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SALVARE L'EURO E STIMOLARE LA CRESCITA, UNA STRADA OBBLIGATA-Nel merito.it

 

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di Marcello Messori

 

Mai come oggi la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea (Ume) è stata a rischio. La Grecia è a un passo dall’insolvenza sul suo debito pubblico e dal connesso fallimento del suo settore bancario senza che siano operative istituzioni europee dotate di funzioni e di risorse adeguate a contenerne gli effetti economici e sociali e ad arginarne il contagio rispetto agli altri Stati membri e ai loro settori finanziari.

 

Nonostante ciò, l’Ume e il Fondo monetario internazionale subordinano la concessione della sesta tranche di aiuti a favore del governo ellenico al varo di ulteriori tagli delle spese pubbliche che, nel breve termine, avranno il solo effetto di rafforzare la recessione economica del Paese e di rendere insostenibili le tensioni sociali. Le previsioni sono che lo sblocco del sostegno finanziario avverrà a fine mese, ossia pochi giorni prima dell’altrimenti inevitabile collasso fiscale della Grecia. Si tratta di sperare che un così pericoloso gioco di rimandi non scappi di mano alla debole leadership europea. Sarebbe davvero paradossale se, nonostante i molti insegnamenti provenienti dal caso Lehman Brothers e dai conseguenti costosissimi interventi a sostegno di AIG, la gestione dei debiti sovrani ricadesse nella trappola di lasciar fallire la Grecia (nonché il Portogallo e – forse – l’Irlanda), massimizzando così i costi del conseguente salvataggio di un Paese “troppo grande” e “troppo interconnesso” per fallire come l’Italia.

Dopo il pasticciato iter di approvazione delle manovre correttive da parte del governo Berlusconi e il drastico abbassamento del rating dell’Italia da parte di varie agenzie (l’ultima è stata Moody’s), le aspettative dei mercati internazionali rispetto alla sostenibilità del debito pubblico italiano si sono deteriorate e stanno rafforzando l’allontanamento degli investitori istituzionali internazionali dal nostro Paese. Di conseguenza, nonostante gli acquisti da parte della Banca centrale europea (Bce) nel mercato secondario, continueranno le tensioni per il rinnovo dei titoli in scadenza del debito pubblico italiano. Ciò manterrà elevati i relativi oneri finanziari,  innalzerà i costi di raccolta del nostro settore bancario e causerà peggioramenti nella qualità del suo attivo. Perderà, così, di credibilità la posizione di chi ritiene (come il sottoscritto) che l’impatto dei titoli del debito pubblico italiano sui bilanci del nostro settore bancario sia stato sopravalutato dal mercato. Le condizioni dei finanziamenti bancari alle imprese e alle famiglie continueranno a peggiorare. Nonostante ciò, il governo italiano nega l’evidenza sostenendo che: le manovre di inizio luglio e di inizio settembre hanno messo in sicurezza i nostri conti pubblici anche in assenza di crescita economica; la dismissione del patrimonio pubblico, che nella realtà – se mai sarà seriamente intrapresa – comporterà tempi lunghi e percorsi accidentati di realizzazione, avrà effetti taumaturgici sulla riduzione del nostro debito pubblico tanto da garantire il rispetto del nuovo “Patto di stabilità e crescita”; le iniziative di stimolo all’economia, sempre annunciate ma mai realizzate, ridaranno competitività al nostro settore produttivo a dispetto del ristagno della produttività e della permanenza di pervasive aree di rendita.

Molti gruppi bancari europei di Stati membri ‘forti’ e periferici dell’Ume sono sottoposti a un crescente rischio di illiquidità a causa della loro difficoltà a vendere varie componenti dell’attivo senza perdite rilevanti e a coprire il conseguente divario fra attività e passività (funding gap) mediante l’indebitamento nei mercati interbancari. Lo smaltimento solo parziale dei titoli problematici ereditati dalla crisi finanziaria del 2007-’09, la riproduzione di un modello di specializzazione incentrato su servizi finanziari ad alto rischio anziché sulle attività bancarie più tradizionali, l’elevata propensione a sfruttare le distorsioni di regolamentazione acquistando i titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Ume più fragili e – dunque – a rendimento nominale più elevato spiegano la scarsa liquidabilità di molte poste attive dei bilanci bancari. Sommata alle maggiori opacità derivanti dall’allentamento della regola del “fair value” all’inizio del 2009, la dubbia qualità degli attivi bancari si è anche tradotta in quella caduta di fiducia reciproca che sta minando il funzionamento dei mercati interbancari. Le tensioni sono state tenute sotto controllo grazie ai generosi rifinanziamenti della Banca centrale europea. Nonostante ciò, la pressione dei mercati finanziari ha incominciato a innescare processi di deleveraging e a mettere a nudo l’insufficiente patrimonializzazione e altre fragilità di vari gruppi bancari spagnoli, danesi, francesi e tedeschi. Il rischio di un contagio verso il resto del settore bancario europeo è aumentato, peggiorando ulteriormente le già depresse quotazioni azionarie del settore. Il rischio è che si crei un circolo vizioso fra la necessità di ricapitalizzazione e la scarsa appetibilità sul mercato dei titoli bancari, in una fase in cui – nonostante le rassicuranti dichiarazioni della cancelliera Merkel - molti Paesi hanno difficoltà a scaricare sui loro bilanci pubblici nuovi salvataggi della finanza privata.

Il rischio è che questo insieme di fattori negativi sfoci nella disgregazione dell’Ume. Per evitare un esito così nefasto che determinerebbe l’irreversibile declino di tutti i Paesi europei (Germania compresa) in un prossimo assetto internazionale dominato da poche aree economiche di grandi dimensioni, si tratta di attuare immediate iniziative da parte dell’Ume e da parte degli Stati membri in maggiore difficoltà.

La leadership intergovernativa europea e le stesse istituzioni dell’Ume hanno reagito alla crisi del debito sovrano, i cui primi sintomi si sono manifestati alla fine del 2009, con una pletora di interventi ad hoc assunti quando si era ormai giunti sull’orlo del baratro. Tale strategia ha avuto almeno tre effetti perversi: ha dilatato i costi totali per tutti gli Stati membri, ha scavato un solco via via più profondo fra i tempi di funzionamento dei mercati e i tempi di azione delle istituzioni e della politica, ha tamponato in ritardo i sintomi dei problemi senza affrontarne le cause. Il risultato è che si sono progressivamente bruciate le soluzioni tecniche più efficaci e meno costose per la gestione della crisi del debito sovrano nell’Ume e per il coordinamento macroeconomico fra Stati membri. Oggi, è rimasto il solo baluardo del sistema europeo delle banche centrali raccolto nella Bce. Detenendo le leve della politica monetaria, quest’ultima ha un potenziale di sostegno illimitato che deve essere utilizzato - nel breve termine - per evitare il fallimento di Stati membri, per tamponare le situazioni più critiche nel settore bancario e per tenere sotto controllo il rischio di illiquidità e il conseguente processo di deleveraging.

Gli interventi della Bce possono, però, interferire con altri obiettivi di politica monetaria. E’ quindi urgente che la Bce sia affiancata da un’istituzione dell’Ume in grado di assumersi la responsabilità diretta del sostegno dei debiti sovrani dei Paesi in difficoltà. Il meccanismo temporaneo di sostegno (l’Efsf), di cui si sta potenziando la dotazione di capitale mediante la creazione di un corrispondente debito pubblico per gli Stati membri non sottoposti a piani europei di salvataggio, è il solo che possa svolgere tale ruolo. E’ però necessario che, oltre a rendere effettivo il suo aumento di capitale nel più breve tempo possibile, l’Efsf possa agire a leva indebitandosi nei mercati finanziari e – se necessario – ottenendo prestiti dalla Bce al fine di acquistare titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Ume e di offrire altre forme di finanziamento a ragionevoli tassi di interesse. In questo modo, gli interventi dell’Efsf cesserebbero di gravare sui bilanci pubblici degli Stati membri presenti nel suo capitale; d’altro canto, la presenza della Bce come potenziale finanziatore garantirebbe all’Efsf un giudizio di elevata solvibilità da parte dei mercati. La Bce dovrebbe, invece, proseguire il suo sostegno delle banche europee con problemi di liquidità; e, in collaborazione con l’Autorità europea di vigilanza sul settore bancario (l’Eba), dovrebbe spingere le banche con un eccesso di attività problematiche e/o sottopatrimonializzate a trovare soluzioni di mercato oppure a richiedere l’intervento degli Stati membri direttamente coinvolti. Nel caso in cui tali Stati fossero già fra i Paesi in difficoltà per la gestione del debito pubblico, sarebbero necessari interventi di sostegno da parte dell’Efsf.

E’ previsto che, nel giugno del 2013, l’Efsf sia sostituito da un meccanismo permanente (l’Esm). Per quella data, grazie agli interventi di breve termine della Bce e alle iniziative di medio periodo dell’Efsf e della stessa Bce appena descritte e grazie alle iniziative dei Paesi in difficoltà cui faremo cenno fra breve, la crisi europea del debito sovrano sarà ormai sotto controllo.  Per rimuoverne le cause, l’Esm dovrà però gradualmente trasformarsi nell’istituzione con la responsabilità della politica fiscale dell’Ume.  

L’uscita dalla crisi del debito sovrano e la sopravvivenza dell’Ume richiedono, però, che i vari Stati membri si ricollochino su un sentiero di crescita. Al riguardo, le istituzioni europee hanno la responsabilità di attuare le decisioni già assunte (per esempio, il coordinamento macroeconomico e il Patto “euro plus”, varati nel Consiglio europeo della fine di marzo 2011) e quella di non imporre ai Paesi in difficoltà aggiustamenti irrealistici del loro bilancio pubblico perché troppo recessivi. Le responsabilità maggiori pesano, però, sui singoli Paesi. Il caso italiano è emblematico: le manovre di inizio luglio e inizio settembre 2011, che perseguono l’obiettivo di raggiungere l’equilibrio nel bilancio pubblico entro il 2013, non avranno successo qualora l’economia italiana rimanga in una situazione di stagnazione. E’ quindi essenziale che Paesi come l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e la stessa Grecia risolvano una difficile equazione: attuare consolidamenti di bilancio (nei casi peggiori, con il sostegno dell’Ume) e, al contempo, stimolare la crescita. La soluzione di tale equazione è difficile ma non impossibile. Prima delle vacanze estive si è provato, insieme a Emilio Barucci, a delineare possibili soluzioni rispetto al caso italiano (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=412&Itemid=1 ). Altri studiosi hanno avanzato suggerimenti importanti. Di recente, le associazioni delle imprese hanno avanzato la loro proposta. E’ pensabile che, prima che sia troppo tardi, l’Italia si doti di un governo autorevole e capace di definire alcune chiare priorità e di realizzare interventi per la crescita?

 

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