Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

LA DETENZIONE IN ITALIA- di Francesco Dell'Aira -

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

 Una questione aperta

Alla data del 17 ottobre 2011 sono presenti negli istituti penitenziari italiani 2.890 detenute donne e 64.622 detenuti uomini (capienza regolamentare rispettivamente di 2.569 donne e 43.009 uomini) con un tasso di affollamento che pone l'Italia al secondo posto in Europa.

In Umbria, alla stessa data, le presenze sono di 83 detenute donne e 1.675 detenuti uomini (capienza regolamentare rispettivamente di 74 donne e 1.060 uomini).

Dato numerico significativamente allarmante, ma che non produce alcuna reazione emotiva nel cittadino distratto dalle tante questioni che lo affliggono e legato alle sue personali esigenze e priorità.

Abbiamo così perso la parte più nobile della nostra storia e tradizione culturale ed anche religiosa che proprio nel confronto, nell'equilibrio e nella comprensione dava qualità e senso al vivere democratico.

Ed ecco che, un pezzo alla volta, assistiamo immobili e distratti al crollo dei capisaldi di questa nostra giovane democrazia, vecchia e cadente prima che sia diventata adulta. La Costituzione repubblicana in questo caso, come in tanti altri, rappresenta la punta più avanzata di una legislazione normativa mai portata a pieno compimento. Una Carta fondamentale a cui segue il nulla di un dibattito che non pone all'ordine del giorno nessuna delle questioni cui ragionevolmente dovremmo dare priorità. Fra queste anche il carcere.

Anestetizzati dal bombardamento dei disastri del mondo e dalla situazione catastrofica degli Stati, ci trinceriamo spesso dietro l'alibi della nostra quotidianità e del nostro egocentrismo e rimuoviamo quel momento di riflessione che ci farebbe comprendere, ad esempio, la sofferenza fisica e morale cui questo Stato sottopone i detenuti: della inaccettabile convivenza con altri due perfetti estranei in una stanza di nove metri quadrati, dell'impossibilità di trovare refrigerio chiusi in gabbie di cemento e ferro per venti ore al giorno o del dibattersi fra l'ozio e la voglia di farla finita in un tempo che scorre inutile, senza alcun senso, in una apatia priva anche di sogni e speranze. Certo non ci tormenta (come avviene per i detenuti) la lontananza dalle nostre famiglie, delle quali non abbiamo nemmeno notizie su come facciano a vivere, né ci tormenta la certezza di un futuro peggiore del presente che rende inevitabile tornare a ripetete e ripetere l'esperienza della devianza e delle sue conseguenze.

Certo non ci angoscia non aver voce per parlare né argomenti che possano attirare l'interesse. Né penseremmo mai di essere gli ultimi tra gli ultimi, quelli che devono essere puniti riabilitando desideri di vendetta senza senso e dimensione che, sinceramente, dovrebbero invece essere relegati ad un profondo passato storico.

E questo è solo un aspetto della questione infatti chi si trova in prigione non ha nemmeno la possibilità di comprendere ed accettare la pena per nessuna delle sue definizioni che altri giuristi ed in altri tempi hanno voluto enunciare: funzione retributiva (nel momento in cui la pena irrogata dal giudice viene in concreto eseguita), general-preventiva (nel momento in cui vi è la comminatoria della pena nella legge penale), special-preventiva (nel momento in cui il giudice applica la pena al reo nel caso concreto), funzione rieducativa (art. 27 Costituzione:la pena deve tendere alla rieducazione del condannato).

Ed ancora chi si trova in prigione non comprenderà nemmeno perché ciascuna è diversa dall'altra. Le differenze che infatti caratterizzano le strutture detentive sono, a livello di organizzazione e regole, enormi e variegate: spesso la qualità della vita, di chi risiede in prigione, è determinata dalla professionalità in capo al personale che le sovrintende ed alla loro sensibilità. Direttori, magistrati di sorveglianza, educatori, assistenti sociali, personale sanitario, polizia penitenziaria, ma anche Enti locali e volontariato dello specifico territorio sono figure determinanti nell'esecuzione penale, a tal punto che a condanna simile non sempre segue identità di percorso punitivo o risocializzante.

Due reclusi potrebbero paradossalmente essere soggetti ad identica condanna, derivante da identica fattispecie di reato, ma percorrere strade molto diverse sino ad una parziale riduzione della stessa in capo ad uno dei due, e la piena e dolorosa esecuzione in capo all'altro.

In termini ancora generali poi non comprenderà mai la sua "sfortuna†per essersi trovato fra la minoranza di quelli che incappano nella rete della giustizia. Il settimanale "l'Espresso†ha pubblicato una chiara e dettagliata inchiesta di Gianluca Di Feo nella quale si racconta che sono circa 150.000 i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Una sorta di impunità che quest'anno si calcola che si possa arrivare a circa 200.000 prescrizioni, si legge, anche per reati gravi, come l'omicidio colposo. Così la giustizia sta soffocando sommersa dai fascicoli.

Analoghe posizioni ha rappresentato Emma Bonino al Senato il 22 giugno spiegando le posizioni radicali che mirano, con forme di lotta non violente, a far rivivere nel Paese la speranza della sacralità della legge, il senso dello Stato di diritto, il senso delle istituzioni, interrompendo una flagrante violenza di Stato. Ella afferma che chi è fuori legge in questo Paese sono lo Stato e le sue istituzioni. E questo non è tollerabile in un regime democratico, perché ne mina alle fondamenta la credibilità verso i cittadini.

I tribunali penali e civili sono oggi soffocati da 11 milioni di processi pendenti, hanno già prodotto in 10 anni 2 milioni di reati prescritti e continuano a produrre, come una catena di montaggio impazzita, sempre meno sentenze e, al ritmo di quasi 200.000 all'anno, sempre più prescrizioni.

Uno scandalo senza fine che, negli ultimi dieci anni ha prodotto altresì il suicidio di 650 detenuti, ma anche di 87 agenti di polizia penitenziaria e, lo scorso anno, di un dirigente generale. Il carcere si configura sempre di più come contenitore del conflitto, come discarica sociale e strumento atto a confinare donne e uomini delle classi sociali meno abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa l'80 per cento della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate.

Secondo l'opinione di Joseph Chamie, direttore del Center for Migration Studies di New York, mandare un immigrato clandestino in carcere non è la soluzione. Certi problemi vanno affrontati con l'educazione, i servizi pubblici, la sorveglianza. Gli immigrati non li si può mettere in prigione, perché sono troppi, diventerebbero dei criminali, creerebbero più problemi che risolverne. Occorre poi considerare che la dimensione del problema deve considerare le ferree leggi della demografia ed i conflitti sempre più evidenti che colpiscono tutto il nord ed il centro Africa che determinano un flusso migratorio incontrollabile. I paesi più sviluppati saranno obbligati ad accogliere milioni di immigrati l'anno (l'Italia si stima 120.000). Si possono fare tutte le leggi in Parlamento, ma non si può contrastare le norme di ferro della demografia. Né si possono fare minacce a vuoto. Se si sa che non si riesce a rimandali indietro, è meglio non avviare nemmeno le procedure legali.

Ed ancora il Presidente della Repubblica, in qualità di Garante dei diritti costituzionali, in primo luogo degli ultimi, il 28 luglio al Convegno organizzato dal Partito radicale presso il Senato, fra l'altro, ha riaffermato la necessaria priorità di mettere a fuoco il punto critico insostenibile cui è giunta la questione, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere, private della libertà per fini o precetti di sicurezza e di giustizia.

Analoga preoccupante conferma è stata infine riassunta e sviluppata lo scorso 21 settembre presso il Senato della Repubblica (seduta n. 606). Gli interventi non hanno mai potuto assolvere le gravi responsabilità e la mancanza di iniziative incisive che emergono in modo incontrovertibile.

Una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile che con i processi propri dell'emergenza, dell'approssimazione, della mancata analisi e della disconoscenza dei problemi produce scelte politiche e legislative oscillanti e incerte tra depenalizzazione e depenitenziarizzazione, e ciclica ripenalizzazione con crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione, in concreto, della carcerazione preventiva.

E proprio quest'ultima evidenzia una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana. Per molti il carcere è limitato solo a questa nell'irragionevole assunto che la pena si sconta prima e spesso solo prima della condanna, cancellando in un solo colpo il principio di non colpevolezza sino a sentenza definitiva e quello della sua certezza. Un dato impressionante quello dei circa 30.000 arrestati l'anno, che restano in prigione per uno, due o tre giorni producendo uno sperpero organizzativo e di risorse inaccettabile ed incongruo.

Ritengo quindi insieme ai tanti che si sollevano, con comprensibile sdegno, che occorre metter mano a questa inciviltà democratica ampiamente misurata dai provvedimenti affrettati, lontani e privi del risultato dichiarato.

Così è stato per il provvedimento dell'indulto del 2006, monco della necessaria amnistia che avrebbe dato respiro ai tribunali e così è stato per la fallimentare esperienza applicativa della legge 199/2010 (c.d. svuota carceri) che ha condotto alla concessione della detenzione domiciliare di un numero di poco superiore ai duemila detenuti (a fronte della platea dei 9.000 inizialmente ipotizzata dal Ministro Alfano).

Così sarà se si considera la costruzione di nuove prigioni come soluzione a tutti i problemi. Questa non è la soluzione, né una delle possibili soluzioni. La costruzione di nuove carceri è la proposta più semplice di chi non riesce ad analizzare le questioni se non nei termini elementari della grandezza del contenitore rispetto al contenuto. E quello che è perverso è la non considerazione né della qualità del contenitore né del valore del contenuto. Ciò che inorridisce è dichiarare impunemente l'esistenza di una copertura finanziaria di tale spesa quando gli istituti penitenziari da anni non dispongono di fondi per le manutenzioni, ma nemmeno per pagare la luce, l'acqua ed il gas come pure per assicurare attività di lavoro, di sostegno e di dignità alle persone che custodiscono. E si tace che esistono istituti vuoti o parzialmente utilizzati per mancanza di personale.

Tutti i progetti in corso, come è stato ampiamente dimostrato e discusso, sono poi ispirati, sia in termini funzionali che strutturali, a principi reinfantilizzanti (mera custodia e controllo) e non risocializzanti e quindi lontanissimi da tutte le esigenze dettate dall'ordinamento penitenziario del 1975 e dalla normativa comunitaria rispetto alla quale l'Italia risulta inadempiente.

Così sarà se non si mantiene in primo piano la necessità di una riforma sostanziale del codice penale che promuova una drastica riduzione dei reati e delle pene e la riconduzione del carcere ad extrema ratio attraverso la tutela del principio della riserva di codice, la concessione più equilibrata e diffusa del beneficio della pena sospesa.

La previsione di misure extrapenali e la riduzione dei minimi e dei massimi edittali possono rappresentare soluzioni ben migliori se affiancate alla disponibilità a rivedere normative altamente criminogene. Come sostiene Leonardo Arnau in un suo articolo del maggio scorso solo una riforma del diritto penale può eliminare la vera causa di questa odierna crisi di sistema.

Dobbiamo infine accettare l'idea che restare immobili è cosa che non può essere tollerata, nessuno può tirarsi fuori dalle questioni fondanti i principi che sovrintendono un libero Sato democratico. E questo è possibile se il cittadino perbene chiede il conto delle scelte, dei risultati, delle responsabilità.

E' il controllo sociale umile, ma puntuale e rigoroso e che faccia della moralizzazione e dell'equilibrio le sue regole, che può restituire la dignità della soluzione ad una delle priorità che minano il Paese.

 

 

Dott. Francesco Dell'Aira

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici