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La lettera d'intenti nella prassi degli affari commerciali-Lex 24.it

 

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 Project work - Master Diritto e Impresa di ROMA: articolo redatto dai partecipanti alla 15° Edizione (Roma, maggio-dicembre 2011 )

Angelo CASAZZA, Irene CITTADINI, Carla D'AMATO, Maria Giulia GERMANI, Alida POMPELLA, Angelo ROMANO

 

Coordinamento a cura dell'Avv. Andrea Fedi  - Studio Legale Legance

Nozione. Nell’odierna prassi degli affari commerciali molte operazioni negoziali si denotano come fattispecie a formazione progressiva. Già prima del momento finale di perfezionamento del contratto (closing), infatti, i contraenti intavolano le opportune trattative, svolgono indagini (due diligence), s’impegnano a rispettare doveri di riservatezza (confidentiality agreements) e possono sottoscrivere letters of intents (talora denominate anche head of terms o memoranda of understanding) al fine di:

(a) disciplinare lo svolgimento dei negoziati e delle due diligence,

(b) documentare gli accordi di principio raggiunti su alcuni punti fondamentali della programmata operazione e/o

(c) vincolarsi a doveri di esclusiva (exclusivity o stand-still covenants) o di preferenza (right of first offer, right of first refusal o pre-emption) nei confronti della controparte.

Attraverso le lettere d’intenti, dunque, in una fase che è ancora pre-contrattuale, i negoziatori (futuri contraenti) circoscrivono la loro libertà di azione (freedom of contract), definendo con maggior dettaglio i propri obblighi di buona fede nelle trattative e fissando alcuni capisaldi dell’operazione (cd. puntazione), eventualmente obbligandosi a tenere un determinato comportamento (esclusiva, prelazione e riservatezza). Ciò è vero, soprattutto, quando oggetto delle trattative sia un’operazione ampia e complessa, come nel caso di acquisizioni, fusioni e operazioni simili, che possono dar luogo a negoziazioni lunghe e difficili, fatte di accordi preliminari e documenti preparatori aventi come fine ultimo quello di delineare lo scopo, l’obiettivo e gli aspetti negoziali delle trattative intraprese.

 

Natura giuridica. Le lettere d’intenti possono presentarsi in una molteplicità di forme e con differenti contenuti: dalla semplice dichiarazione delle parti di quello che è il loro obiettivo finale, alla verbalizzazione dello stato di avanzamento delle trattative, all’impegno di non rimettere più in discussione i punti già concordati, a veri e propri impegni giuridici che comportano obbligazioni per le parti.

Non sempre risulta chiaro discernere, inoltre, dove finisca una lettera d’intenti e dove inizi un contratto vero e proprio, né a tal fine può essere attribuita alcuna rilevanza al nomen iuris scelto dalle parti, che, anzi, può essere fonte di equivoci circa la reale portata giuridica della lettera.

A una prima disamina, concordemente con autorevole dottrina, si può affermare che, almeno fin tanto che rimane non espresso uno degli elementi essenziali (o fundamental) del futuro contratto, siamo ancora nel campo degli accordi preparatori e precontrattuali (fonti, pertanto, di una mera responsabilità precontrattuale).

Inoltre, al fine di veder sorgere il vincolo negoziale, è necessario, secondo costante giurisprudenza, che le parti manifestino lo specifico intento di concludere un contratto, il quale pertanto deve costituire l’epilogo di un procedimento connotato dal connubio tra accordo sul regolamento di privati interessi e volontà delle parti di ascrivere allo stesso efficacia vincolante (binding): in mancanza dell’animus contrahendi, dunque, si rimane nell’ambito delle trattative.

Al contrario, se le parti hanno raggiunto l’accordo sugli elementi essenziali del negozio e vogliano obbligarsi, nonostante l’ accordo sia contenuto in un documento definito “lettera d’intenti”, può ritenersi che siamo già nel campo del contratto e della correlata responsabilità contrattuale.

 

Clausole binding. Con la lettera di intenti, dunque, le parti fissano accordi parziali e programmatici, riservandosi di proseguire le trattative e definire più avanti i punti lasciati in sospeso, fino ad arrivare alla stipula definitiva del contratto ma senza obbligarsi a concluderlo.

Essa, dunque, non può essere assimilata ad un contratto preliminare ma tutt’al più ad una minuta. A tal proposito, la Cassazione ha statuito che il parallelismo sussiste in quanto con la lettera di intenti non sorge necessariamente un vincolo contrattuale tra le parti poiché essa rappresenta null’altro che un documento con cui viene fissato il contenuto dei parziali accordi raggiunti nel corso di trattative, che si presentino lunghe e particolarmente complesse, al fine di ottenere una documentazione dello svolgimento delle stesse: le parti restano quindi libere di recedere dalla trattativa in qualsivoglia momento, salvo il limite del principio di buona fede contrattuale di cui all’art. 1337 c.c., dalla cui violazione scaturisce la responsabilità extracontrattuale (Cass. Civ., Sez. I, 14/05/1998 n. 4853; Cass. Civ., Sez. II,  13/04/1995 n. 4265 e anche Cass. Civ. Sez. I, 04/02/2009 n. 2720).

Tuttavia, non può sottacersi che anche nel contesto di una lettera d’intenti si possono prevedere clausole dal contenuto ben definito, dalle quali le parti vogliano far derivare specifici obblighi, la cui violazione comporta responsabilità contrattuale: ciò accade, innanzitutto, con la clausola relativa alla riservatezza, la quale prevede che i contraenti, durante la fase preliminare, si impegnino a non diffondere notizie relative alle trattative che devono rimanere strettamente confidenziali; altra clausola che, sebbene contenuta in una lettera d’intenti, ha solitamente valore vincolante è quella con la quale le parti s’impegnano a obblighi di esclusiva o prelazione; ancora, è usualmente vincolante la clausola con la quale viene individuata la legge applicabile e/o il foro competente per le liti.

 

 

 

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Più raramente, invece, le lettere d’intenti, ancorché generiche su certi aspetti, possono prevedere impegni-quadro vincolanti, come ad esempio quello di evitare atti volti a diminuire il patrimonio o a modificare in senso negativo la situazione finanziaria delle parti o a concludere il contratto entro una data prestabilita, o, ancora, a rispettare determinate modalità di pagamento così come a prestare idonee garanzie.

In alcune lettere d’intenti, inoltre, possono ricorrere veri e propri patti di non concorrenza.

 

 

Il regime della responsabilità. Dal punto di vista della responsabilità conseguente alla violazione/inadempimento della lettera d’intenti, l’opinione comune riconosce a carico delle parti particolari obblighi di buona fede in ragione del reciproco affidamento sulla conclusione positiva delle trattative che tale lettera d’intenti giustifica.

La Suprema Corte ha altresì ritenuto che può configurarsi la responsabilità precontrattuale in caso d’interruzione delle trattative quando “le parti abbiano [già] preso in considerazione gli elementi essenziali dello stipulando contratto” (Cass Civ., Sez. II. 22/07/2010 n.17245), “intendendosi per elementi essenziali, ad esempio, la natura delle prestazioni o l’entità dei corrispettivi” (Cass. Civ., Sez. III, 13/03/1996 n. 2057).

In concreto, dunque, “è necessario che le trattative siano giunte a uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto” (Cass. Civ., Sez. III, 29/03/2007 n.7768; Cass. Civ., Sez I, 18/06/2004 n. 11438), salvo che “la rottura delle trattative e la mancata conclusione del contratto siano state in anticipo programmate” (Cass. Civ., Sez. III, 05/08/2004 n. 15040).

Inoltre, affinché si verifichi la violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede delle trattative, “è sufficiente il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte che – senza giusto motivo- abbia interrotto le trattative” (Cass. Civ., Sez. III, 07/02/2006, n. 2525; Cass. Civ. , Sez. III, 10/08/2002 n. 12147).

Ma come può la parte lesa, in caso di violazione della lettera d’intenti, tutelare i propri interessi e far valere la responsabilità della controparte ? Può ricorrere al giudice per ottenere un ordine che costringa la parte inadempiente a riprendere i negoziati?

Sembra che a questa domanda debba darsi risposta negativa per varie ragioni.

In primis, anche laddove sia prevista l’esecuzione in forma specifica di un obbligo tale rimedio è concepibile solo in via teorica nel caso di inadempimento di una lettera d’intenti: è difficile, infatti, obbligare qualcuno a riassumere le trattative interrotte!

In secondo luogo, bisogna ammettere che l’obbligazione scaturente da una lettera d’intenti non consiste nel concludere il contratto definitivo, essendo invece identificabile con quella di negoziare secondo buona fede, pur senza avere la certezza che le trattative porteranno ad un accordo definitivo.

Pertanto, l’unico rimedio plausibile in tali ipotesi consiste nella possibilità della parte lesa di richiedere il risarcimento del danno.

Ma quali sono i criteri di quantificazione del risarcimento dovuto? E’ possibile valutare il costo dei negoziati falliti (danno emergente) più il costo del mancato profitto (lucro cessante)?

La risposta a tale interrogativo sarebbe senza dubbio agevole nel caso che le parti abbiano previsto all’interno della lettera d’intenti una clausola identificativa degli stessi criteri di valutazione e commisurazione dell’eventuale danno, o che addirittura predetermini già l’importo dell’ipotetico risarcimento (liquidated damages) per il caso che una parte interrompa ingiustamente le trattative.

Nel caso in cui manchi una pattuizione in tal senso, richiamando la distinzione tra l’interesse negativo e quello positivo, si può pacificamente affermare che la culpa in contrahendo può essere sanzionata attraverso il risarcimento del “danno negativo”, ossia il danno da lesione dell’affidamento.

Questa teoria è ulteriormente confermata dal fatto che l’obbligo assunto dalle parti non è né quello di eseguire il contratto, che deve ancora essere concluso, né quello di raggiungere un accordo, bensì unicamente quello di impegnarsi a fare tutto il possibile per riuscirci. Di conseguenza, il risarcimento riconosciuto alla parte lesa comprenderà tutti i costi del negoziato (tempo perso, spese di spostamenti, studi preliminari, etc., etc.), al fine di ricollocare la parte nella condizione quo ante, in cui si sarebbe comunque trovata se non avesse intrapreso alcuna trattativa. Sarà inoltre possibile che, in alcune ipotesi, il giudice riconosca, all’interno del risarcimento, anche l’ulteriore pregiudizio alla reputazione commerciale e quello relativo al mancato guadagno, che la parte lesa avrebbe invece conseguito concludendo il contratto con un terzo (cd. perdita di chances commerciali): in quest’ultimo caso, tuttavia, incomberà sul richiedente l’onere della prova dell’effettiva esistenza di un terzo contraente interessato all’affare.

Inoltre, in merito al danno risarcibile, prevalente orientamento attribuisce rilevanza al cd. interesse negativo ovvero alle “spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative” e alla “perdita di ulteriori occasioni”, escluso quindi il lucro cessante ( Trib. Napoli, 20.10.2006, n. 10501).

In nessun caso appare comunque possibile il risarcimento dell’interesse positivo, cioè il risarcimento del guadagno che sarebbe derivato dalla conclusione del contratto.

 

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