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Federalismo demaniale e beni culturali·di Paolo Carpentieri-Giustizia amministrativa.it

 

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Magistrato Tar

 

 

1. La legge delega del 2009. 2. Le ragioni sistematiche e sostanziali della esclusione dei beni culturali. 3. Il decreto delegato del 2010. 4. Lo speciale federalismo demaniale culturale. 5. Il comma 5 dell’articolo 5: gli accordi di valorizzazione. 5.a. L’iniziativa, il procedimento e le parti. 5.b. La facoltatività degli accordi. 5.c. La causa e il contenuto degli accordi traslativi. 5.d. Gli effetti degli accordi. 6. L’intermediazione della verifica dell’interesse culturale. 7. Il rapporto con gli altri poteri autorizzatori ministeriali in ordine alle trasformazioni e agli usi del bene culturale. 8. Alcuni enunciati normativi “spuri” contenuti nel comma 5. 9. Le novità introdotte dal d.l. n. 70 del 2011. 10. Lo stato di attuazione del federalismo demaniale culturale. 11. Conclusioni.

 

 

 

1. La legge delega del 2009.

 

 

 

La norma primaria della legge di delega n. 42 del 2009 presenta, per quanto riguarda il regime dei beni culturali, una formulazione letterale che non appare immediatamente perspicua e che potrebbe ingenerare dubbi applicativi (peraltro definitivamente fugati dal testo dell’articolo 5 del decreto legislativo attuativo n. 85 del 2010, che si esaminerà nel prossimo paragrafo).

 

In particolare, l’articolo 19, comma 1, della legge delega del 2009, introduce, al punto d) del comma 1, per i decreti legislativi attuativi, il seguente principio e criterio direttivo: “individuazione delle tipologie di beni di rilevanza nazionale che non possono essere trasferiti, ivi compresi i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale”. Il decreto delegato n. 85 del 2010 ha inteso questa disposizione primaria di delega senz’altro nel senso della esclusione dei beni culturali nel loro insieme dal meccanismo ordinario di trasferimento (come configurato dagli articoli 2 e 3 del decreto medesimo), riservando, per tale categoria di beni, un trattamento speciale, regolato dall’art. 5, comma 5 (cui in realtà rinvia il comma 2 dell’art. 5, posto che il rinvio, ivi contenuto, al comma 7, riguardante i beni della Presidenza della Repubblica, nonché i beni in uso al Senato, alla Camera dei deputati, alla Corte costituzionale, e agli organi di rilevanza costituzionale, è frutto di un evidente refuso).

 

Il dubbio è dunque sciolto – in modo, come si dirà, del tutto condivisibile – dal decreto delegato attuativo, ma è utile comunque affrontare approfonditamente l’esame della norma di delega, anche al fine di chiarire alcuni profili di ambiguità in essa rintracciabili e, soprattutto, di eliminare ogni dubbio sulla conformità alla delega dell’opzione attuata nell’art. 5, commi 2 e 5, del decreto legislativo n. 85 del 2010.

 

La proposizione normativa recata dall’art. 19 della legge n. 42 del 2009, sopra riportata, sembra presentare un profilo di ambiguità lessicale circa il senso - distributivo o collettivo - del riferimento dell’attributo nazionale da essa predicato: non è chiaro, nel riferimento dell’attributo nazionale che segue il sostantivo patrimonio (culturale), se la qualità (nazionale) sia predicata, in senso distributivo, del singolo bene appartenente al patrimonio culturale (che, se di rilevanza nazionale, è escluso singulatim), o sia invece predicata, in senso collettivo, della classe nel suo insieme (il patrimonio culturale che, come dice l’art. 9 Cost., è della Nazione). Guardando la questione da una diversa angolazione, non è chiaro, nel riferimento della relazione di appartenenza (ivi compresi) che lega alla prima la seconda parte del periodo, se i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale siano compresi come classe (e, dunque, tutti) nella esclusione dal trasferimento, in quanto il patrimonio culturale è ex se di rilevanza nazionale, come termine universale, oppure siano compresi – come singoli beni, e quindi come termine particolare – tra le tipologie di beni esclusi, se ed in quanto (alcuni) di rilevanza nazionale[1]. Detto in parole povere: se il patrimonio culturale è tutto ex se di rilevanza nazionale (art. 9 Cost.), allora i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale sono inclusi nel loro insieme (ossia tutti) tra quelli esclusi; se il patrimonio culturale nazionale è costituito dai soli beni culturali di rilevanza nazionale, allora soltanto questi ultimi saranno inclusi tra quelli esclusi dal trasferimento.

 

L’ambiguità – se non superabile sul piano dell’interpretazione letterale - deve essere sciolta sulla base degli altri criteri ermeneutici che, per l’appunto, soccorrono quando il senso fatto palese dal significato letterale e proprio delle parole (art. 12 preleggi) non è sufficiente e non conduce a un risultato univoco e certo. Occorre dunque fare riferimento ai criteri interpretativi logico sistematico, teleologico-finalistico e storico-ricostruttivo.

 

Ma prima ancora di procedere all’analisi funzionale e sistematica della disposizione normativa, può tentarsi un’ultima osservazione, che si pone ancora sul piano dell’interpretazione letterale: tra le diverse opzioni ermeneutiche di una proposizione normativa, come è noto, deve preferirsi quella che vale ad attribuire alla disposizione stessa un autonomo valore precettivo, piuttosto che quella che ne vanifichi del tutto ogni portata aggiuntiva rispetto ad altre disposizioni già contenute nello stesso testo di legge. Orbene, in base a questo condiviso canone interpretativo, tra le due soluzioni sopra prospettate – esclusione dei beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale in senso distributivo (ossia, dei soli beni che singolarmente presentano rilievo nazionale), oppure esclusione dei beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale in senso collettivo (ossia di tutti i beni culturali come classe) - deve senz’altro preferirsi la seconda lettura, siccome capace di conferire all’aggiunta ivi compresi etc. un significato autonomo rispetto a quello già proprio dell’enunciato tipologie di beni di rilevanza nazionale che non possono essere trasferiti, rispetto al quale, altrimenti, la specificazione ivi compresi. . . etc. rimarrebbe del tutto priva di autonomia semantica e giuridica. Se, infatti, i beni culturali dovessero essere esclusi solo in quanto, singolarmente considerati, di rilevanza nazionale, come possibili occorrenze concrete della generale previsione di esclusione dei beni di rilevanza nazionale, allora l’aggiunta ivi compresi . . . etc. sarebbe del tutto inutile. Essa è, invece, utilissima e ricca di un autonomo significato normativo se (correttamente) intesa nel senso che la classe dei beni appartenenti al patrimonio culturale è interamente di rilevanza nazionale e dunque è interamente esclusa dal trasferimento (come vedremo, da quello “di massa”, ispirato a criteri soprattutto economico-finanziari e patrimoniali, non da quello selettivo e mirato, ispirato a criteri di migliore gestione e fruizione pubblica del bene) [2].

 

 

 

2. Le ragioni sistematiche e sostanziali della esclusione dei beni culturali.

 

 

 

E venendo agli altri criteri interpretativi, deve osservarsi, in termini del tutto convergenti, sul piano sistematico, che la nozione di “bene culturale di rilevanza nazionale/locale”, già conosciuta dall’ordinamento giuridico, giusta la previsione dell’art. 150 del d.lgs. n. 112 del 1998, è stata non a caso e significativamente espunta dal sistema con l’espressa abrogazione della citata norma disposta dall'art. 184 del codice dei beni culturali del 2004. La fallimentare esperienza delle commissioni paritetiche all’uopo previste dalla citata norma del 1998 ha dimostrato l’impossibilità di introdurre una sorta di graduatoria dell’interesse del bene culturale che distinguesse in astratto quelli di interesse (o rilievo) nazionale da quelli di interesse (o rilievo) solo locale[3].

 

Sul piano finalistico e funzionale, occorre poi considerare che sussiste un’oggettiva incompatibilità tra la natura fondamentale (l’essenza) e il modo di esistenza (l’ontologia) dei beni appartenenti al patrimonio culturale e “le preponderanti finalità di dismissione e privatizzazione” del patrimonio pubblico insite nel sistema di federalismo demaniale (ordinario) disegnato dal decreto attuativo n. 85 del 2010[4]. Esistono due possibili approcci fondamentali alla gestione e valorizzazione dei beni pubblici: considerare il bene pubblico come cespite patrimoniale da liquidare, da monetizzare, e dunque come risorsa economica per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica[5], o considerare il bene per la sua naturale destinazione alla fruizione pubblica, in quanto bene di tutti, rispetto al quale la titolarità pubblica rileva solo come custodia e non come potere di disposizione[6]. Naturalmente e storicamente, la considerazione dei beni appartenenti al patrimonio culturale si è sempre collocata e si colloca sul secondo versante, dove la questione centrale è come trovare il modo per assicurane la più proficua tutela e godibilità pubblica dei beni, piuttosto che trovare il modo di liquidarli in valore pecuniario (o di appostarli nell’attivo di bilancio per raddrizzare i conti dissestati degli enti territoriali).

 

D’altra parte il lungo dibattito sulla nozione di valorizzazione del patrimonio culturale ha ormai chiarito che deve prevalere l’elemento indiretto di fattore di crescita qualitativa del territorio sull’elemento diretto di fonte immediata di proventi pecuniari[7]. Il modello della valorizzazione come dismissione, come vendita frazionata dei beni del compendio al fine di massimizzare le entrate, costituisce esattamente l’opposto contrario dell’idea fondativa del patrimonio culturale, e si pone agli antipodi, come l’omega sta all’alfa, rispetto alle ragioni culturali, storiche, sociali e politiche della funzione di tutela/valorizzazione del patrimonio culturale. Questa chiarificazione fondamentale spiega il perché dell’esclusione del patrimonio culturale nel suo insieme dal meccanismo del federalismo demaniale ordinario e la previsione di un federalismo demaniale culturale speciale costruito su singoli progetti di valorizzazione, nell’interesse della massimizzazione della pubblica fruizione, da verificare di volta in volta in una cornice concordata, su specifiche proposte degli enti territoriali riceventi.

 

Di questo sistema (culturale, prima ancora che giuridico), ereditato dalle prime leggi di tutela degli inizi del XX sec. e ormai stabilizzatosi (anche nel codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 e nei successivi affinamenti introdotti con i decreti correttivi e integrativi del 2006 e del 2008), tiene debitamente conto la legislazione sul federalismo demaniale, approntando un regime speciale dei beni culturali che armonicamente in esso si inquadra e con esso si accorda. La formulazione della norma dell’art. 19 della legge delega sul federalismo esprime dunque un’idea di fondo ben precisa del trattamento giuridico dei beni appartenenti al patrimonio culturale, imperniata sull’esclusione di forme di trasferimento di massa, in blocco, secondo una logica contabile e di bilancio, in favore di una logica legata a specifici progetti di gestione e valorizzazione dei singoli beni, sulla base di documentate iniziative degli enti territoriali interessati.

 

La ratio ispiratrice fondamentale della norma è dunque quella di rispettare l’interesse dei proprietari veri del patrimonio culturale, che sono non già lo Stato, le regioni, i comuni, che sono solo i custodi incaricati della tutela e della gestione nell’interesse generale, bensì i cittadini tutti, non solo quelli di oggi, ma anche quelli di domani, perché la tutela è fatta non solo nell’interesse di questa generazione, ma anche e soprattutto delle future generazioni (patrimonio: patrum munus, in inglese heritage), nella logica connaturata alla demanialità immanente ai beni a destinazione naturale pubblica, quali sono i beni del patrimonio culturale[8].

 

Chiariti questi concetti fondamentali di base, viene da sé, come un corollario logico necessario, la conseguenza per cui ciò che conta, per i beni culturali, è stabilire qual è il progetto di gestione migliore, in raccordo con le preminenti esigenze della tutela, rimanendo del tutto secondario e marginale stabilire se la titolarità formale del bene (che è solo funzione doverosa di custodia, non già e non certo “proprietà”) vada ascritta allo Stato piuttosto che all’uno o all’altro ente territoriale: poco importa, dunque, in quest’ottica, se la titolarità del bene sta nel demanio statale o in quello regionale o in quello comunale, ciò che veramente conta è stabilire chi è (tra queste istituzioni) nelle condizioni di gestirlo meglio (tenendo nel debito conto che le funzioni di tutela sono e restano di esclusiva competenza statale, di talché resta del tutto fisiologico che, in molti casi, le ragioni prioritarie della tutela impongano che la titolarità del bene rimanga al demanio statale[9]).

 

Milita, infine, nella direzione che si è rappresentata – ossia nella direzione di una lettura della lettera d) del comma 1 dell’art. 19 della legge n. 42 del 2009 nel senso della esclusione dal meccanismo ordinario di trasferimento di tutti i beni del patrimonio culturale, dovendosi l’attributo nazionale riferire al sostantivo patrimonio e non ai singoli beni che vi fanno parte - anche un ultimo elemento interpretativo, costituito dal dato storico della ricostruzione della voluntas legislatoris[10]. Orbene, è possibile affermare in proposito che la suddetta norma di delega è stata frutto di un accordo raggiunto nell’ambito del Governo (la norma, invero, non ha subito modifiche in Parlamento, rispetto al testo proposto dal Governo), finalizzato proprio a definire il punto di equilibrio sopra esposto. Per conseguenza, l’esclusione dal trasferimento dei “beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale” non significa, come pure da taluni ritenuto, che tutti i beni culturali sono trasferiti ex lege tranne quelli “di interesse nazionale”, ma significa esattamente il contrario, e cioè che i beni culturali tutti - che sono tutti parte a pieno titolo del patrimonio culturale nazionale – esigono un regime particolare e non possono essere trattati alla stessa stregua di tutti gli altri beni demaniali.

 

 

 

3. Il decreto delegato del 2010.

 

 

 

Il decreto legislativo n. 85 del 2010 non fa altro che esplicitare e chiarire meglio il senso e la ratio della norma della legge delega, precisando che i beni del patrimonio culturale nazionale sono trasferibili in base alla normativa già vigente, che è costituita dal Codice di settore del 2004, che già offre tutti gli strumenti utili ad attuare i trasferimenti finalizzati a migliorare il servizio al pubblico di fruizione e di valorizzazione.

 

La norma del decreto delegato, sulla cui formulazione vi è stata peraltro una proficua interlocuzione collaborativa tra gli Uffici legislativi dei Ministeri competenti, vuole raggiungere proprio questo obiettivo: chiarire che tutti i trasferimenti sono possibili e utili, purché inseriti in progetti concreti per fare una migliore gestione del bene culturale e con esclusione di trasferimenti puri e semplici, finalizzati solo a trasferire competenze, a soddisfare interessi autoreferenziali delle burocrazie locali o a consentire all’ente locale di vendere puramente per ragioni di bilancio.

 

 

 

4. Lo speciale federalismo demaniale culturale.

 

 

 

Occorre adesso vedere come funziona questo federalismo demaniale culturale speciale che deroga a quello generale.

 

Il meccanismo generale prevede che appositi dd.P.C.M. attueranno il trasferimento di tutti i beni del demanio statale marittimo, idrico e aeroportuale, mentre per gli altri beni demaniali statali, individuati singolarmente o per gruppi mediante l'inserimento in appositi elenchi, il trasferimento avverrà su domanda degli enti territoriali, con esclusione dei beni inclusi nominatim all’interno di appositi elenchi redatti dall’Agenzia del demanio (in base al comma 3 dell’art. 5, in forza del quale le amministrazioni statali trasmettono all’Agenzia del demanio gli elenchi motivati dei beni immobili di cui richiedono l'esclusione e l'Agenzia, dopo un’istruttoria e previo parere della Conferenza unificata, adotta l’elenco e lo pubblica sul proprio sito internet).

 

 

Per i beni culturali opera invece il combinato disposto dei commi 2 e 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010, con esclusione dell’applicabilità del comma 3, ora riportato. Ne consegue che il Ministero per i beni e le attività culturali non deve redigere nessun elenco dei beni del patrimonio culturale da escludere dal trasferimento, ancorché la formulazione del comma 3, nella sua ampiezza e genericità, potrebbe indurre a pensare il contrario. Questa conclusione – ossia che il Ministero di settore non deve redigere alcun elenco di beni culturali di rilevanza nazionale da escludere – trova causa e spiegazione nelle considerazioni fondamentali di cui ai primi due paragrafi: se, come si è visto, l’intero patrimonio culturale è di rilevanza nazionale ed è escluso nella sua interezza dal meccanismo del federalismo demaniale ordinario, allora, quale corollario di questa premessa, consegue che il comma 3 non può operare per il settore dei beni culturali, per il quale vale solo la norma speciale del comma 5, che reca la disciplina unica ed esaustiva del federalismo demaniale culturale.

 

D’altra parte, un’ulteriore ragione della specialità di regime dei beni culturali risiede nell’impossibilità di redigere un elenco generale di tutti i beni culturali o presunti tali ex artt. 10, comma 1 e 12, comma 1, del codice di settore: si tratterebbe, infatti, di un’attività inutile e del tutto sproporzionata, in quanto estesa a ricomprendere tutti i beni statali ultracinquantennali (ora ultrasettantennali) e di autore non più vivente (nonché dei beni mobili statali ultracinquantennali e di autore non più vivente in essi eventualmente presenti che ne costituiscono arredo o che sono posti al loro servizio)[11], in qualche modo riconducibili alle tipologie astratte di interesse culturale elencate all’art. 10, commi 3 ss. del codice dei beni culturali. Una simile elencazione era già prevista, sia pur in forme diverse, dalla legge n. 1089 del 1939 e dal d.P.R. n. 283 del 2000, ma non è mai stato possibile realizzarla e sarebbe impensabile effettuarla oggi (per di più entro il limite temporale di un anno dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 85 del 2010).

 

La specialità di regime del federalismo demaniale culturale comporta altresì un principio di esaustività ed esclusività dell’accordo (ex artt. 112, comma 4, codice e 5, comma 5, decreto del 2010) ai fini del perfezionamento dell’atto genetico e della produzione degli effetti del trasferimento, con esclusione, dunque, della necessità (e della stessa possibilità) di fare ricorso, per i beni culturali, ai decreti del Presidente del consiglio dei Ministri attuativi dei trasferimenti previsti dagli artt. 3, comma 4, e 7[12] del d.lgs. n. 85 del 2010. Fatti salvi eventuali atti ricognitivi e puramente esecutivi dell’Agenzia del demanio, una volta perfezionato l’accordo – al quale deve del resto partecipare, pro parte (ossia ai soli fini ed effetti del trasferimento infrademaniale del bene), l’Agenzia del demanio – non è né necessario, né consentito fare ricorso, sia pur a fini soltanto ricognitivi, all’inclusione dei beni culturali, oggetto degli accordi, nei surrichiamati dd.P.C.M. iniziali e successivi.

 

 

 

5. Il comma 5 dell’articolo 5: gli accordi di valorizzazione.

 

 

 

Il comma 5 dell’art. 5 prevede che, nell'ambito di specifici accordi di valorizzazione e dei conseguenti programmi e piani strategici di sviluppo culturale, definiti ai sensi e con i contenuti di cui all'articolo 112, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni, lo Stato provvede, entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto delegato, al trasferimento alle Regioni e agli altri enti territoriali, ai sensi dell'articolo 54, comma 3, del citato codice, dei beni e delle cose indicati nei suddetti accordi di valorizzazione.

 

Secondo l’articolo 54, comma 3, del Codice “I beni e le cose di cui ai commi 1 e 2 possono essere oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali. Qualora si tratti di beni o cose non in consegna al Ministero, del trasferimento è data preventiva comunicazione al Ministero medesimo per le finalità di cui agli articoli 18 e 19”. L’articolo 54 riguarda la circolazione dei beni in ambito nazionale. Il comma 3 costituisce una deroga ai divieti di circolazione dei beni del demanio culturale (inalienabilità di alcune categorie di beni) sanciti dal comma 1. La disposizione si raccorda con il procedimento autorizzatorio previsto dall’articolo 55. L’ultimo periodo del comma 3 è stato aggiunto con il correttivo di cui al d.lgs. n. 63 del 2008 e (lì dove richiede che, per i beni di cui il Ministero per i beni e le attività culturali non abbia la disponibilità, venga data comunicazione al Ministero) mira a consentire in ogni caso il controllo ministeriale sull’utilizzo del bene oggetto di trasferimento infrademaniale, al fine di non vanificare la prioritarie esigenze di tutela.

 

In base all’art. 112, comma 4, del codice dei beni culturali “Lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi, relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica. Gli accordi possono essere conclusi su base regionale o subregionale, in rapporto ad ambiti territoriali definiti, e promuovono altresì l'integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati. Gli accordi medesimi possono riguardare anche beni di proprietà privata, previo consenso degli interessati. Lo Stato stipula gli accordi per il tramite del Ministero, che opera direttamente ovvero d'intesa con le altre amministrazioni statali eventualmente competenti”.

 

Gli accordi in questione si collocano, come una figura applicativa speciale, nell’alveo della previsione dell’art. 15 della legge n. 241 del 1990, in base al quale le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune e per tali accordi si osservano le disposizioni previste dall'articolo 11 in tema di forma scritta ad substantiam e di applicabilità dei princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.

 

Ciò premesso, sono essenzialmente quattro i profili che presentano taluni elementi problematici e che perciò è utile focalizzare e chiarire: 1) l’iniziativa (che spetta agli enti territoriali, sulla base di specifici progetti di valorizzazione del bene o dei beni di cui si richiede il trasferimento), il procedimento e la competenza alla stipula; 2) la natura (naturalmente facoltativa) degli accordi; 3) la causa e il contenuto degli accordi (che restano quelli originari di valorizzazione, rispetto ai quali il trasferimento è un possibile contenuto aggiuntivo non necessario, ma solo facoltativo); 4) gli effetti (che sono di trasferimento infrademaniale, da demanio a demanio, in deroga alla previsione generale del d.lgs. n. 85 del 2010, che implica di regola il passaggio dal demanio statale al patrimonio disponibile dell’ente attributario).

 

 

 

5.a. L’iniziativa, il procedimento e le parti.

 

 

 

Circa il primo profilo, quello dell’iniziativa, emerge, per i beni culturali, un’evidente inversione dell’onere di attivazione del procedimento: mentre per tutti gli altri beni, anche gli altri beni esclusi ex comma 2 dell’art. 5, è lo Stato che deve formare l’elenco dei beni sottratti al trasferimento e deve motivare in ordine al mancato trasferimento – che si attuerà, poi, mediante la formale domanda di assegnazione proveniente dal singolo ente territoriale interessato (cfr. art. 3, comma 4)[13] - nel caso dei beni culturali opera la regola opposta: devono essere le autonomie territoriali ad agire per chiedere il trasferimento mediante la proposta al Ministero di uno specifico accordo di valorizzazione. Il Ministero potrà valutare la proposta di accordo di valorizzazione e dovrà decidere – con l’unico canone di giudizio della massimizzazione della cura dell’interesse pubblico di sua competenza, di tutela e di valorizzazione del bene culturale – se la migliore soluzione, da questo punto di vista, per la corretta tutela e gestione del bene, sia effettivamente costituita dalla stipula dell’accordo e dalla prestazione del consenso al trasferimento del bene. Nel compiere questa valutazione, naturalmente, il Ministero non potrà non tenere in considerazione anche la dimensione e la rilevanza dello specifico bene culturale di cui si tratta, se di interesse meramente locale oppure se avente significato e rilievo precipui anche a livello sovralocale e/o nazionale.

 

Emerge, dunque, come l’apprezzamento della dimensione “spaziale” dell’interesse (o la sua rilevanza), nazionale e sovralocale o meramente localizzata, che non può ragionevolmente compiersi in astratto e in generale, dovrà e potrà essere compiuta (più realisticamente e ragionevolmente) in concreto, caso per caso, guardando allo stato di conservazione e alle prospettive di recupero e di riutilizzo del singolo bene esaminato, alla luce di uno specifico e documentato progetto di valorizzazione avanzato dall’ente territoriale. La dimensione – nazionale o locale – non è dunque una qualità intrinseca del bene culturale, predicabile in astratto, ma soltanto un carattere accidentale relativo al modo migliore, qui ed oggi, di garantirne una gestione in linea con le finalità di tutela e valorizzazione.

 

Da questo punto di vista trova un’ulteriore, coerente esplicitazione il principio, sopra esaminato, dell’impossibilità di pretendere che il Ministero, dal centro, possa procedere di sua iniziativa alla redazione di un elenco dei beni culturali (o presunti culturali) statali e degli altri enti pubblici nazionali da trasferire, vigendo, in questo campo, un criterio di prossimità della prova, un criterio per cui, in sostanza, l’onere di iniziativa grava sul soggetto che si trova nelle condizioni migliori per conoscere e valutare le possibili iniziative di gestione/valorizzazione del singolo bene. La logica della norma del comma 5 postula, secondo un principio di prossimità, che l’iniziativa del trasferimento, ossia la proposta di accordo di valorizzazione, provenga dal singolo ente locale interessato, che ha presso di sé, nel proprio territorio, i beni di interesse, li conosce ed è più facilmente in grado di farsi parte diligente e promotore di progetti validi di gestione preordinati alla definizione dello specifico accordo di valorizzazione volto (anche) ad attivare il trasferimento del bene. Non incombe dunque sullo Stato l’onere di attivarsi al fine di definire siffatti accordi, dovendo, tale onere, per le ragioni logiche ora esposte, ritenersi ricadente sugli enti locali interessati, e ciò anche in considerazione del fatto che il progetto di valorizzazione spesso comporta dei costi, di restauro e di gestione, che il singolo ente locale dovrà attentamente valutare e ponderare prima di proporre la stipula dell’accordo. L’acquisto del bene culturale, da parte dell’ente locale, senza un valido progetto di gestione, rischia infatti di tradursi per l’ente locale medesimo in un gravoso onere di manutenzione e di gestione che, anziché giovare al bilancio, rischia di pregiudicarlo ulteriormente.

 

All’obiezione secondo cui il Comune non può prendere iniziative progettuali (ad es. mediante project financing) in relazione a beni “non suoi”, può agevolmente replicarsi rilevando che è ben possibile la stipula di pre-intese o accordi normativi (protocolli d’intesa), di carattere programmatico, mediante i quali il Ministero assume l’impegno di trasferire nel caso in cui la procedura di project financing sortisca esito positivo con approvazione del progetto del promotore e successiva aggiudicazione della gara per le ulteriori fasi di progettazione e realizzazione dei lavori (con conseguente concessione del bene). Al riguardo deve rammentarsi che – come sarà chiarito più ampiamente nel paragrafo 7 – in ogni caso, anche allorquando il bene sia già in titolarità comunale, qualsiasi progetto di trasformazione, ma anche solo di recupero e restauro, nonché di concessione in uso, deve necessariamente acquisire le autorizzazioni in linea di tutela del Ministero, di talché il coinvolgimento dell’amministrazione statale nel progetto di recupero è comunque necessario ed è necessario che sia attivato sin dalle prime fasi ideative del progetto medesimo.

 

In ordine alle parti, oltre al Ministero per i beni e le attività culturali e all’ente territoriale (Regione, Provincia o Comune), è necessaria la partecipazione dell’Agenzia del demanio, in ragione delle sue funzioni in materia di amministrazione dei beni immobili dello Stato, ai sensi dell’art. 65 del d.lgs. n. 300 del 1999 (e ciò indipendentemente dalla circostanza che il bene oggetto di trasferimento sia in consegna al Ministero per i beni e le attività culturali o, come accadrà più frequentemente, di altra amministrazione statale).

 

Talune perplessità desta il tema della competenza interna del Ministero per i beni e le attività culturali. Da un lato, infatti, potrebbe ritenersi che il Ministero debba partecipare all’accordo in persona del Ministro pro tempore, atteso che il regolamento di riorganizzazione del Ministero (d.P.R. 26 novembre 2007, n. 233, come modificato dal d.P.R. 2 luglio 2009, n. 91) non menziona tale competenza né nell’art. 17, relativo alle attribuzioni del direttore regionale (ove, al comma 1, è prevista una generica funzione di cura dei rapporti del Ministero e delle strutture periferiche con le regioni, gli enti locali e le altre istituzioni presenti nella regione medesima), né nell’art. 7, concernente le competenze della direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee. Sennonché potrebbe obiettarsi in senso contrario che la stipula dell’accordo avrebbe consistenza di atto di gestione e non di indirizzo politico-amministrativo, come tale spettante alla dirigenza. A questa obiezione potrebbe tuttavia replicarsi con il rilievo che, comunque, l’accordo traslativo, come atto di straordinaria amministrazione, implicante la scelta di dismissione di un bene demaniale statale, dovrebbe più correttamente essere riferito alla responsabilità dell’accordo politico (ferma restando, s’intende, la funzione istruttoria e preparatoria che sarà svolta, a livello territoriale, dalla direzione regionale e dalle soprintendenze competenti). La giurisprudenza[14] ha peraltro di recente statuito, ancorché con riferimento all’art. 10 del d.P.R. n. 283 del 2000, ma con un ragionamento estensibile anche al codice dei beni culturali, art. 57-bis, e al regolamento di organizzazione del Ministero, che spetta al direttore regionale l’autorizzazione all’alienazione e le annesse prescrizioni anche di misure conservative, mentre spetta al soprintendente l’autorizzazione all’intervento edilizio sul bene (ex art. 21 codice).

 

Di regola l’accordo di valorizzazione, concernente determinati beni culturali (spesso non solo statali, ma anche regionali e comunali e, in taluni casi, anche di privati, secondo una logica di integrazione a rete del “bacino” culturale di riferimento), viene preceduto da un protocollo d’intesa, che si pone come atto programmatorio a valenza più squisitamente politica, che può riguardare una pluralità, anche eterogenea, di azioni comuni e coordinate dei diversi livelli territoriali di governo (dalla co-pianificazione paesaggistica alla promozione di attività culturali, oltre che alla gestione in comune di uno o più beni culturali, anche con la previsione di appositi soggetti fondazionali di partecipazione misti deputati alla progettazione del servizio di valorizzazione culturale, anche a mezzo del conferimento in uso dì uno o più beni tra quelli riguardati dall’accordo). Siffatti protocolli d’intesa sono di regola sottoscritti dagli organi di vertice delle rispettive amministrazioni (Ministro per i beni e le attività culturali o Sottosegretario di Stato delegato; Presidente di giunta o Sindaco, oppure assessore al ramo per le Regioni, le Province, i Comuni) e, per essi, non occorre la partecipazione dell’Agenzia del demanio (tali atti programmatici, infatti, hanno valore, in un certo senso, se riguardati da un punto di vista civilistico, di contratti per così dire “normativi”, capaci di effetti meramente obbligatori, ma privi di efficacia traslativa dei beni). A valle di tali protocolli d’intesa si pongono poi i singoli accordi attuativi di dettaglio, riguardanti le singole azioni o le specifiche aree di intervento congiunto. In questo caso, per questi accordi attuativi, allorquando già sia intervenuta “a monte” la sottoscrizione, da parte del Ministro, di un protocollo d’intesa programmatico, può sicuramente ritenersi che, per lo Stato, ferma restando la partecipazione dell’Agenzia del demanio in caso di trasferimento di beni, la stipula possa essere affidata al direttore regionale territorialmente competente. Il momento genetico del trasferimento deve essere identificato nell’accordo (titulus adquirendi), ferma restando la normale necessità di atti dell’amministrazione del demanio attuativi del trasferimento (modus adquirendi).

 

 

 

5.b. La facoltatività degli accordi.

 

 

 

Riguardo alla natura degli accordi di cui al comma 5, il punto essenziale che deve essere posto in luce è che essi sono, come è nella natura stessa degli accordi, volontari, facoltativi, non obbligatori. Essi possono, ma non devono essere necessariamente stipulati, poiché sarebbe in contrasto con i principi e con la logica prevedere un accordo dovuto e vincolato nell’an (se stipulare) e nel quid (con quale oggetto dispositivo). La natura dell’accordo è per definizione volontaria, sia sul se stipulare l’accordo, sia sul che cosa stipulare. Vige, anche nel diritto pubblico, in materia di accordi tra pubbliche amministrazioni, lo stesso principio di consensualità e di pariteticità che vige nel diritto privato, ragion per cui ciascuna amministrazione, pur sempre nell’ambito dei fini ad essa assegnati dalla legge e nel perseguimento dell’interesse pubblico di propria competenza, è libera di formare e manifestare il proprio consenso all’interno di accordi con altre istituzioni, ma non può essere a ciò tenuta o vincolata. Non c’è dubbio che la norma sul federalismo demaniale esprima un favor per la trasferibilità dei beni, ma la conclusione dell’accordo deve comunque essere di volta in volta decisa e motivata in concreto su solide ragioni di convenienza e opportunità per il miglioramento della gestione e valorizzazione del bene stesso.

 

 

 

5.c. La causa e il contenuto degli accordi.

 

 

 

Riguardo al terzo profilo, deve essere sottolineato che la nuova norma del 2010 non ha in alcun modo snaturato la funzione e la struttura proprie degli accordi di valorizzazione di cui all’art. 112 del codice, ma ne ha semplicemente previsto un possibile contenuto aggiuntivo. Un contenuto aggiuntivo non necessario, ma solo possibile ed eventuale. In altri termini, il trasferimento dei beni – contemplato dal comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010 – costituisce non già un contenuto o un effetto naturale e necessario degli accordi di valorizzazione di cui all’art. 112 del codice, bensì un possibile contenuto (ed effetto) ulteriore, da pattuirsi di volta in volta nei singoli accordi, posto che la norma del 2010 non ha affatto inteso (né avrebbe mai potuto intendere, in assenza di delega in tal senso) modificare il contenuto tipico e naturale degli accordi di valorizzazione di cui all’art. 112, comma 4, del codice. Il che implica che si potrà senz’altro continuare a stipulare accordi di valorizzazione ex art. 112, comma 4, privi di ogni effetto traslativo, ma finalizzati al solo obiettivo (ordinario) di definire modalità congiunte e collaborative, tra Stato ed autonomie territoriali, di valorizzazione di beni culturali statali, senza alcuna previsione di alienazione dei beni in essi considerati. Così come potrà senz’altro accadere che con un medesimo accordo stipulato tra Stato e Regione o tra Stato e Comune, riguardante una pluralità di beni culturali (statali, regionali, comunali), riguardo ai beni statali potrà convenirsi e pattuirsi, per alcuni, il trasferimento all’ente territoriale della sola gestione (con conferimento in uso), mentre per altri anche il trasferimento della titolarità, ex art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 85 del 2010, e per altri ancora potrà stabilirsi una qualche forma di gestione comune, oppure il conferimento in uso ad un soggetto fondazionale appositamente costituito ex art. 112, comma 4, del codice di settore: l’unico criterio decisivo resterà, dunque, la convenienza e opportunità per l’interesse generale, ossia la scelta della forma migliore di titolarità e/o gestione più rispondente in concreto all’interesse pubblico di tutela, pubblica fruibilità e valorizzazione del bene culturale. Tali accordi esibiranno, dunque, una doppia, convergente base giuridica: l’art. 112 del codice di settore e l’art. 5, comma 5, del decreto sul federalismo demaniale del 2010, per quanto riguarda la clausola di trasferimento infrademaniale.

 

Deve dunque concludersi sul punto nel senso che l’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 112 del 2010 non ha creato un nuovo tipo di accordo interistituzionale, ma ha solo “allargato” il possibile oggetto e i possibili effetti di quelli già previsti dall’art. 112 del codice di settore. Del resto, non a caso, la disposizione normativa del 2010 adopera la locuzione nell’ambito di specifici accordi di valorizzazione. . . definiti ai sensi e con i contenuti di cui all'articolo 112 del codice dei beni culturali del 2004. L’accento va posto sull’attributo specifici che qualifica il sostantivo accordi di valorizzazione, il che dimostra inequivocabilmente che gli accordi de quibus costituiscono una forma speciale del modello generale di cui all’art. 112 del codice, la cui peculiarità consiste proprio nell’ampliamento possibile dell’oggetto dell’in idem placitum consensus stipulato tra le parti, fino a ricomprendere anche l’ulteriore effetto di trasferimento di taluni beni

 

Da queste premesse deriva un’altra conclusione: gli accordi di valorizzazione ex art. 112, comma 4, del codice, richiamati dalla norma in esame, di cui al comma 5 dell’art. 5 del decreto sul federalismo demaniale, costituiscono la condizione necessaria, ma non sufficiente per il trasferimento. Non basta un accordo di valorizzazione quale che sia, riguardante uno o più beni culturali statali, perché questi beni siano ipso facto trasferiti all’ente territoriale. Occorre, invece, un’apposita, inequivoca ed esplicita manifestazione congiunta di volontà delle parti sullo specifico effetto di trasferimento, che costituisce un di più, un effetto ulteriore, solo eventuale e non naturale dell’accordo di valorizzazione, che in tanto si concreta in quanto su di esso si sia formata una chiara e distinta volontà congiunta (consenso) delle parti paciscenti. Solo un’apposita ed esplicita stipulazione tra le parti, in conclusione, può autorizzare ad attribuire all’accordo di valorizzazione ex art. 112, comma 4, del codice, anche l’effetto ulteriore, consentito dal comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 58 del 2010, di trasferimento di (alcuni o tutti) i beni in esso considerati dal demanio o dal patrimonio indisponibile statale a quello dell’autonomia territoriale.

 

 

 

5.d. Gli effetti degli accordi traslativi.

 

 

 

Sul piano effettuale, il tratto distintivo e speciale che differenzia il regime del federalismo demaniale culturale dal federalismo demaniale ordinario e comune alle altre tipologie di beni si rinviene nel fatto che il federalismo demaniale culturale opera un passaggio da demanio a demanio, e non – come per le altre tipologie di beni – da demanio a patrimonio disponibile[15]. Il bene culturale trasferito in base allo specifico accordo di valorizzazione è dunque iscritto non già – come avviene per gli altri trasferimenti – nel patrimonio disponibile dell’ente territoriale destinatario, bensì nel demanio culturale (trattandosi di beni immobili) dell’ente medesimo.

 

Ciò è stabilito positivamente dal richiamo all’art. 54, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio, contenuto nell’art. 5, comma 5 in esame. L’art. 54, comma 3, sopra citato, come si è potuto vedere, riguarda per l’appunto il passaggio da demanio statale a demanio dell’ente territoriale destinatario del trasferimento.

 

Questa inequivoca disposizione normativa trova fondamento nella più volte richiamata naturale destinazione del bene culturale alla pubblica fruizione e, quindi, nella sua naturale demanialità, intesa come appartenenza diretta all’uso generale, salve eccezioni motivate in ragione di preminenti esigenze di tutela o di particolare convenienza a fini di valorizzazione[16].

 

 

 

6. L’intermediazione della verifica dell’interesse culturale.

 

 

 

Si è già ricordato che, in forza del combinato disposto degli artt. 10, comma 1 e 12, comma 1, del codice di settore, le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni,

 

se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili sono sottoposte alle disposizioni di tutela fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell’interesse culturale[17].

 

L’esito della verifica è sempre molto chiaro: in caso di esito positivo, il bene è vincolato a tutti gli effetti (la presunzione di culturalità si attualizza e si stabilizza); se la verifica è negativa il bene – se non vincolato ad altri fini istituzionali - è sdemanializzato e restituito al patrimonio disponibile dell’ente, libero e franco da vincoli di sorta (torna, dunque, in comune commercio e uso).

 

Si è altresì ricordato come la verifica sia stata introdotta per ovviare all’incertezza giuridica legata al vecchio modello degli elenchi (mai realizzati)[18].

 

Il primo passo da compiere, dunque, nella procedura volta all’eventuale trasferimento, consiste nella richiesta di verifica dell’interesse culturale (se non già eseguita con esito positivo), che l’ente territoriale interessato dovrà proporre al Ministero[19]. Il termine massimo di durata del procedimento è di centoventi giorni. Se la verifica dà esito positivo, il bene è “certificato” culturale a tutti gli effetti e trova applicazione il comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010. Se la verifica è negativa, il bene non è un bene culturale e ricade nel meccanismo di federalismo demaniale ordinario (art. 3 del decreto legislativo del 2010).

 

Naturalmente, anche per accelerare i tempi, sarà sempre possibile procedere con atti e procedimenti contestuali o paralleli, nel senso che, sulla base di uno specifico e documentato progetto di valorizzazione presentato dall’ente territoriale, il Ministero, previa verifica dell’interesse culturale e in caso di esito positivo di tale verifica, potrà senz’altro addivenire all’approvazione del progetto di intervento, ai sensi della norma di tutela contenuta negli artt. 20 ss. del codice di settore, nonché, per quanto concerne il tipo di utilizzo prefigurato del bene, ai sensi dell’art. 57-bis del medesimo codice, e alla manifestazione del proprio consenso alla stipula dell’accordo di valorizzazione, anche con effetti traslativi. Questo atto – che si porrebbe, in un certo senso, rispetto al negozio traslativo, in termini di delibera a contrattare - darebbe il via al procedimento istruttorio partecipato e condiviso – svolto dalla locale soprintendenza con l’ausilio e il coordinamento della direzione regionale ministeriale – diretto alla predisposizione della bozza di accordo che, infine, tramite la direzione centrale e il segretariato generale, nonché, ove del caso, previo parere del competente comitato tecnico-scientifico di settore, potrà essere sottoposto alla valutazione del Ministro ai fini della successiva sottoscrizione (sempre che non si ricada in una ipotesi di competenza del solo direttore regionale).

 

 

 

7. Il rapporto con gli altri poteri autorizzatori ministeriali in ordine alle trasformazioni e agli usi del bene culturale.

 

 

 

Quanto al rapporto con gli altri poteri autorizzatori ministeriali in ordine alle trasformazioni e agli usi del bene culturale, occorre muovere da una prima considerazione fondamentale: anche in caso di accordo di valorizzazione traslativo, attuativo del federalismo demaniale culturale, il bene trasferito all’ente locale (che passa, se bene immobile, al demanio dell’ente acquirente) resta sottoposto a tutta la disciplina di tutela del codice di settore del 2004. Il che significa che la sua eventuale trasferibilità a terzi – anche privati – dovrà soggiacere alle condizioni e alle limitazioni derivanti dalle norme della parte II, capo IV (Circolazione in àmbito nazionale), sezione I (Alienazione e altri modi di trasmissione), artt. 53 ss., del codice dei beni culturali e del paesaggio, mentre ogni intervento modificativo dovrà essere sottoposto a preventiva autorizzazione del soprintendente (ai sensi delle disposizioni del medesimo codice, parte II, capo III - Protezione e conservazione - sezione I - Misure di protezione, artt. 20 ss.).

 

La gestione del bene culturale è condizionata dal principio di priorità della tutela (art. 6, comma 2, del codice, per cui La valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze). Il che vuol dire che l’intera fase progettuale (e anche quella esecutiva) dell’intervento di recupero devono passare al vaglio del controllo preventivo della soprintendenza (art. 21 del codice). Al controllo sul progetto e sull’esecuzione dei lavori, segue (o si affianca) quello sull’uso del bene stesso (gli artt. 57-bis e 106 del codice, ancor più nella versione successiva alla seconda novella, di cui al d.lgs. n. 62 del 2008, che ha in sostanza ripreso l’impostazione del vecchio d.P.R. n. 283 del 2000, impongono un rigoroso regime di controllo sull’uso dei beni culturali pubblici dati in concessione e alienandi)[20].

 

Sussiste, dunque, un doppio regime autorizzatorio, espressione della stessa funzione di tutela, incidente sul medesimo progetto realizzativo, sia pur sotto due punti di vista parzialmente differenti: da un lato il controllo sui lavori da eseguire, sotto il profilo della conservazione e protezione della consistenza materiale identificativa del bene e del suo valore culturale (controllo volto, cioè, a impedire manomissioni e alterazioni pregiudizievoli dei caratteri distintivi del bene); dall’altro, il controllo sull’uso del bene, sulla finalizzazione, dunque, del recupero, sotto il profilo della prevenzione di ogni pregiudizio per la sua conservazione e per il decoro della sua immagine che possano derivare da utilizzi impropri del bene stesso.

 

E’ altamente auspicabile, dunque, che il progetto di valorizzazione, in base al quale l’ente locale può avviare la procedura volta all’accordo di trasferimento del bene, sia sin dall’inizio debitamente concertato con la soprintendenza, sia sotto il profilo della finale destinatarietà dell’attribuzione (eventuale ipotesi di ulteriore trasferimento a terzi), sia sotto il profilo del tipo di impiego e dei lavori necessari per l’eventuale adattamento e restauro del bene medesimo.

 

 

 

8. Alcuni enunciati normativi “spuri” contenuti nel comma 5.

 

 

 

Deve infine osservarsi, per completezza di esame del testo del decreto delegato del 2010, che talune locuzioni, forse non appropriate, presenti nel testo finale della norma dell’art. 5, comma 5, devono naturalmente essere lette in accordo logico con il senso complessivo delle disposizioni in esame. Ci si deve in particolare interrogare sul senso della previsione, contenuta nel comma 5, del trasferimento dei beni culturali in sede di prima applicazione del presente decreto legislativo, trasferimento cui lo Stato dovrebbe provvedere, entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

 

Il riferimento alla sede di prima applicazione del decreto legislativo appare inutile, poiché, in realtà, il meccanismo imperniato sugli accordi specifici di valorizzazione, come sopra illustrato, può senz’altro ritenersi a tutti gli effetti il regime ordinario esaustivo e definitivo di applicazione ai beni culturali del federalismo demaniale.

 

Quanto poi all’ultimo periodo del comma 5, ove si prevede che lo Stato dovrebbe provvedere al trasferimento entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto, è evidente che trattasi di un termine solo sollecitatorio (e non perentorio): diversamente si avrebbe la conseguenza assurda dell’impossibilità di trasferimento in una data successiva. Il significato dell’espressione provvede al trasferimento deve poi essere chiarito e precisato nel senso che con essa il legislatore delegato non ha inteso introdurre e prevedere atti traslativi “a valle” degli accordi, ma ha solo inteso riferirsi alla fase attuativa degli accordi, che riguarda esclusivamente il momento esecutivo di adempimento dell’accordo raggiunto. In ogni caso il termine non è riferibile alla stipula degli accordi, ossia degli atti genetici del trasferimento che, in quanto accordi volontari, sono incoercibili e sfuggono alla logica di un termine perentorio di conclusione, atteso che la stipula è rimessa alla libera determinazione del mutuo consenso tra le parti (Stato ed ente locale) che deve convergere sulla specifica volontà di trasferire la titolarità del bene[21].

 

La nota di doverosità insita nelle sopra trascritte locuzioni normative si risolve, dunque, esclusivamente nella necessità di leale cooperazione che il Ministero deve prestare nel valutare, insieme alle autonomie territoriali che lo richiedano e alla stessa Agenzia del demanio, di volta in volta, nell’ambito di specifici accordi di valorizzazione, la trasferibilità dei beni richiesti. La previsione secondo cui lo Stato provvede entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto appare dunque essere piuttosto un residuo improprio di una logica acceleratoria che pervade l’intero decreto legislativo n. 85 del 2010, che non il frutto di una ponderata e razionale scelta coerente del legislatore delegato. Trattasi, in altri termini, di una previsione di carattere ottativo, con la quale la norma intende imprimere una spinta sollecitatoria alla conclusione degli accordi, ma che non cambia la sostanza del regime giuridico di questi istituti, per come sopra ricostruita; una disposizione, inoltre, che, soprattutto, non ha carattere perentorio (gli accordi e i trasferimenti potranno validamente farsi anche dopo il decorso dell’anno) e non “sposta” l’onere di proposta, che grava interamente sulle autonomie territoriali interessate.

 

 

 

9. Le novità introdotte dal d.l. n. 70 del 2011.

 

 

 

L’art. 4, comma 16, del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, ha elevato a settanta anni il requisito minimo di storicizzazione per la presunzione di culturalità (recte: per la sottoposizione interinale a tutela fino a verifica) delle cose immobili indicate al comma 1 dell’art. 10 (pubbliche e “parapubbliche”) e ciò proprio al fine di “riconoscere massima attuazione al Federalismo Demaniale”.

 

La norma costituisce una risposta alla critica, da più parti formulata, secondo cui il Ministero di settore avrebbe rallentato il meccanismo attuativo del federalismo demaniale pretendendo di sottoporre alle laboriose e lunghe procedure di verifica preventiva dell’interesse culturale migliaia di immobili – asseritamente di nessun valore culturale – dell’edilizia economica e popolare degli anni ’50 del secolo scorso (che ha ormai maturato i 50 anni).

 

E’ stato di contro lamentato il fatto che la nuova norma avrebbe comportato il rischio di sottrazione alla tutela di importanti edifici degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, frutto di importanti e significative creazioni dell’architettura moderna.

 

Al riguardo, per taluni, limitati casi, sulla base di una motivazione particolarmente attenta ed esaustiva, potrebbe anche esperirsi la via della dichiarazione di interesse così detto “relazione-esterno” dell’immobile (art. 10, lettera d), del codice, che non richiede il presupposto di storicizzazione), come testimonianza di un momento storico e/o di un movimento culturale particolarmente importante nell’architettura moderna, con la doverosa avvertenza, peraltro, sul piano della legittimità, della agevole contestabilità di siffatti provvedimenti di dichiarazione sotto il profilo della così detta “causa falsa” (eccesso di potere per sviamento), potendosi essi risolvere in dichiarazioni di interesse culturale intrinseco sotto le mentite spoglie di dichiarazioni di interesse relazionale, posto che l’opera di architettura moderna, che sia espressione di un determinato movimento culturale e scientifico, incorpora in se tali caratteristiche di valore culturale, di talché dovrebbe comunque essere dichiarata sotto la categoria concettuale di cui alla lettera a) dell’art. 10 e non, surrettiziamente, sotto quella di cui alla lettera d), fermo restando che la forma di tutela per gli immobili privi del requisito generale di anzianità è costituita (d’altronde) dal riconoscimento del particolare valore artistico ai sensi dell’art. della legge sul diritto d’autore n. 633 del 1941 (artt. 11, comma 1, lettera e) e 37, comma 4, del codice).

 

Sempre riguardo a questa norma si è da taluni sostenuto che essa avrebbe impedito il controllo e la tutela di beni mobili custoditi all’interno di immobili ormai non più sottoposti a tutela presunta o interinale, ad esempio, gli arredi sacri (beni culturali mobili) custoditi in chiese o edifici del culto risalenti ad oltre 50 anni, ma non aventi i 70 anni oggi richiesti dalla nuova norma. La contestazione è errata, posto che il soprintendente può esercitare il potere di accesso e di visita previsto dal codice (art. 19) a prescindere dal fatto che l’immobile in cui sono custoditi i beni culturali mobili sia a sua volta sottoposto a tutela.

 

Altri profili di possibile incidenza sul tema del federalismo demaniale culturale sono contenuti nei nuovi commi 5-bis e 5-ter aggiunti nell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010 dall'art. 4, commi 17, lett. b), e 18 del decreto legge n. 70 del 2011.

 

Al riguardo mette conto di evidenziare che queste nuove norme non riguardano né esclusivamente, né prioritariamente il regime dei beni culturali, di cui al comma 5, che resta, anzi, in tutto confermato, atteso che nel comma 5-bis, ove si ammette il potere dell’ente territoriale, che avesse già sottoscritto accordi di trasferimento anteriormente all’entrata in vigore del decreto n. 85 del 2010, di “optare” per il regime più favorevole (gratuità) proprio del federalismo demaniale, è espressamente apposta la clausola “salvo che, ai sensi degli articoli 3 e 5, [i beni] risultino esclusi dal trasferimento ovvero altrimenti disciplinati”.

 

In ordine alla “retroattività” del comma 5-bis, si ritiene che essa sia consustanziale alla ragion pratica che costituisce la causa di questa norma, diretta, come è noto, a evitare che i Comuni che avevano stipulato accordi a titolo oneroso per l’acquisto di beni del demanio statale prima dell’entrata in vigore del federalismo demaniale (ossia prima del d.lgs. n. 85 del 2010) si vedessero costretti a “onorare” l’accordo oneroso senza poter più beneficiare della gratuità del titolo propria del (sopravvenuto) federalismo demaniale. E’ dunque del tutto evidente – ed è reso peraltro chiaro dalla tecnica di novellazione e dalla locuzione adoperata dal legislatore del 2011 (accordi o intese . . . già sottoscritti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo) – che la data del presente decreto (legislativo) è e non può che essere quella dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 85 del 2010 (e non già quella del decreto legge n. 70 del 2011).

 

Appare utile, peraltro, a proposito di titolo oneroso o gratuito dell’acquisto, introdurre qui un chiarimento: anche i trasferimenti del demanio cultuale ex comma 5 dell’art. 5 sopra detto, sono a tutti gli effetti acquisti a titolo gratuito, nel senso tecnico-giuridico del termine, ossia della non corrispettività del negozio traslativo. Al riguardo occorre non confondere la nozione di onerosità in senso economico – per cui la successiva gestione del bene e la sua valorizzazione comportano di regola degli oneri, anche rilevanti, per il Comune acquirente – con la nozione di onerosità in senso giuridico. Gli accordi di valorizzazione – che sono stipulati ai sensi e per gli effetti dell’art. 112, comma 4, del codice dei beni culturali, possono, peraltro, avere normalmente un contenuto anche più ampio del solo trasferimento del bene e perciò contenere clausole onerose (ad es., il Comune si impegna a fornire la guardiania o il servizio di pulizia di un altro bene culturale statale diverso da quello oggetto di trasferimento), ma questo non esclude che il negozio traslativo avente ad oggetto lo specifico bene culturale trasferito ex art. 5, comma 5, abbia e mantenga un titolo gratuito, senza alcun corrispettivo per il Comune acquirente: il fatto che in alcuni casi l’accordo di valorizzazione possa riguardare e comprendere una pluralità di azioni comuni e/o di beni culturali, in un quadro di bacino culturale territoriale, con una pluralità di previsioni anche onerose, non significa che debba essere corrisposto un “prezzo” anche per il bene culturale demaniale oggetto di trasferimento a titolo di federalismo demaniale: sotto questo profilo, ossia sotto il profilo del titolo gratuito, gli accordi di valorizzazione, che costituiscono lo strumento giuridico attuativo del federalismo demaniale culturale, ex art. 5, comma 5, in nulla si discostano da tutti gli altri trasferimenti di federalismo demaniale.

 

Consegue da quanto sopra esposto che gli accordi di cui al comma 5-bis sono diversi rispetto a quelli di cui al comma 5, stante il disallineamento cronologico tra le due ipotesi, riguardando il comma 5-bis necessariamente ed esclusivamente “accordi o intese tra lo Stato e gli enti territoriali per la razionalizzazione o la valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari, già sottoscritti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo”: gli accordi del comma 5-bis sono pertanto quelli stipulati prima del 2010 (prima dell’entrata in vigore del federalismo demaniale) e sono perciò necessariamente diversi da quelli stipulati dopo, in attuazione del federalismo demaniale.

 

 

 

10. Lo stato di attuazione del federalismo demaniale culturale.

 

 

 

Alla luce dell’analisi sin qui svolta, appare particolarmente interessante considerare lo stato di attuazione dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 85 del 2010.

 

Al riguardo, il Segretariato generale del Ministero per i beni e le attività culturali e l’Agenzia del Demanio hanno stipulato il 9 febbraio 2011 un protocollo d’intesa volto a “definire a livello nazionale le procedure operative a cui gli organi periferici dovranno attenersi nell’attuazione delle previsioni di cui all’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (...)”.

 

Tale protocollo prevede, tra l’altro, all’art. 6, la costituzione di una cabina di regia presieduta dal Segretario generale del Ministero per i beni e le attività culturali e composta da rappresentanti dell’Agenzia del Demanio e del Ministero medesimo. Ad essa sono demandati sia compiti di indirizzo, coordinamento e vigilanza sul’applicazione corretta e uniforme del protocollo, che di monitoraggio dello stato di attuazione e di soluzione degli eventuali profili problematici.

 

In adempimento di tali compiti, la cabina di regia ha elaborato una serie di documenti, finalizzati ad assicurare l’uniforme applicazione delle disposizioni normative e del protocollo stesso sul territorio nazionale, divulgati con la circolare del Segretariato generale del Ministero per i beni e le attività culturali n. 18 del 18 maggio 2011, prot. n. 4691. Si tratta, in particolare, del documento concernente la definizione dell’iter procedurale di massima da seguire (allegato A della circolare n. 18 del 2011), dello schema di decreto di costituzione dei tavoli tecnici operativi da costituirsi in ciascuna regione in base all’art. 4 del protocollo d’intesa (allegato B della circolare), delle linee guida per l’elaborazione del programma di valorizzazione (allegato C della circolare) e dello schema di accordo di valorizzazione (allegato D della circolare).

 

Passando all’analisi dei contenuti del protocollo d’intesa tra il Ministero e l’Agenzia del Demanio del 9 febbraio 2011, occorre anzitutto segnalare che l’accordo correttamente rimette agli enti territoriali interessati, in linea con le considerazioni svolte nel presente contributo, l’iniziativa in merito al trasferimento di beni culturali appartenenti allo Stato (art. 2, comma 1). Tale indicazione è resa ancora più esplicita dal citato documento recante la definizione dell’iter procedurale (allegato A della circolare n. 18 del 2011), ove si chiarisce altresì che la richiesta dovrà contenere non solo l’individuazione dei beni interessati, ma anche “l’illustrazione delle finalità e delle linee strategiche generali che si intende perseguire con l’acquisizione del bene”.

 

Il comma 2 dell’art. 2 del protocollo stabilisce che la richiesta dell’Ente territoriale non possa avere ad oggetto alcune tipologie di beni. In particolare, chiarisce l’esclusione dal federalismo demaniale culturale degli immobili in uso per comprovate ed effettive finalità istituzionali alle amministrazioni dello Stato, ad enti pubblici o ad agenzie fiscali (art. 2, comma 2, lett. b) e degli immobili già oggetto di accordi o intese con gli enti territoriali per la razionalizzazione e/o la valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari sottoscritti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 85 del 2010 (art. 2, comma 2, lett. c). Quest’ultimo profilo, tuttavia, risulta superato dalla sopravvenuta novità normativa introdotta dall’art. 4, comma 17, lettera a) del d.l. n. 70 del 2011, sopra illustrata (par. 9), che ha per l’appunto abrogato la precedente disposizione che escludeva dal meccanismo del federalismo demaniale gli accordi precedentemente stipulati.

 

Più delicata si presenta, invece, l’esegesi dell’ipotesi contemplata all’art. 2, comma 2, lett. a), del protocollo d’intesa, ove si esclude la possibilità di presentazione di richieste di trasferimento con riferimento ai “beni immobili appartenenti al patrimonio culturale nazionale”. Al riguardo, si richiama quanto sopra esposto (e, in particolare, le considerazioni svolte al precedente paragrafo 5.a) circa la valutazione in merito alla dimensione dell’interesse coinvolto. Tale apprezzamento, come anticipato, non attiene a una caratteristica intrinseca del bene culturale predicabile in astratto e una volta per tutte, ma deve essere svolto in concreto e in relazione allo stato di conservazione del bene, alle relative esigenze di tutela e alle potenzialità di valorizzazione hic et nunc che il medesimo presenta. L’esclusione in argomento non sarà, pertanto, da intendere in assoluto, nel senso di precludere agli Enti territoriali di proporre istanze di trasferimento della proprietà di determinati beni culturali statali di cui possa astrattamente predicarsi un asserito valore o rilievo “nazionale”, in opposizione ad altri beni di interesse solo “locale”, bensì nel senso di rimettere al competente tavolo tecnico operativo il compito di verificare, come previsto dal successivo art. 4, comma 3, lett. b), del protocollo d’intesa, “sulla base dei criteri di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con competenze e funzioni, valorizzazione ambientale fissati dalla L. n. 42/2009 e dal D.lgs. n. 85/2010, se ricorrano le condizioni per il trasferimento dei beni individuati dall’Ente territoriale richiedente, tenuto altresì conto delle esigenze statali connesse alla predisposizione di idonei piani di razionalizzazione degli usi governativi”.

 

L’art. 3 del protocollo d’intesa chiarisce che gli accordi di valorizzazione stipulati al fine del trasferimento dei beni provvedono a definire gli obiettivi di valorizzazione, condivisi tra lo Stato e gli Enti interessati, indicando altresì espressamente le “prescrizioni  necessarie a garantire tutela, conservazione e fruizione pubblica dei beni”.

 

Al riguardo, occorre segnalare che il citato art. 3 del protocollo d’intesa fa chiaramente riferimento ad un modello procedimentale in cui all’accordo di valorizzazione non sono attribuiti immediati effetti traslativi, bensì solo obbligatori. Gli accordi sono, infatti, indicati quali atti “propedeutici” al trasferimento dei beni. Ciò è confermato dal successivo art. 5, ove si demanda all’Agenzia del Demanio, anche per il tramite delle competenti Filiali territoriali, il compimento delle procedure finalizzate a dare seguito agli accordi stipulati mediante i trasferimenti di titolarità dei beni ivi previsti. Ancor più chiaramente, il paragrafo 7 del richiamato documento recante la definizione dell’iter procedurale di massima (allegato A alla circolare n. 18 del 2011) prevede, al fine di operare il trasferimento di titolarità dei beni demaniali preordinato dagli accordi di valorizzazione, “la predisposizione e la stipula di specifici atti pubblici” (sul punto cfr. sub par. 5.a, ad finem).

 

La valutazione delle richieste di trasferimento presentate dagli Enti territoriali è rimessa, come si è detto, gli appositi tavoli tecnici operativi costituiti a livello regionale con decreto del Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Ministero per i beni e le attività culturali, da redigersi in conformità al modello approntato dalla cabina di regia e divulgato con l’allegato B alla più volte citata circolare n. 18 del 2011. Il coordinamento di ciascun tavolo tecnico è demandato al Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Ministero o, su sua delega, al Soprintendente territorialmente competente. Al tavolo tecnico partecipano i rappresentanti degli organi periferici del Ministero competenti per la materia trattata, nonché i rappresentanti dell’Agenzia del Demanio. Sono, inoltre, invitati a partecipare gli enti territoriali richiedenti il trasferimento dei beni (art. 4, comma 1, del protocollo). Possono, infine, partecipare al tavolo tecnico anche gli eventuali ulteriori soggetti istituzionali interessati all’attuazione degli accordi di valorizzazione (art. 4, comma 5, del protocollo).

 

Il documento recante la definizione dell’iter procedurale di massima (allegato A alla circolare n. 18 del 2011) prevede, al paragrafo 2, che il provvedimento di costituzione del tavolo tecnico sia pubblicato sul sito istituzionale dell’Agenzia del Demanio e su quello della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici, nonché trasmesso alla Regione e alle Province perché ne assicurino la divulgazione presso i Comuni. La prima riunione del tavolo tecnico sarà inoltre dedicata, in base al paragrafo 3 del medesimo documento, all’informazione degli Enti territoriali potenzialmente interessati circa le procedure operative e le concrete modalità attuative dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 85 del 2010.

 

Compito dei tavoli tecnici è anzitutto quello di acquisire l’indispensabile quadro conoscitivo della situazione di ciascun bene, di cui dovranno essere accertati non solo gli aspetti inerenti le caratteristiche fisiche e storico artistiche, ma anche la relativa situazione giuridica, allo scopo di “verificarne la suscettività a rientrare negli accordi di valorizzazione (...)” (art. 4, comma 3, lett. a, del protocollo). Verrà inoltre compiuta, come sopra anticipato, la valutazione concernente l’opportunità del trasferimento richiesto, alla luce dell’apprezzamento in merito al livello di governo da ritenere maggiormente idoneo ad assicurare la valorizzazione del bene (art. 4, comma 3, lett. b). Infine, compito dei tavoli tecnici sarà anche quello di definire i contenuti specifici dell’accordo di valorizzazione “con indicazione delle strategie e degli obiettivi comuni di valorizzazione e dei conseguenti programmi e piani di sviluppo culturale che garantiscano la massima valorizzazione culturale, tenendo conto delle caratteristiche fisiche, morfologiche, ambientali, paesaggistiche, culturali e sociali dei beni individuati e dei vincoli posti a tutela degli stessi ai sensi del D.lgs. n. 42/2004 e promuovendone l’integrazione con le infrastrutture e i settori produttivi collegati” (art. 4, comma 3, lett. b).

 

Più in dettaglio, il paragrafo 4 del documento recante la definizione dell’iter procedurale di massima (allegato A alla circolare n. 18 del 2011) affida ai tavoli tecnici operativi il compito di procedere anzitutto a stabilire quali richieste presentate dagli Enti territoriali siano da ritenere manifestamente inammissibili perché concernenti beni esclusi dal trasferimento “ai sensi di quanto prescritto dal D.Lgs. n. 85/2010 e richiamato espressamente nell’art. 2, comma 2, del Protocollo d’intesa”[22].

 

Solo con riferimento alle richieste che abbiano superato tale preliminare vaglio di non manifesta inammissibilità verranno attivate le “sessioni operative” del tavolo tecnico. Alle sedute del tavolo tecnico saranno convocati anche gli Enti territoriali interessati, allo scopo di assicurare la condivisione e l’approfondimento di tutti gli aspetti conoscitivi concernenti i beni interessati e l’effettiva possibilità dei beni stessi di rientrare nelle procedure di trasferimento. Sembra potersi dedurre che, a seguito di tale approfondimento, ulteriori beni potranno essere esclusi dal trasferimento, con conclusione anticipata del relativo iter procedimentale, sulla base di un ponderato apprezzamento discrezionale che muova dalla situazione fattuale e giuridica del bene e dalle sue potenzialità di fruizione e valorizzazione, ancorché l’istanza di trasferimento non fosse stata ritenuta manifestamente inammissibile.

 

Solo per i beni per i quali tale verifica dia esito positivo, l’iter proseguirà – secondo quanto indicato al paragrafo 5 del documento in allegato A alla citata circolare n. 18 del 2011 – con lo sviluppo e la presentazione, ad opera degli Enti territoriali interessati, del programma di valorizzazione, da predisporsi sulla base delle apposite linee guida predisposte dalla cabina di regia e divulgate con l’allegato C alla più volte richiamata circolare n. 18 del 2011[23].

 

Il paragrafo 6 del documento in allegato A alla circolare n. 18 del 2011 prevede, poi, un’apposita seduta del tavolo tecnico per l’analisi e valutazione dei programmi, previa istruttoria della competente Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici, nonché per addivenire alla condivisione degli stessi da parte del Ministero e dell’Agenzia del Demanio, con redazione di apposito verbale. 

 

Successivamente al compimento delle predette valutazioni ad opera del tavolo tecnico operativo e sulla base dei programmi di valorizzazione condivisi, potrà procedersi, ove ne ricorrano le condizioni, alla predisposizione e alla sottoscrizione dei relativi accordi di valorizzazione, da redigersi in conformità allo schema proposto dalla Cabina di regia nazionale e divulgato mediante l’allegato D alla citata circolare n. 18 del 2011.

 

Tali accordi – ai quali parteciperanno la competente Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici, la competente Filiale territoriale dell’Agenzia del Demanio e l’Ente territoriale richiedente – saranno costituiti da una parte dedicata alle premesse e da un articolato da redigersi facendo riferimento alle sezioni tematiche indicate nel citato allegato D alla circolare[24]. Tra le disposizioni da inserire nei futuri accordi, particolarmente significative appaiono quelle relative agli obblighi conservativi e alle prescrizioni di tutela, la cui determinazione spetterà ai competenti organi del Ministero. Tali prescrizioni formeranno oggetto di apposita clausola risolutiva espressa ai sensi dell’art. 1456 del codice civile.

 

Significativo, infine, il paragrafo 8 del documento, recante l’iter di massima in allegato A alla medesima circolare, il quale utilmente ribadisce che “Una volta trasferiti in proprietà agli Enti territoriali, i beni conservano la natura di demanio pubblico – ramo storico, archeologico e artistico – e restano integralmente assoggettati alla disciplina di tutela e salvaguardia di cui al D.lgs. n. 42/2004”.

 

Il compito di verificare il rispetto delle prescrizioni e condizioni contenute negli accordi di valorizzazione è demandato al Soprintendente territorialmente competente, il quale, in caso di riscontrate inosservanze, provvede alle necessarie comunicazioni alla competente Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici e alla Filiale territoriale dell’Agenzia del Demanio ai fini della risoluzione dell’atto di trasferimento.

 

 

 

11. Conclusioni.

 

 

 

Il decreto del 2010 attuativo del federalismo demaniale riconosce ai beni culturali uno statuto speciale. Li sottrae al trasferimento di massa – ispirato a logiche giuscontabilistiche di smembramento e liquidazione (iscrizione al patrimonio disponibile e favor per la dismissione-alienazione) – e introduce, per essi, uno speciale federalismo demaniale culturale, ispirato a logiche di migliore gestione nell’interesse degli stakeholders, i proprietari veri, che sono tutti i cittadini, nel rispetto della demanialità naturale di tali beni (passaggio infrademaniale, ex art. 54, comma 3, del codice).

 

Il legislatore delegato del 2010 – correttamente applicando la legge di delega del 2009 – si è reso interprete accorto e saggio della consapevolezza, che appare sempre più diffusa e consolidata nella società italiana, a tutti i livelli, del fondamentale rilievo identitario del nostro straordinario patrimonio culturale, che funge da cemento, da vero e proprio collante costitutivo della nostra stessa identità di popolo e di nazione, pur nel riconoscimento delle diversità locali e territoriali. Questo essenziale valore trova espressione nell’articolo 9 della Costituzione (La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione) e, più di recente, anche nell’articolo 2 del codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004.

 

Si è affermata la consapevolezza del fatto che ciò che conta non è l’intestazione formale del singolo bene all’uno o all’altro Ente pubblico, ma la qualità della gestione a servizio dei cittadini, qualità della gestione che non può raggiungersi se non attraverso una leale cooperazione e una proficua sinergia tra i diversi livelli di governo territoriale, che vada al di là della logica puramente burocratica del riparto delle competenze.

 

E’ convinzione del pari comunemente accettata, alla luce della non facile esperienza amministrativa degli ultimi decenni, che è impossibile stilare una graduatoria dell’importanza dei beni culturali, secondo il criterio della loro rilevanza territoriale, locale, regionale, nazionale o universale. La gran parte dei beni culturali esprimono, infatti, un valore che presenta una dimensione ideale non suscettibile di una specifica delimitazione territoriale. La dimensione – nazionale o locale – del bene culturale rileva non in astratto, come attributo intrinseco del bene, ma in concreto, come criterio che orienta la scelta delle modalità più proficue di gestione.

 

La logica nuova nella quale si sono utilmente mossi negli ultimi dieci anni sia il legislatore, sia la pratica amministrativa è quella della leale cooperazione e della definizione di intese e accordi tra tutti i soggetti pubblici competenti per una gestione e una valorizzazione condivise dei beni culturali, sia a livello di programmazione e di pianificazione, sia a livello di realizzazione delle opportune ed efficaci forme di gestione, aperte alla sussidiarietà orizzontale. In questa direzione già numerosi accordi sono stati definiti negli ultimi anni tra Stato, Regioni e altre autonomie territoriali, in tema di gestione in comune dei beni culturali, indipendentemente dalla loro formale appartenenza, secondo una logica di integrazione “a rete” dei percorsi del turismo culturale, anche al fine di indurre processi virtuosi di crescita durevole e sostenibile dei territori, che possono trovare nel patrimonio culturale quel valore aggiunto, insostituibile e inimitabile, che non solo fa da volano, ma imprime un senso di civiltà e di qualità allo sviluppo.

 

 

 

 

 

 

 

Paolo Carpentieri

 

 

 

 

 

· Relazione tenuta al convegno “Beni e attività culturali: federalismo e valorizzazione”, svoltosi presso il Ministero per i beni e le attività culturali, Complesso Monumentale di S. Michele a Ripa, in Roma, il 13 ottobre 2011.

 

[1] Si tratta di un’ambiguità che potrebbe dar luogo a un caso di “fallacia di composizione” o di “divisione” del relativo argomento, derivante dalla mancata esplicitazione del quantificatore (tutti, ogni, oppure alcuni; I. Copi, Introduzione alla logica, Bologna, 1961, 98 ss., nonché, sulla distribuzione nelle proposizioni categoriche, 162 ss.).

 

[2] Non si condivide, pertanto, la tesi, pur elegante, di V. M. Sessa, Il federalismo demaniale e i suoi effetti sul patrimonio culturale, in Aedon, Rivista di arti e diritto on line, al sito http://www.aedon.mulino.it, n. 1/2011, pagg. 2 e 3 del documento, secondo la quale con la dicitura “patrimonio culturale nazionale” (del tutto escluso dal federalismo demaniale) si intenderebbero i beni di “importanza nazionale”, e ciò in linea con la distinzione del codice di settore – art. 54, comma 1 – tra inalienabilità assoluta (immobili ed aree di interesse archeologico, immobili dichiarati monumenti nazionali, raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche etc.) e inalienabilità relativa (ossia alienabilità previa autorizzazione, ex art. 55 stesso codice). La tesi cozza con la stessa lettera dell’art. 5, comma 5, che richiama proprio l’art. 54, comma 3, del codice dei beni culturali, ossia l’unica eccezione al divieto assoluto di alienazione dei beni dell’art. 54, commi 1 e 2, vale a dire, per l’appunto, il trasferimento da demanio a demanio (“infrademaniale”). Non si può, dunque, sostenere che i beni “assolutamente inalienabili” di cui all’art. 54 sarebbero fuori dal federalismo demaniale culturale. La tesi, inoltre, è circolare, poiché le due posizioni sostenute nel contributo - la suesposta interpretazione dell’ambito applicativo dell’art. 5, comma 5, e la destinazione a patrimonio disponile (e, quindi, ad alienazione) dei beni culturali trasferiti per effetto del federalismo demaniale – si sorreggono l’un l’altra, ma restano prive di autonomo fondamento: la riferita identificazione dell’ambito applicativo dell’art. 5, comma 5, con la categoria dei beni culturali alienabili previa autorizzazione (art. 55 del codice, onde l’esclusione dal federalismo demaniale dei beni, assolutamente inalienabili, di cui all’art. 54, comma 1, che sarebbero, quindi, quelli di importanza nazionale) è, infatti, argomentata esclusivamente sulla base della tesi secondo cui i beni culturali trasferibili agli enti territoriali per effetto del federalismo demaniale sarebbero destinati a patrimonio disponibile in funzione della loro (naturale) successiva alienazione; tesi, quest’ultima, che, a sua volta, si basa esclusivamente sulla prima. In realtà entrambe le posizioni non sono condivisibili: la prima (ambito applicativo) per le ampie argomentazione svolte nel presente e nel precedente paragrafo; la seconda per quanto si dirà nel par. 5.d. A tutto ciò si aggiunga l’ulteriore rilievo critico per cui, a seguire questa tesi, in definitiva, la specialità di regime dei beni culturali – prevista dal comma 5 dell’art. 5 – non avrebbe più una sua comprensibile ragion d’essere: se fosse vero che i beni culturali assolutamente inalienabili sono esclusi dal federalismo demaniale, perché di importanza nazionale, mentre quelli relativamente alienabili sono sottoposti al suo regime ordinario (passaggio al patrimonio disponibile e successiva libera alienazione), allora non avrebbe alcuna utilità la subordinazione del passaggio a specifici accordi di valorizzazione.

 

[3] Nonostante la “timidezza” sul punto della parte I del codice del 2004 (il comma 2 dell’art. 1 si limita a prevede che la tutela e la valorizzazione concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio), resta, chiaro e forte, l’enunciato fondamentale del secondo comma dell’art. 9 ella Costituzione, in base al quale La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. E non v’è dubbio che il Costituente ha inteso riferirsi non già a una sola parte del patrimonio culturale, a una sorta di “serie A” dei beni culturali, a una indefinibile categoria di beni di importanza nazionale, bensì a tutto il patrimonio culturale, ossia a tutto l’ambito applicativo della allora vigente legge n. 1089 del 1939 (sul tema è qui sufficiente il rinvio a G. Severini, sub artt. 1-2, in M.A. Sandulli (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006, 16 ss., ed ivi esaustivi richiami di dottrina; sul concetto giuspubblicistico e costituzionale di Nazione, nella sua declinazione culturale, legata ai fattori culturali e di comune origine e storia, cfr. V. Crisafulli, D. Nocella, voce Nazione in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 40 ss.).

 

[4] A. Police, Il federalismo demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni locali?, in Giorn. dir. amm., n. 12/2010, 1233, dove si osserva condivisibilmente come il principio di semplificazione, enunciato nell’art. 2, si traduce operativamente soprattutto in una forte facilitazione della facoltà di dismissione, legata, del resto, alla normale attribuzione degli stessi beni demaniali statali al patrimonio disponibile dell’ente territoriale attriibutario, ad eccezione di quelli provenienti dal demanio marittimo, idrico e aeroportuale.

 

[5] A. Police, op. cit., 1236 (ove si richiamano, sul piano più generale, M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004, Id., Beni pubblici, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, nonché I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Atti del Convegno svoltosi in Roma, novembre 2008, a cura di A. Police, Milano, 2008; G. Napolitano, I beni pubblici e “le tragedie dell’interesse comune”, in Annuario Aipda 2006, Milano, 2007, 125).

 

[6] G. Palma, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, 1971; S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 130 ss., nonché Id., Gestione e alienazione dei beni culturali, in Annuario Aipda 2003, Milano, 2004, 154 ss. Su tali tematiche cfr. G. Severini, sub artt. 112 e ss, in M.A. Sandulli (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 723 ss.; D. Vaiano, sub art. 111, in Commento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di G. Trotta, G. Caia e N. Aicardi, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, Padova, n. 1 del 2006, 66 ss.; sia consentito poi anche il rinvio a P. Carpentieri, sub art. 102, in AA.VV., Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, commento coordinato da R. Tamiozzo, Giuffré, Milano, 2005, 449 ss., nonché Id., sub art. 112, ivi 490 e sub artt. 115, 116 e 117, ivi 506 ss.

 

[7] Sulla nozione di valorizzazione dei beni culturali, oltre ai contributi citati nella nota precedente, cfr. L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 698 ss., nonché Id., Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., n. 5 del 2004, 483.

 

[8] Osserva efficacemente G. Severini, sub artt. 1-2, in M.A. Sandulli (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 14, che “Patrimonio” (lat. patrimonium, lascito o consegna dei padri, ingl. heritage) è espressione di significazione valorialmente orientata, aggregativa e conservatrice”. Esattamente l’opposto, dunque, dell’idea di una valorizzazione del patrimonio pubblico imperniata sulla politica delle dismissioni, ossia dello smembramento del patrimonio e della sua vendita frazionata per finalità puramente economiche..

 

[9] La deprecata divaricazione tra tutela e valorizzazione – introdotta dal nuovo titolo V della Costituzione, nei commi secondo e terzo dell’art. 117, riprendendo l’impostazione del d.lgs. n. 112 del 1998, al solo fine di spartizione di competenze tra enti pubblici e a discapito della realtà delle cose e della logica – va ricondotta in qualche modo a razionalità e non può condurre a esiti aberranti, in danno dell’interesse pubblico: sotto questo profilo, indubbiamente, la preminenza logica e giuridica della tutela sulla valorizzazione (art. 6, comma 2, del codice dei beni culturali: se non si conserva il bene, viene meno lo stesso presupposto oggettivo per fare una sua valorizzazione) sembra costituire un caso paradigmatico di possibile allocazione statale della competenza amministrativa, sia in forza dello strumento della chiamata in sussidiarietà della competenza statale (Corte cost., n. 303 del 2003 e, da ultimo, 22 luglio 2010, n. 278), sia in base al criterio di prevalenza (sentenze n. 50 del 2005 e n. 370 del 2003). Sulla dialettica tutela/valorizzazione sia consentito, per sintesi, il rinvio a P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali, nota di commento a Corte costituzionale 28 marzo 2003, n. 94, in Urb. e App., n. 9/2003, 1017 ss.

 

[10] Ricostruibile per chi scrive dall’osservatorio privilegiato dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali.

 

[11] In proposito si segnala che il comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010 riferisce l’istituto del c.d. “federalismo demaniale culturale” genericamente ai beni e alle cose indicati negli appositi accordi di valorizzazione. Tali beni e cose dovranno, peraltro, essere necessariamente omogenei a quelli presi in considerazione dalla disciplina generale sul federalismo demaniale, la quale, in base all’art. 5, comma 1, del decreto legislativo ha ad oggetto, come riportato nel testo, “I beni immobili statali e i beni mobili statali in essi eventualmente presenti che ne costituiscono arredo o che sono posti al loro servizio”. 

 

[12] L’art. 7 prevede i decreti biennali di attribuzione con i quali possono essere attribuiti ulteriori beni eventualmente resisi disponibili per ulteriori trasferimenti, sulla base di istanze degli enti territoriali interessati, che possono individuare e richiedere ulteriori beni non inseriti in precedenti decreti né in precedenti provvedimenti del direttore dell'Agenzia del demanio.

 

[13] Si riporta il testo del comma 4 dell’art. 3 citato: “Sulla base dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui al comma 3, le Regioni e gli enti locali che intendono acquisire i beni contenuti negli elenchi di cui al comma 3 presentano, entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dei citati decreti, un'apposita domanda di attribuzione all'Agenzia del demanio. Le specifiche finalità e modalità di utilizzazione del bene, la relativa tempistica ed economicità nonché la destinazione del bene medesimo sono contenute in una relazione allegata alla domanda, sottoscritta dal rappresentante legale dell'ente. Per i beni che negli elenchi di cui al comma 3 sono individuati in gruppi, la domanda di attribuzione deve riferirsi a tutti i beni compresi in ciascun gruppo e la relazione deve indicare le finalità e le modalità prevalenti di utilizzazione. Sulla base delle richieste di assegnazione pervenute è adottato, entro i successivi sessanta giorni, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, sentite le Regioni e gli enti locali interessati, un ulteriore decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, riguardante l'attribuzione dei beni, che produce effetti dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e che costituisce titolo per la trascrizione e per la voltura catastale dei beni a favore di ciascuna Regione o ciascun ente locale”.

 

[14] Cons. Stato, sez. VI, 16 luglio 2010, n. 4602 (reperibile, come tutte le altre sentenze del giudice amministrativo successive all’anno 2000, citate in questo contributo, al sito http://www.giustizia-amministrativa.it).

 

[15] Conclusioni di segno diverso sono esposte in V. M. Sessa, Il federalismo demaniale e i suoi effetti sul patrimonio culturale, cit., pagg. 3 e 6 del documento, ma tale posizione deriva esclusivamente, senza uno specifico approfondimento, dalla tesi della medesima A., di cui si è già detto supra, par. 2, nota 2, della applicabilità del federalismo demaniale ai soli beni “relativamente inalienabili”, secondo la distinzione desumibile dagli artt. 54, comma 1, e 55 del codice di settore. La tesi del passaggio a patrimonio disponibile condurrebbe all’esito paradossale per cui di due palazzi “gemelli”, poniamo del XVI sec. (immaginiamo quelli di Michelangelo del Campidoglio, in Roma), se l’uno fosse del demanio culturale statale e l’altro di quello comunale, per effetto del federalismo demaniale il primo, una volta trasferito al Comune, passerebbe al patrimonio disponibile comunale e sarebbe tuot court alienabile, mentre il secondo, già ab initio comunale,  resterebbe del demanio culturale comunale: il che pare inaccettabile. Si aggiunga che, correttamente, la circolare ministeriale n. 18 del 18 maggio 2011, prot. n. 4691, qui illustrata nel successivo par. 10, precisa, nell’allegato A, che “Una volta trasferiti in proprietà agli Enti territoriali, i beni conservano la natura di demanio pubblico – ramo storico, archeologico e artistico – e restano integralmente assoggettati alla disciplina di tutela e salvaguardia di cui al D.lgs. n. 42/2004”.

 

[16] Il che non significa che non siano possibili progetti di recupero/valorizzazione di beni culturali imperniati su interventi finalizzati al parziale utilizzo del bene per fini commerciali e di servizi (alberghi, ristoranti, negozi, strutture sanitarie, scuole etc.) solo indirettamente aperti al pubblico, ossia accessibili non per la generalità indifferenziata del pubblico, ma solo per un pubblico variamente selezionato in base a titoli speciali di ingresso. Su queste tematiche sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, La gestione dei beni culturali e la finanza di progetto, in G. F. Cartei, M. Ricchi (a cura di), Finanza di progetto, temi e prospettive, Napoli, 2010, 345 ss. Le soluzioni ivi esposte hanno ricevuto un recente, ulteriore approfondimento, con soluzioni che paiono del tutto condivisibili, nella sentenza del Cons. Stato, sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1011, che ha espresso il principio secondo cui la fruibilità pubblica, cui deve essere comunque destinato l’immobile, ancorché di ente morale privato e non pubblico, non postula l’uso pubblico diretto totalitario del bene, ma è soddisfatta anche da usi privati aperti al pubblico.

 

[17]  Per la recente modifica della soglia di “culturalità” delle cose appartenenti a soggetti pubblici o a persone giuridiche private senza fine di lucro si fa rinvio a quanto sinteticamente esposto al paragrafo 9.

 

[18] In mancanza degli elenchi – impossibili da redigere – nella prassi applicativa, prima del codice di settore del 2004, che ha razionalizzato la materia introducendo l’istituto della verifica dell’interesse culturale, regnava la più grande incertezza sul regime e sullo stato giuridico dei beni pubblici astrattamente di interesse culturale e presunti tali. La giurisprudenza stessa non aveva saputo fornire soluzioni chiare e condivise, poiché in alcuni casi aveva preteso un “provvedimento esplicito di riconoscimento dell’interesse storico artistico”, ancorché atipico e innominato (Cons. Stato, sez. VI, 8 gennaio 2003 n. 20; Id., 2 novembre 1998 n. 1479 e 8 febbraio 2000 n. 678), in altri un previo atto ricognitivo, benché anche informale (Cons. Stato, sez. VI, 5 ottobre 2004, n. 6483; 19 marzo 2007, n. 1288; 23 marzo 2007, n. 1413), in altri casi ancora aveva affermato la non necessità di un “accertamento costitutivo”, ma solo di un’attività “di mera ricognizione” (Cons. St., sez. VI, 22 marzo 2005, n. 1160). In altri casi, infine, la non “culturalità” di un immobile pubblico ultracinquantennale era stata desunta in via indiretta da una pronuncia (atipica) resa dalla Soprintendenza su richiesta del Comune (Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2004, n. 7245). Cons. Stato, sez. VI, 22 giugno 2007, n. 3450 richiedeva, invece, “uno specifico atto costitutivo, impositivo del vincolo”. Di diverso avviso la Cassazione (Cass., sez. I, 24 aprile 2003, n. 6522), secondo cui l’inclusione nel demanio pubblico e l’assoluta inalienabilità dei beni immobili di interesse storico artistico dello Stato non postulava formali e specifici provvedimenti valutativi della p.a., ed era riscontrabile sulla scorta delle intrinseche qualità e caratteristiche del bene, evincibili anche dagli atti e comportamenti posti in essere dall’autorità amministrativa nella gestione dello stesso”.

 

[19] In proposito si ricorda che sono stati stipulati accordi con l’Agenzia del demanio e con le autonomie territoriali riversati nei decreti dirigenziali interministeriali del 6 febbraio 2004 e del 28 dicembre 2005, concernenti la “verifica dell’interesse culturale dei beni immobili di utilità pubblica”, nonché nel decreto del Capo dipartimento del 25 gennaio 2005 recante i “Criteri e modalità per la verifica dell’interesse culturale dei beni immobili di proprietà delle persone giuridiche private senza fine di lucro”. E’ stato altresì emanato il decreto 27 settembre 2006, che definisce i criteri e le modalità per la verifica dell’interesse culturale dei beni mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, nonché il decreto 22 febbraio 2007, di concerto con l'Agenzia del demanio, che definisce le modalità per la verifica dell’interesse culturale degli immobili in uso al Ministero della difesa. Al sito http://www.benitutelati.it è a disposizione degli enti un percorso informatico guidato per la compilazione on line delle schede e per l’avvio delle procedure di verifica. Fonti ministeriali (aggiornate al mese di ottobre 2010) riferiscono che, dall’entrata in vigore della norma di cui all’articolo 12 del codice dei beni culturali e del paesaggio, il Ministero per i beni e le attività culturali ha ricevuto circa 25.000 elenchi da parte degli enti ed ha avviato circa 24.500 procedimenti, di cui oltre 16.500 già conclusi. Di questi beni oltre 10.000 sono stati riconosciuti di interesse culturale, mentre oltre 21.000 sono stati riconosciuti privi di interesse culturale (il numero totale dei beni esaminati è maggiore degli elenchi perché gli elenchi inviati dagli enti comprendono più beni). Solo in 681 casi sono stati superati i 120 giorni di durata del procedimento, previsti dall’art. 12, in sospensione dei termini.

 

[20] Si è posto nella pratica applicativa un problema di rapporto tra gli artt. 106 e 57-bis del codice. In proposito l’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali, con recenti pareri (prot. n. 0013862 del 30 giugno 2009 e n. 13014 del 16 giugno 2009), ha chiarito che la concessione di cui all’art. 57-bis si caratterizza per la finalità prevalentemente economica e per una durata più ampia rispetto a quella normalmente propria della concessione in uso individuale di cui all’art. 106 del codice.

 

[21] La questione della natura solo ordinatoria – e non perentoria – del termine e gli altri profili interpretativi trattati nel paragrafo sono chiariti nei pareri dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali prot. n. 21915 del 7 dicembre 2010 e n. 14875 del 29 luglio 2011.

 

[22]  Al riguardo, è significativo rilevare come il documento citato indichi quali richieste manifestamente inammissibili solo quelle “aventi ad oggetto immobili inseriti in altri iter procedurali o comunque esclusi dal ‘federalismo demaniale’ poiché in uso alle Amministrazioni dello Stato per comprovate ed effettive finalità istituzionali [o già oggetto di accordi e intese tra Stato ed Enti territoriali per la razionalizzazione e/o valorizzazione degli stessi] – fattispecie, quest’ultima, come detto, superata dal d.l. n. 70 del 201 -, cioè soltanto le ipotesi di esclusione menzionate alle lettere b e c dell’art. 2, comma 2, del Protocollo d’intesa. Non viene, invece, fatta menzione dell’esclusione delle richieste aventi ad oggetto “beni immobili appartenenti al patrimonio culturale nazionale”, prevista dalla già richiamata lett. a dell’art. 2, comma 2, del Protocollo. E ciò proprio perché, come si è detto più volte, tale espressione non può essere intesa come riferita ad una qualità intrinseca del bene apprezzabile in base ad una valutazione in astratto ed ex ante di ammissibilità dell’istanza di trasferimento; viceversa, si tratta di un apprezzamento che il tavolo tecnico potrà svolgere solo in concreto, sulla base delle risultanze di quelle che il documento di definizione dell’iter procedurale di massima qualifica come “sessioni operative”.

 

[23]  Le “Linee guida per la elaborazione del programma di valorizzazione” di cui all’allegato C alla circolare del Segretariato generale del Ministero per i beni e le attività culturali n. 18 del 2011 individuano l’articolazione dei futuri programmi di valorizzazione in una serie di punti: 1. Descrizione e interesse culturale del bene; 2. Programma di valorizzazione del bene; 3. Analisi e approfondimento conoscitivo del bene; 4. Contesto territoriale di riferimento; 5. Specifiche di attuazione del programma di valorizzazione; 6. Sostenibilità economico-finanziaria e tempi di attuazione del programma di valorizzazione. Le premesse alle suddette linee guida chiariscono che i punti ivi articolati costituiscono un mero riferimento volto a facilitare il compito delle Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici con l’indicazione degli aspetti che dovranno essere presi in considerazione. Rimane fermo, peraltro, che le medesime Direzioni regionali potranno individuare, in base alle specifiche situazioni, le modalità di trattazione e approfondimento dei diversi aspetti ritenute più idonee, anche stabilendo di non affrontare nel dettaglio tutti gli aspetti indicati nello schema fornito. In ogni caso, però, tutti i programmi di valorizzazione dovranno sviluppare almeno i punti 1 e 2 delle linee guida.

 

[24]  L’Allegato D alla circolare indica, in particolare, le seguenti Sezioni: I – individuazione del/dei bene/beni oggetto dell’Accordo di valorizzazione; II – programma di valorizzazione e conseguenti impegni dell’Ente territoriale firmatario dell’Accordo di valorizzazione; III – obblighi conservativi e prescrizioni; IV – modalità e tempi per il trasferimento del/dei bene/beni; V –

 

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