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UNA RICETTA PER USCIRE DALLA TRAPPOLA DELL'EURO- www.nuoviitaliani.it

 

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di Emilio Barucci, Giuseppe De Michele

La storia sembra riproporsi: tre anni fa c’era il problema degli asset tossici collegati ai mutui subprime che erano sopravvalutati, adesso lo stesso destino tocca ai titoli di Stato a causa del rischio del debito sovrano. In ambedue i casi il leverage elevato delle banche – che detengono questi titoli - rischia di portare ad una crisi di liquidità dei maggiori intermediari finanziari con conseguenze per l’economia reale difficili da prevedere.

 

I paragoni non finiscono qui: anche oggi, come tre anni fa, le autorità rincorrono gli eventi con interventi ad hoc senza regole per fronteggiare l’emergenza. Nel primo caso si trattava di salvare le banche (debt-equity swap, ricapitalizzazione) adesso di fronteggiare la crisi di liquidità degli Stati sovrani, un loro eventuale default e i connessi problemi delle banche. Il rischio adesso è però molto più elevato rispetto a tre anni fa con la messa in discussione della stessa sopravvivenza dell’euro.

 

Le difficoltà di un piccolo paese come la Grecia rischiano di far saltare l’euro. Si rimane stupefatti nel prendere atto della (in)capacità dei leader europei e delle istituzioni (Commissione e BCE) nel fronteggiare un problema che preso per tempo era di limitate dimensioni. Certo il salvataggio della Grecia assomiglia molto ad una perdita di verginità per le istituzioni europee (bilancio pubblico infedele, aiuti bilaterali tra gli Stati, ristrutturazione del debito di uno Stato sovrano, etc.) ma questo non giustifica il ritardo con cui si sta agendo e un dibattito spesso lunare privo di concretezza. 

 

Il vero problema è che un’Europa senza leadership è prigioniera di due tabu: aiutare la Grecia significa andare contro le regole che stanno alla base dell’unione monetaria, il suo fallimento creerebbe problemi alle banche che detengono titoli greci (francesi e tedesche in primis). L’entità del secondo problema a dire il vero era ed è limitata: se guardiamo i dati dello stress test del luglio 2011, le banche europee – escludendo quelle greche, irlandesi e portoghesi - detengono 57 miliardi di titoli governativi dei tre paesi, le banche francesi e tedesche ne detengono 27 (se includiamo anche quelle belghe e quelle olandesi arriviamo a 36). La scelta da prendere a suo tempo avrebbe dovuto essere un mix di aiuti alla Grecia e una ristrutturazione del suo debito (con compartecipazione del privato). Questa operazione avrebbe portato delle perdite alle banche ma esse sarebbero state al massimo per un totale di 20-25 miliardi di euro. Un fenomeno gestibile tramite ricapitalizzazione pubblica (altro tabu da sconfiggere). Anche la BCE avrebbe sopportato delle perdite ma la cosa sarebbe stata riassorbita con qualche mal di pancia dei puristi di Francoforte. L’incapacità di trovare una strada ha fatto sì che la crisi si sia avviluppata su se stessa con un deterioramento del merito di credito di molti stati sovrani/istituzioni finanziarie e la svalutazione conseguente di un insieme significativo di assets delle banche. Ora la situazione è molto più seria di qualche mese fa. Siamo forse di fronte ad un overshooting ma questo poco importa adesso.

 

Conviene fare chiarezza attorno alle due tesi dominanti nel dibattito: costruzione dall’oggi al domani di un sistema di federalismo fiscale, uscita dall’euro dei paesi deboli. Ambedue le strade sono non praticabili soprattutto per una questione di tempistica, di consenso politico (la prima) e di costi-benefici (la seconda). Vediamo perché.     

 

E’ fuor di dubbio che – se l’euro sopravvive - si uscirà da questa crisi con un rafforzamento delle istituzioni europee nella direzione del federalismo fiscale con un’autorità centrale che avrà l’ultima parola sui bilanci nazionali, il problema è che questo non può avvenire subito sia per i passaggi formali che richiede sia per un problema di consenso (nella popolazione e nella classe dirigente) in tutti i paesi della Unione Europea (UE) (paesi forti e deboli, per motivi diversi). Anche due passi intermedi verso il federalismo fiscale – aiuti da parte dei paesi forti ai paesi deboli in cambio di impegni sul fronte dei bilanci pubblici, emissione di eurobonds - non appaiono praticabili. Appaiono degli esercizi accademici che non fanno i conti con passaggi politici e istituzionali che richiederebbero. Le due versioni edulcorate di federalismo fiscale non risolverebbero inoltre i problemi e sarebbero fuori da ogni regola e quindi non accettabili da parte dei paesi forti.

 

L’alternativa dell’uscita dall’euro da parte dei paesi deboli appare difficile da praticare (in termini di strategia, altra cosa se venisse ad essere forzata). Lo scioglimento (breakup) dell’UE è un’ipotesi altamente remota (ma non impossibile) sia per ragioni politico istituzionali che per ragioni normative.

 

Partiamo dal considerare gli aspetti normativi, ovvero proviamo a rispondere alla domanda: E’ possibile uscire dall’UE per un paese membro? L’uscita dall’UE è regolata dal Trattato dell’Unione Europea (TUE) – articolo 50. Un primo punto è importante da sottolineare: non è possibile uscire dall’Euro area (EA) senza una simultanea uscita dalla UE. Il processo di uscita dalla UE deve essere negoziato dal paese, la procedura si completa quando il Consiglio europeo la approva a maggioranza qualificata. Se la votazione fallisce, l’uscita avrebbe effetto (nel senso che i Trattati cesserebbero di applicarsi al paese membro che ha chiesto di uscire) due anni dopo l’iniziale richiesta di uscita. Dunque se ne ricava che i tempi del procedimento non sono affatto rapidi. Tutto potrebbe cambiare ovviamente se i Trattati europei fossero cambiati. Altra possibilità è che il paese richiedente possa ritenersi fuori dall’Europa senza attendere la regolare procedura. Una tale provocazione potrebbe essere fermata a quel punto solo con un’opzione militare che, data l’ispirazione originaria della UE, appare come inverosimile.

 

Ammettiamo anche che la strada dell’uscita sia praticabile, è pure vantaggiosa? No. I benefici per la nazione che esce saranno molto limitati e comunque minori dei costi. Infatti, l’uscita dall’EA di un paese debole sarebbe associata ad una fuga di massa dei correntisti dalle banche e da un allontanamento degli investitori nazionali ed internazionali dal paese. La ragione di questa fuga è che i mercati, razionalmente, assumono che appena il paese periferico esce dall’Euro ed una nuova valuta nazionale viene introdotta, questa valuta perderebbe tra il 30 e il 50% del suo valore rispetto all’Euro. In aggiunta molti dei precedenti contratti di diritto nazionale sarebbero probabilmente ridenominati nella rediviva valuta nazionale. Un simile evento rappresenterebbe di fatto un atto di default. Il sistema bancario del Paese uscente collasserebbe persino prima dell’uscita effettiva con il solo effetto annuncio.

 

L’uscita dalla EA implicherebbe con ogni probabilità un default sovrano dopo la ridenominazione del debito pubblico nella nuova valuta nazionale (si pensi all’immediata caduta del rating associato al debito sovrano). Non ci sarebbe dunque alcun vantaggio a lasciare l’EA considerando costi e benefici di un default del debito pubblico. E’ probabile inoltre che l’accesso ai mercati finanziari dopo il default comporterebbe tassi di interesse reali e nominali più alti rispetto alla permanenza nell’EA. Ci sono poi  da considerare dei costi specifici legati alla reintroduzione di una nuova valuta nazionale (costi di emissione, costi legati all’adeguamento della contabilità dei soggetti economici nazionali). A questi vanno sommati i costi legati alla perdita dell’accesso ai Fondi europei.

 

Un argomento spesso portato a favore del breakup dell’EA è che una rapida svalutazione della valuta sarebbe una condizione necessaria per trasformare un’economia non competitiva, inefficiente e a bassa produttività in un’economia competitiva ed efficiente. Quest’idea poggia su alcuni argomenti controversi. Il principale è che un’ampia svalutazione nominale della valuta comporta necessariamente un persistente miglioramento della competitività. Ma un tale risultato per essere raggiunto necessiterebbe anche di simultanee profonde riforme economiche e sociali strutturali finalizzate ad accrescere la competitività e l’efficienza del sistema economico. Storicamente i due passaggi assieme non si sono mai verificati, il rischio è di avere soltanto una fiammata inflazionistica.

 

Per queste ragioni, l’uscita di un paese periferico dall’EA avrebbe perlopiù conseguenze disastrose per lo stesso. Occorre anche chiarire un punto importante: il default di un paese membro non implica necessariamente l’uscita dall’euro. Un default (sul debito estero) è infatti possibile anche restando all’interno dell’euro.

 

Sgomberato il tavolo da due strade non praticabili cerchiamo di capire quali sono gli strumenti che si possono usare. Le istituzioni pronte alla bisogna sono l’EFSF e la BCE. L’estrema ratio sarebbe quella della monetizzazione del debito da parte della BCE, la Banca non può acquistare titoli sul mercato primario ma può farlo sul mercato secondario (lo sta già facendo). Si stima che la BCE goda di ampi margini per acquistare titoli governativi senza generare una fiammata inflazionistica, il problema è piuttosto rappresentato dalla sua perdita di indipendenza, una prerogativa che sarebbe assai difficile da riguadagnare. Se non vogliamo ricorrere a questa soluzione la strada da percorrere è una sola:

ristrutturazione del debito da parte della Grecia (e di eventuali altri paesi insolventi),

sostegno agli intermediari finanziari da parte dei governi e/o EFSF tramite iniezioni di capitali, acquisto di assets, una loro ristrutturazione (creazione di bad bank, conversione volontaria di debito in azioni),

sostegno in termini di liquidità da parte della BCE e EFSF agli Stati in difficoltà ma non insolventi.

Due sono gli ostacoli da superare: occorre agire in fretta, da questo punto di vista passare tramite l’EFSF potrebbe essere difficoltoso in quanto il fondo sarà attivo, se va bene, solo a  fine anno e deve reperire le risorse sul mercato, in secondo luogo la dotazione del fondo (440 miliardi) potrebbe essere inadeguata per aiutare gli Stati in difficoltà oltre che il settore finanziario. Al riguardo un finanziamento del fondo da parte della BCE potrebbe essere la soluzione. Il punto importante da capire è che non è possibile mettere in campo soltanto il secondo e il terzo ingrediente senza passare per una ristrutturazione del debito greco. Attenzione poi a non scherzare con il fuoco, se l’EFSF non entra in gioco rapidamente la BCE sarà davvero l’ultima spiaggia.

 

Un ultimo caveat, tutto questo serve per riportare in carreggiata l’euro, non è detto che questo sia sufficiente per garantirgli un futuro che deve passare soprattutto tramite una maggiore crescita degli Stati.

 

 

 

 

 

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