice investito del merito, al quale spetta in via esclusiva la cognizione inscindibile sull’an e sul quantum della speciale pretesa risarcitoria».

[22] Si può notare come quelli relativi alle spese irripetibili siano gli elementi sulla base dei quali definire il quantum del danno patrimoniale ex art. 96 c.p.c., così Trib. Roma, sez. XIII, 23 gennaio 2007, n. 1394 per cui «nel caso di specie, il danno ex art 96 c.p.c. patito dalla convenuta è di natura patrimoniale, e può identificarsi col dispendio di tempo ed energie necessariamente impiegati:  per i colloqui col proprio difensore; per l'approntamento della propria difesa; tempo ed energie cosi sottratti alla ordinaria attività lavorativa (è, quello in esame, il c.d. opportunity cost: si vedano in questo senso Trib, Roma 22.11.1996, Vi. c. condominio di via F., Ro., inedita; Trib. Roma 25.11.1997, in Giur romana, 1998, 65; Trib. Roma 30.3.1998, Vi. c. Sa., inedita; Trib. Roma 4.4.1998, Cu. c. Fr., inedita; Trib. Roma 6.4.1998, Vi. c. Pi. inedita; Trib. Roma 11.5.1998, Pa. c. Si., inedita; Trib. Roma 28.10.1998, Fu. c. Ve., inedita)»; anche Trib. Roma, sez. XII, 31 maggio 2006, gu. Rossetti.

[23] Le spese legali corrisposte dal cliente al proprio avvocato in relazione ad attività stragiudiziale seguita da attività giudiziale devono formare oggetto di liquidazione con la nota di cui all’art. 75 disp. att. c.p.c., se trovino adeguato compenso nella tariffa per le prestazioni giudiziali, potendo altrimenti formare oggetto di domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’altra parte, purchè siano necessarie e giustificate, condizioni, queste che si desumono dal potere del giudice di escludere dalla ripetizione le spese ritenute eccessive o superflue, applicabile anche agli effetti della liquidazione del danno in questione (Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2005, n. 14594; Cass. civ., sez. un., 5 febbraio 1997, n. 1082; Cass. civ., sez. III, 28 novembre 1987, n. 8872).

[24] Sindrome ansiosa e ulcera gastrica. Con questa diagnosi Claudio Spinella, pneumologo del «San Filippo Neri» di Roma, s’è presentato all’Amami per un’azione di rivalsa contro la paziente che nella primavera del 2002 lo aveva denunciato per imperizia. Tutto comincia con una visita in Pronto soccorso. Alla signora — che lamenta dolori addominali e difficoltà a respirare — Spinella diagnostica una sindrome ansiosa. Poi, la dimette. Dopo un anno riceve in ospedale la lettera con cui gli viene comunicato di essere «sottoposto ad accertamenti ». Quattro mesi dopo dovrà presentare al giudice una memoria difensiva. «La signora — spiega — mi accusava di non averle diagnosticato una polmonite, scoperta 20 giorni dopo grazie a un’altra visita. Secondo la sua versione, infatti, malgrado l’avesse chiesta esplicitamente, non le era stata fatta la lastra al torace necessaria per individuare la patologia. La mia "omissione" avrebbe condotto alla polmonite e a una operazione per ascesso polmonare. Ma di queste accuse non c’erano prove, né sul verbale di dimissione né sulla cartella di Pronto soccorso. Su questa base ho chiesto io stesso al giudice delle indagini preliminari di essere interrogato. E dopo un’estate passata a cercare di ricostruire i fatti e a combattere lo stato di prostrazione in cui questa vicenda mi aveva gettato, il 30 settembre del 2003 ho presentato la mia versione. Ottenendo l’archiviazione ». Un lieto fine, almeno in teoria. Senonché, per Spinella la vicenda non termina qui. Il danno economico non è lieve: alle spese per l’avvocato si sommano quelle per la compagnia assicurativa che, dopo essersi rifiutata di rinnovargli la polizza, una volta certificata l’archiviazione ha accettato di riaccenderla solo imponendo un premio più alto. C’è poi quello stato d’ansia che, lamenta il medico, tarda ad andarsene. Chissà che la rivalsa non contribuisca ad eliminarlo (tratto da “Il professionista: accusa ingiusta ma ora la polizza è più cara”, in Il Sole 24 Ore, 14.02.2005).

[25] P. Ziviz, Il danno non patrimoniale istruzioni per l’uso, in Resp. civ. prev., 2009, 1, 94 ss.

[26] Ad esempio, la regola risarcitoria in materia di danno non patrimoniale che risulta scandita attraverso tre differenti parametri - inviolabilità del diritto, gravità dell’offesa e serietà del pregiudizio -, li individua  in parti differenti del testo e non risulta mai enunciata in maniera completa.

[27] Ad esempio nella definizione del rapporto tra l’art. 2043 e art. 2059 c.c. vede affermare inizialmente una relazione gerarchica tra le due disposizioni, mentre successivamente le norme vengono considerate operanti allo stesso livello.

[28] Come quando si afferma che è l’allargamento della regola di risarcibilità ad aver attratto il danno biologico nell’orbita dell’art. 2059, mentre in realtà è accaduto l’esatto contrario.

[29] Rifiuto che trova espressione a mezzo dell’utilizzo quale categoria omnicomprensiva del danno non patrimoniale. Su questo le puntuali critiche di P. Ziviz, Le limitazioni al risarcimento del danno non patrimoniale, in www.personaedanno.it per cui «I riflessi non patrimoniali, per essere risarciti, devono essere anzi tutto descritti; e tale descrizione si traduce, inevitabilmente, nella riconduzione degli stessi all’una o all’altra delle voci non patrimoniali. Se ci si limita a parlare genericamente di compromissioni non patrimoniali, non è possibile verificare che le stesse siano state prese in considerazione nella loro integralità, per poi essere tradotte in denaro attraverso una congrua somma. E’ soltanto tramite una rigorosa distinzione contenutistica tra le varie voci – attraverso cui descrivere i differenti contenuti risarcitori di carattere non economico - che si evita la trappola della moltiplicazione dei danni. Poiché le compromissioni patite dalla vittima vanno allegate e provate, a tale fine le stesse devono essere descritte in termini positivi; una volta che ciò avvenga, non si vede perché dovrebbe essere impedito il transito delle stesse attraverso una griglia distintiva. E’ proprio quest’ultima, anzi, a rivelarsi indispensabile al fine di evitare che il medesimo pregiudizio possa essere preso in considerazione più volte. I rischi di duplicazione non vanno, quindi, sventati rinunciando a descrivere le diverse componenti del danno non patrimoniale, ma – al contrario – riportando ciascuna compromissione a una voce ben precisa».

[30] F. Bilotta, Le sentenze di merito dopo le Sezioni Unite del 2008 sul danno non patrimoniale, in Resp. civ. prev., 2009, 1499; M. Di Marzio, Danno non patrimoniale da inadempimento: le prime pronunce di merito dopo le Sezioni Unite, in Resp. civ. prev., 2009, 2245.

[31] Si veda P. Cendon, Il danno esistenziale nella giurisprudenza post 26972/2008, in www.personaedanno.it; M. Fortino, La prevedibile resurrezione del danno esistenziale, in Resp. civ. prev., 2010, 5, 1037

[32] In questi casi si può parlare più propriamente di danno psichico, che presuppone una patologia, vale a dire il simultaneo manifestarsi di una sintomatologia soggettiva e di una oggettiva, rilevabile con parametri comuni (ad esempio la patologia dissociativa, la fobica, la isterica, la paranoica). Il danno psichico colpisce la psiche costituita, secondo i canoni classici di psicopatologia, da tre fondamentali facoltà (o sfere): conoscitiva, affettivo - istintiva, volitiva. Non è sufficiente la c.d. lesione della dignità offesa, il mero turbamento dell’animo, il peggioramento della qualità della vita (come per il danno morale), ma occorre l’esistenza di una patologia permanente irreversibile; se i contorni non sono ben definiti e rimangono sfumati, si versa, direi meglio si retrocede, nella fattispecie del danno morale.

[33] J. Ashok et al., General practitioners experiences of patients complaints: qualitative study, in BMJ, 1999; 318: 1596; R. Baker, Learning from complaints about general practitioners, in BMJ, 1999; 318: 1567.

[34] G. Travaglino, Il futuro del danno alla persona, in Danno e Resp., 2011, 2, 5 ss.

[35] Si può sostenere che la prova del danno morale sia in re ipsa ma ciò non esclude la necessità di allegare elementi atti a dimostrare la sofferenza che il medico ha subito. In tali termini può favorire la difesa del medico il meccanismo probatorio per presunzione.

[36] Ossia il fatto che la sofferenza interiore si presenta come danno diverso dalla compromissione delle relazioni esterne, nella misura in cui «la lesione ai diritti della persona (alla sua serenità, al suo equilibrio, alla sua ‘felicità’: in una parola di sintesi, alla sua dignità umana) ne incide, più o meno profondamente, l’animo, i sentimenti, il vissuto, il vivibile. E suscita, pur nella unicità dei riflessi dolorosi, una duplice, disomogenea conseguenza: il dolore, la sofferenza, interiore e interiorizzata, il piccolo e grande lutto, da elaborare come perdita di ‘qualcosa’; e poi ancora la propria percezione e proiezione nel mondo esterno, il suo vivere modificato (e talvolta stravolto in svivere), il mondo delle relazioni esterne con un reale ‘altro da sé’. È questa la conseguenza dell’agire lesivo, la duplice, non omologabile conseguenza che interagisce, senza peraltro sovrapporsi, in una impredicabile unicità dimensionale ‘funzionale’ della sofferenza» Cfr. G. Travaglino, Il futuro del danno alla persona, cit., 7 ss.

[37] La dottrina e il consolidato orientamento giurisprudenziale ritengono che esista un vero e proprio diritto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo, in particolare nell’art. 2 e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della persona (in questo senso anche Corte. cost. 10 dicembre 1987 n. 479, secondo cui “l’art. 2 Cost. sancisce il valore assoluto della persona umana”). In tale contesto si inserisce certamente la disciplina degli ambiti di tutela della reputazione del soggetto, come persona, che sebbene non trovi espressa menzione nelle disposizioni costituzionali, tuttavia si ricava dai principi di cui all’art. 2 Cost. (oltre che dall’art. 3, che fa riferimento alla dignità sociale). L’espresso riferimento alla persona come singolo (art. 2 Cost.) rappresenta certamente valido fondamento normativo per dare consistenza di diritto soggettivo alla reputazione del soggetto, con conseguente sua tutela da parte dell'ordinamento (Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507).

[38] E’ stato icasticamente osservato, a questo riguardo, che il danno morale si identifica con “le lacrime”, il danno esistenziale si identifica in una “rinuncia al fare” (P. Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 139). Il danno esistenziale viene dunque configurato come un pregiudizio areddituale (in quanto il relativo risarcimento prescinde del tutto dal reddito del danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali), tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento.

[39] N. Sapone, Esistenzialismo giusnaturalistico: il danno tra l’anima e la città, in www.personaedanno.it

[40] Il danno esistenziale è ravvisabile in «ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo a scelte di vita diverse, quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità, nel mondo esterno». Il danno è ravvisabile quando la persona subisce un peggioramento qualitativo dell’esistenza, tangibilmente e giuridicamente apprezzabile, non relegato nel suo fare interiore, ma incidente sul “fare areddituale”. Tale alterazione peggiorativa della qualità della vita, ascrivibile ad un fatto o un atto illecito, può esplicarsi nei più diversi settori in cui si articolano le relazioni sociali. Come è stato autorevolmente notato, da parte di P. Cendon, Voci del verbo fare, in Persona e danno (a cura di P. Cendon), Milano, 2004, II, 1839, «dicono gli esistenzialisti: il male sta qui nella circostanza che la vittima si trova a non potere più fare le stesse cose di prima; e/o che dovrà da quel momento farne altre, tendenzialmente meno belle. Un’agenda differente di lì in avanti, un peggior interfacciamento col mondo esterno − famiglia, amici, oggetti, scuola, lavoro, abitudini, creatività, tempo libero, ambiente, ecc. La quotidianità alterata di tanto o di poco, una qualità della vita più scarsa. Per qualche tempo, o definitivamente, le attività realizzatrici non saranno più le medesime».

[41] Il processo genera stress, patema d’animo e preoccupazione nella parte che ne attende la conclusione, senza che sia tranquillizzante l’antico motto habent sua sidera lites. Nei casi più gravi, le conseguenze lesive del processo possono riverberarsi sulla salute della parte coinvolta, minandola nel corpo e nel fisico, arrecandole un danno biologico, pur se questa non è una conseguenza normale, rientrante nell’ordine delle cose. Si ricorderà come il danno alla salute fu riscontrato e liquidato dalla Corte d’Appello perugina nel caso Antonelli (App. Perugia, 27 aprile 2006). È per certi versi notorio che il processo sconvolga la vita della parte, alterandone i ritmi, le abitudini di vita, incidendo peggiorativamente sulle attività realizzatrici della persona, costretta ad occuparsi dell’attività difensiva, così sottraendo tempo ed energie ad occupazioni non remunerate, astrattamente idonee alla realizzazione personale.

[42] P. Cendon, Trattato breve dei nuovi danni, Cedam, Padova, 2001.

[43] In tal senso Trib. Roma, sez. XIII, 23 gennaio 2007, n. 1394, gu. Rossetti per cui «La domanda di condanna dell’attrice per responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., va accolta. Agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave vuol dire azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza (in tutto od in parte) della domanda o dell’eccezione;ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, od ancora senza curarsi di coltivare la domanda ritualmente proposta (ex multis, Cass., sez. lav., 21 luglio 2000, n. 9579, in Foro it. Rep. 2000, Spese giudiziali civili, n. 43; Cass., sez. lav., 16 febbraio 1998, n. 1619, in Foro it, Rep. 1998, Previdenza sociale, n. 734; Cass., sez. lav., 3 marzo 1995, n. 2475, Informazione prev., 1995, 785). Nel caso di specie, ci troviamo dinanzi al caso di una domanda proposta sul presupposto di una responsabilità del professionista, senza che l’attrice abbia: (a) chiesto di provare la dedotta altrui responsabilità; (b) allegato - e provato - il fatto primigenio e fondamentale della propria pretesa risarcitoria. e cioè l’effettiva responsabilità della casa di cura per l’infezione contratta; (c) provato i danni dei quali chiesto il risarcimento. Deve dunque concludersi che delle due l’una: 1) o l’attrice non aveva contezza del fatto che la responsabilità del medico legale esige l’accertamento dei verosimile del giudizio “sottostante” nel quale egli è chiamato a rendere la propria opera (nella specie, la controversia tra l’attrice e la casa di cura assicurata dalla A.). ed allora la stessa ha agito con colpa, consista nel non intelligera quod omnes intelligunt; 2) ovvero ben conosceva tale necessità, ed allora ha di necessità, agito in malafede. […] Per quanto attiene al quantum del danno in esame, in materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. non è necessario che l’interessato deduca e dimostri uno specifico danno, in quanto il giudice può desumerne l’esistenza e l’entità anche da nozioni di comune esperienza (cosi Cass., sez. un., 1 luglio 1992, n. 8085, in Arch. civ., 1992, 1169). Nel caso di specie, il danno ex art 96 c.p.c. patito dalla convenuta è di natura patrimoniale, e può identificarsi col dispendio di tempo ed energie necessariamente impiegati: a) per i colloqui col proprio difensore; b) per l’approntamento della propria difesa; c) tempo ed energie cosi sottratti alla ordinaria attività lavorativa (è, quello in esame, il c.d. opportunity cost: si vedano in questo senso Trib, Roma 22 novembre 1996, Vi. c. condominio di via F., Ro., inedita; Trib. Roma 25 novembre 1997, in Giur romana, 1998, 65; Trib. Roma 30 marzo 1998, Vi. c. Sa., inedita; Trib. Roma 4 aprile 1998, Cu. c. Fr., inedita; Trib. Roma 6 aprile 1998, Vi. c. Pi. inedita; Trib. Roma 11 maggio 1998, Pa. c. Si., inedita; Trib. Roma 28 ottobre 1998, Fu. c. Ve., inedita). Tenuto conto degli aspetti appena tratteggiati, e considerati la durata del processo e l’oggetto di esso, il danno in esame può equitativamente liquidarsi ex art. 1226 c.c. in Euro 2.500 attuali».

[44] Appare interessante riportare il testo di una recente pronuncia per cui «La domanda di risarcimento svolta dal convenuto per lite temeraria va accolta. Sull’an non vi è dubbio: si deve ravvisare se non dolo, quanto meno colpa grave nel fatto di aver agito prospettando circostanze non vere: il dente 1.5, come si è avuto modo di constatare, non era affatto sano e l’attore se non ne era consapevole, quanto meno è stato assai disattento perché nella memoria ex art. 183 cpc del 25 novembre 2005 afferma che dalla radiografia del 14 ottobre 2003 risulta che “il nervo del dente 15 era sano” così lasciando credere che il dente era sano e che fu il convenuto a distruggerlo. E invece proprio da quella radiografia emerge che il dente 1.5 era già cariato prima delle cure intraprese da K. A questo si aggiunga un atto di citazione al limite della nullità dove non sono indicati né la data del fatto né l’importo del danno, con palese violazione dell’obbligo di lealtà. In più una richiesta di risarcimento assolutamente pletorica di €. 50.000,00 del tutto fantasiosa anche se fosse stata vera la perdita di un dente sano. Nel quantum questo tribunale aderisce con convinzione ad un recente orientamento introdotto dalla giurisprudenza di merito – (vedi ad esempio Trib. Modena 2 febbraio 2007; Tribunale di Roma 18 ottobre 2006) - che, sviluppando gli argomenti delle celebri sentenze gemelle Cass. n. 8827 e 8828 del 2003 secondo cui il danno non patrimoniale è risarcibile tutte le volte che ci sia lesione di un diritto costituzionale, ha ritenuto che la responsabilità da illecito ex art 96 cpc (dottrina e Cassazione assolutamente pacifiche) possa cagionare non solo danno patrimoniale, ma anche danno non patrimoniale risarcibile. Tanto si desume da alcune norme di legge quali la recente formulazione dell’art. 385 c.p.c. (condanna del soccombente nel giudizio di Cassazione ad una somma equitativamente determinata), l’art. 111 della Costituzione (comma 2, sulla ragionevole durata del processo), la legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. “Legge Pinto” sugli indennizzi per eccessiva durata del processo); assai significativa è poi la giurisprudenza della CEDU sulla eccessiva durata del processo per violazione all’art. 6 della Convenzione sulla Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848). Da questo complesso di regole se da un lato emerge il principio che un processo che si protrae eccessivamente lede uno dei diritti fondamentali dell’uomo e provoca quindi un danno non patrimoniale risarcibile, dall’altro se ne deve desumere che vieppiù è risarcibile il danno (anche non patrimoniale) cagionato dal fatto di aver dovuto affrontare un processo inutile, che fin dall’inizio non doveva nascere il che, oltre a costituire illecito espressamente previsto dalla legge, lede anche un diritto costituzionalmente protetto, anzi, meglio, un diritto fondamentale menzionato nell’art. 6 della citata Convenzione. Sicché da questa normativa si trae, oltretutto, il parametro per liquidare equitativamente il danno, vale a dire nella misura di €. 1.000 per ogni anno di durata del processo, secondo i criteri adottati dalla giurisprudenza citata e poi ripresi da varie Corti di Appello. Nel caso in esame il processo è iniziato nel giugno del 2005 ed è durato fino al dicembre 2007 per due anni e sei mesi; eliminando alcuni tempi morti, il danno può quindi essere individuato in €. 2.000» (Trib. Roma, sez. XIII, 27 febbraio 2008, gu. Paolone; anche Trib. Bologna, sez. III, 9 ottobre 2007).

[45] Ciò significa che il tempo della giornata utilizzato per l’organizzazione della difesa, consistente in colloqui col difensore, ricerca di documenti utili, partecipazione ad una o più udienze del processo, attese nello studio del legale o in tribunale, telefonate ed incontri, è tempo occupato nell'agenda quotidiana e che non può essere destinato ad altre attività realizzative dell’uomo, quali, a titolo meramente esemplificativo: svago, tempo libero, attività sportiva, incontri con amici o parenti, studio, ovvero, altro ancora.

[46] La sicurezza dei pazienti, assume in questa prospettiva, una rilevanza che coinvolge tutte le fasi e gli aspetti dell’organizzazione, vincolando l’effettiva applicabilità delle soluzioni individuate, alla capacità di gestire sinergie multidisciplinari (mediche, manageriali ed economiche) e coinvolgimento dei diversi livelli organizzativi. La mancanza di integrazione tra i diversi livelli organizzativi o la predominanza di alcuni su altri, determina la perdita di componenti essenziali della gestione del rischio clinico con la conseguenza di fornire visioni parziali o artificiose. In mancanza di una siffatta integrazione, l’area legale-amministrativa di una determinata struttura sanitaria, che ha l’interesse di prevenire e gestire il contenzioso, risulterà distaccata da quella tecnica, finalizzata ad aspetti tecnologici e strutturali e, ancora da quella clinica, concentrata sull’outcome dei trattamenti sanitari con conseguente perdita della sistematicità che la gestione del rischio richiede. Se è vero che il fine primario di un’azienda sanitaria è la tutela della salute dei pazienti e della popolazione, è anche evidente che le strategie di risk management dovranno focalizzarsi sulla prevenzione e gestione dei rischi secondo il principio ippocratico del primum non nocere.

 

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