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La difesa del contribuente-Necessaria ed urgente riforma del processo tributario-Filodiritto.it

 

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Avv. Maurizio Villani

 

“La macchina fiscale deve essere semplice, adeguata ai suoi fini, lavorante senza attriti, con ossequio rigido alla giustizia”.

(Luigi Einaudi – Primo Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955)

 

 

TRE MANOVRE ECONOMICHE E PROCESSO TRIBUTARIO

A) STATUTO DEL CONTRIBUENTE

B) VERIFICHE FISCALI

C) REDDITOMETRO

D) SPESOMETRO

E) INDAGINI BANCARIE

F) STUDI DI SETTORE

G) ACCERTAMENTI FISCALI

H) ACCERTAMENTI FISCALI - RADDOPPIO DEI TERMINI

I) ACCERTAMENTI ESECUTIVI DALL’01 OTTOBRE 2011

L) LE NUOVE ISCRIZIONI PROVVISORIE

M) LITI CON RECLAMO DALL’01 APRILE 2012

N) ABUSO DEL DIRITTO

O) FATTURE FALSE E DEDUCIBILITA’ DEI COSTI

P) RISCOSSIONE - RUOLI - RIMBORSI – PRIVILEGI

Q) RIMESSIONE IN TERMINI

R) PROBLEMI DELLA GIURISDIZIONE

S) AUTOTUTELA

T) LE COMMISSIONI TRIBUTARIE NON DEVONO ESSERE PARALIZZATE

U) RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E RIFORMA DEL PROCESSO TRIBUTARIO

V) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

 

 

TRE MANOVRE ECONOMICHE E PROCESSO TRIBUTARIO

 

Non si deve limitare sempre il diritto di difesa del contribuente

 

Il legislatore fiscale con le ultime manovre economico-finanziarie non solo ha ulteriormente rafforzato l’attività di accertamento degli uffici ma, cosa ancora più grave, ha limitato il diritto di difesa del contribuente,non consentendogli una piena ed efficace tutela giurisdizionale.

In particolare, il legislatore è intervenuto con le seguenti norme:

- Decreto legge n.70 del 13-05-2011, convertito, con modificazioni,dalla legge n.106 del 12 luglio 2011 ( in G.U. – serie generale n.110 del 13 maggio 2011); c.d. Decreto Sviluppo;

- Decreto legge n.98 del 06-07-2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n.111 del 15 luglio 2011 (in G.U. n.164 del 16-07-2011);

- Decreto legge n.138 del 13-08-2011 (in G.U. n.188 del 13-08-2011) convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 14/09/2011 (in G.U. del 16/09/2011), c.d. manovra correttiva bis.

 

Con i suddetti tre provvedimenti sono state rese più incisive le attività di accertamento degli uffici fiscali senza, peraltro, riequilibrare la posizione processuale del contribuente, che continua a trovarsi in una posizione di svantaggio nei confronti del fisco perché non può totalmente esercitare il proprio diritto di difesa.

 

Oltretutto, questa posizione di svantaggio è stata da sempre tenuta dal contribuente, con l’aggravante che con le recenti manovre viene ulteriormente aggravata.

 

Con il presente scritto intendo dimostrare quanto sopra, alla luce non solo della disciplina fiscale ma anche tenendo conto della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.

 

In definitiva, se non si riforma radicalmente il processo tributario, mettendo sullo stesso piano processuale la parte pubblica e quella privata, senza alcuna limitazione all’esercizio del diritto di difesa, non saranno mai pienamente realizzati i precetti costituzionali degli artt. 24 e 53 della Costituzione.

 

 

A) STATUTO DEL CONTRIBUENTE

 

Il legislatore con la legge n.212 del 27 luglio 2000 (Statuto dei diritti del contribuente) ha cercato di stabilire dei principi che limitassero il potere di supremazia del fisco ma questo encomiabile tentativo è rimasto lettera morta perché adottato con semplice legge ordinaria, praticamente limitata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.

 

Infatti, la Corte Costituzionale ha più volte osservato che le disposizioni della suddetta legge non hanno rango costituzionale e non costituiscono, neppure come norme interposte, parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale di leggi statali.

In tal senso, Corte Costituzionale.

- sentenza n.247 del 20 luglio 2011;

- sentenza n.58 del 2009;

- ordinanza n.13 del 2010;

- ordinanza n.185 del 2009;

- ordinanza n.180 del 2007;

- ordinanza n.428 del 2006;

- ordinanza n.216 del 2004.

 

Anche la Corte di Cassazione si è adeguata ai suddetti principi. Infatti, le norme della legge n.212/2000, emanata in attuazione degli artt.3, 23, 53 e 97 della Costituzione, qualificata espressamente come principi generali dell’ordinamento tributario, sono, in alcuni casi, idonee a prescrivere specifici obblighi a carico dell’Amministrazione finanziaria e costituiscono, in quanto espressione di principi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida per il giudice nell’interpretazione delle norme tributarie (anche anteriori), ma, sempre secondo i giudici di legittimità, non hanno rango superiore alla legge ordinaria, di talchè non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse.

 

In tal senso, Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, con le sentenze:

- n. 2221 del 31 gennaio 2011;

- n. 8254 del o6 aprile 2009.

. Di conseguenza, è necessario rendere legge costituzionale lo Statuto dei diritti del contribuente, se veramente si vogliono rispettare e rendere effettivamente operativi i principi costituzionali cui intende adeguarsi.

 

Oggi, purtroppo, lo Statuto del contribuente viene sistematicamente o calpestato (per esempio, con la retroattività delle leggi) o totalmente ignorato proprio a danno del contribuente, come nelle ultime manovre estive.

 

 

B) VERIFICHE FISCALI

 

1) La Corte di Cassazione – Sez. Tributaria – con la recente sentenza n.28053 del 15 luglio 2011 ha precisato che ‘’il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, in quanto atto amministrativo extraprocessuale costituisce prova documentale anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica fiscale; tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall’art.220 disp. att., giacchè altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile’’.

 

Non basta.

 

Due pagine dopo, i giudici di legittimità sottolineano che : ‘’ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge sono state irregolarmente tenute’’.

 

Questa sentenza si incardina perfettamente nel filone giurisprudenziale che vuole sempre più commistioni fra il processo penale e quello tributario a carico del contribuente e ciò non può che facilitare sensibilmente il lavoro degli inquirenti e degli uffici fiscali.

 

Per la prima volta la Corte di Cassazione, senza però rinnegare l’ormai straconsolidato orientamento che valorizza tutti i documenti extracontabili, con l’importante sentenza n.10581 del 13 maggio 2011 ha precisato che i tabulati ritrovati presso il consulente del lavoro, che gestisce il servizio paghe, non legittimano l’accertamento di compensi in nero.

 

La Corte di Cassazione, infatti, con la suddetta sentenza precisa che: ‘’Invero, è del tutto certo che, finanche nel caso di rinvenimento di documentazione extracontabile, resta sempre impregiudicata la verifica in sede contenziosa della concreta riscontrabilità, nella cennata documentazione, dei requisiti suscettibili di configurare i presupposti per l’esercizio del potere di accertamento (vedi, tra le tante, Cass. n.1575/2007 e n.2217/2006)’’.

 

Questa importante apertura giurisprudenziale dei giudici di legittimità è, però, frustrata dai limiti difensivi che incontra il contribuente nel processo tributario, che è un processo prettamente documentale e non ammette la testimonianza ed il giuramento.

 

Inoltre, la Corte di Cassazione – Sez. Trib. -, con la sentenza n.1344 del 25 gennaio 2010, ha precisato che:

‘’L’art.52, comma quinto, del D.P.R. n.633/72, richiamato dall’art. 33 del D.P.R. n.600/73 (il quale esclude la possibilità di prendere in considerazione a favore del contribuente, in sede amministrativa e contenziosa, i documenti , libri, scritture, registri, ecc., che non siano stati acquisiti durante gli accessi perché il contribuente ha rifiutato di esibirli o perché ha dichiarato di non possederli o perchè li ha comunque sottratti al controllo) presuppone uno specifico comportamento del contribuente, che, in quanto volto a sottrarsi alla prova, fornisca validi elementi per dubitare della genuinità dei documenti la cui esistenza emerga nel corso del giudizio.

 

La norma, pertanto, trova applicazione soltanto in presenza di una specifica richiesta o ricerca da parte dell’Amministrazione e di un rifiuto o di un occultamento da parte del contribuente, non essendo sufficiente che quest’ultimo non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti successivamente prodotti in sede giudiziaria (v. tra le altre Cass. N. 9127 del 2006)’’.

 

Anche in questo caso, però, il contribuente non dovrebbe avere limitazioni ed esclusioni nell’esercizio del proprio diritto di difesa.

 

Infine, con il succitato D.L. n. 70/2011:

- viene riconosciuto il regime di contabilità semplificata alle imprese di servizi con ricavi fino a 400.000 Euro (limite precedente fissato a 309.874 Euro) ed alle altre imprese con ricavi fino a 700.000 Euro (limite precedente fissato a 516.457 Euro);

- - sono apportate modifiche all’art. 12 della legge n. 212/2000 cit., riguardanti, in particolare, il periodo di permanenza dell’Amministrazione presso le sedi delle imprese in contabilità semplificata e presso quelle dei lavoratori autonomi ( per una durata massima di 15 giorni) e, in generale, vengono estesi i termini per la durata dei controlli anche per gli enti previdenziali e di assistenza.

 

Il problema della tutela effettiva del contribuente, però, non è risolto sia per la natura giuridica dello Statuto del contribuente (vedi lett. A) sia per la natura ordinatoria e non perentoria del termine, anche in attesa che la Corte di Cassazione si pronunci sul tema (si rinvia, indirettamente, alla sentenza n. 26689/o9 del 18 dicembre 2009 della Corte di Cassazione – Sezione Trib.).

 

2) Dal prossimo autunno dovranno trovare attuazione le nuove disposizioni che obbligano gli enti, preposti ad effettuare verifiche per fini istituzionali, ad una complessiva attività di programmazione e coordinamento.

 

Infatti, un prossimo decreto del Ministero dell’economia e delle finanze dovrà dettare le linee guida per la programmazione da parte dei vari enti, le cui verifiche in sede non devono durare più di quindici giorni.

 

A tal proposito, però, c’è da rilevare che:

- il Decreto Sviluppo, nel prevedere il bon ton per le verifiche, ha dimenticato EQUITALIA S.p.A., un soggetto che, specie negli ultimi tempi, è prepotentemente sotto le luci della ribalta;

- le eventuali violazioni delle disposizioni che prevedono il coordinamento, la programmazione e la non ripetizione del controllo costituiscono, per i dipendenti pubblici che hanno trasgredito le nuove disposizioni introdotte dal citato D.L. n. 70/2011, soltanto illeciti disciplinari e non determinano la nullità derivata dagli atti.

 

In definitiva, con le ultime manovre estive il legislatore ha chiuso il cerchio nella lotta all’evasione fiscale, determinando un accerchiamento fiscale del contribuente con i seguenti istituti:

- Comuni in lotta contro l’evasione;

- dichiarazioni dei redditi on-line;

- consigli tributari antievasione;

- stretta sulle società di comodo;

- conti correnti nel 730;

- stretta fiscale sulle cooperative;

- carcere per i maxi evasori fiscali.

 

 

C) REDDITOMETRO

 

Accertamento da redditometro come gli studi di settore sia per la connotazione di presunzione semplice sia per la necessità di esperire sempre il preventivo contradditorio.

 

Sono i corretti principi affermati dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n.13289/2011, depositata il 17 giugno 2011.

 

Principi che vincolano il ‘’vecchio’’ redditometro alle regole previste per il futuro, nuovo redditometro.

La succitata sentenza muta radicalmente il precedente indirizzo giurisprudenziale, secondo cui per il ‘’vecchio’’ redditometro non vi era l’obbligo del contraddittorio (vedi, per esempio, ordinanza n.7485 del 27 marzo 2010).

 

Ora, invece, i giudici di legittimità con la succitata sentenza n.13289/2011 hanno stabilito che:

‘’Il divieto (‘’non possono in ogni caso’’) posto dal quarto comma dell’articolo 6 della legge 27 luglio 2000 n.212 di richiedere ‘’al contribuente……. documenti e informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente’’ (perché, prosegue la norma, ‘’tali documenti e informazioni sono acquisiti ai sensi dell’articolo 18, commi 2 e 3, della legge 7 agosto 1990 n.241, relativi ai casi di accertamento d’ufficio di fatti, stati e qualità del soggetto interessato dalla azione amministrativa), tenuto conto della necessità (evidenziata dalle Sezioni Unite nella citata decisione n. 26635 del 2009) di esperire il preventivo contraddittorio per adeguare ‘’l’elaborazione statistica degli standard’’ considerati dai DD.MM. del 1992 ‘’alla concreta realtà economica del (singolo) contribuente’’, di per sé solo, non esclude il potere dell’ ‘’amministrazione finanziaria’’ di chiedere, oltre che ‘’documenti e informazioni’’ non in suo possesso, anche quelle “di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente’’), soprattutto specificazioni su ‘’informazioni’’ da esso già conosciute anche per dare concretezza ed effettività a quel contraddittorio’’.

 

Anche per questi motivi non è più giustificabile alcuna limitazione del diritto di difesa del contribuente sia nella fase amministrativa sia nella fase processuale.

 

Vi è, quindi, un completo cambio di rotta da parte della Cassazione, che afferma l’obbligo anche per il passato di esperire preventivamente il contraddittorio.

Infine, occorre precisare che, per il secondo anno consecutivo (anni 2009 e 2010), pur verso la scadenza di settembre delle dichiarazioni 2011, il nuovo meccanismo induttivo del redditometro (art. 22 del D.L. n.78 del 31 maggio 2010) resta un oggetto misterioso, in quanto il contribuente non può testare il software della capacità contributiva.

 

Ciò, pertanto, renderà ancora più difficile la linea difensiva nel processo tributario.

 

Anche per questi motivi non è più giustificabile alcuna limitazione del diritto di difesa del contribuente sia nella fase amministrativa sia nella fase processuale.

Infatti, per contrastare il redditometro sono poche le vie di fuga, in quanto sono richieste prove rigorose e circostanziate per ribaltare le presunzioni.

 

A titolo di esempio, si citano le ultime sentenze della Corte di Cassazione che hanno ribadito i suesposti principi:

- n. 12448 dell’08 giugno 2011;

- n. 11213 del 20 maggio 2011;

- n. 9549 del 29 aprile 2011;

- n. 7408 del 31 marzo 2011;

- n. 2726 del 04 febbraio 2011.

 

Infine, si fa presente che l’accertamento sintetico (compreso il redditometro) spazza via tutti gli altri accertamenti.

 

Nella gran parte dei casi, infatti, il contribuente raggiunto da una rettifica basata sul ‘’sintetico’’ non potrà più essere sottoposto ad altro accertamento (Dario Deotto, in ‘’Il Sole 24 Ore’’ di lunedì 08 agosto 2011).

D) SPESOMETRO

 

Dall’01 luglio 2011 i commercianti al minuto e tutti i prestatori di servizi che certificano i corrispettivi con ricevute e scontrini fiscali dovranno monitorare le operazioni il cui prezzo, IVA inclusa, sia di ammontare uguale o superiore a 3.600 Euro, identificando il cliente e conservando con cura le relative informazioni per trasferirle nelle comunicazioni da inviare all’Agenzia delle entrate.

 

Con le recenti manovre di cui sopra, per i pagamenti di importo non inferiore ai 3.600 Euro (iva compresa) effettuati con strumenti tracciabili (Bancomat, carte di credito, ecc.) saranno gli operatori emittenti i mezzi elettronici di pagamento stessi ad implementare le banche dati dell’anagrafe tributaria al posto dei contribuenti titolari di partita IVA . Anche le vendite a rate non sono escluse dalla comunicazione.

 

L’adempimento si sposta così dai soggetti passivi IVA agli operatori finanziari che emettono le carte di credito, di debito e prepagate.

 

Con lo spesometro il legislatore vuole ulteriormente potenziare l’istituto giuridico del redditometro (vedi lett. ‘’C’’) ed appunto per questo si dovevano togliere tutti i limiti istruttori oggi presenti nel processo tributario per riequilibrare la posizione processuale ed amministrativa del contribuente.

 

 

E) INDAGINI BANCARIE

 

Con le manovre economiche estive di cui sopra sono stati semplificati gli accessi dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza presso gli intermediari finanziari per l’acquisizione diretta di dati e notizie relativi ai contribuenti.

 

E’ stata ampliata la platea degli enti cui sarà possibile effettuare i controlli: non solo uffici postali e banche ma tutti gli intermediari finanziari che non hanno risposto alle richieste dell’amministrazione o hanno fornito informazioni di dubbia correttezza.

 

Inoltre, nelle dichiarazioni dei redditi e dell’Iva si dovranno indicare i dati degli intermediari finanziari e nei Comuni il reddito dichiarato finirà on-line.

 

Rispetto alla bozza iniziale, invece, non c’è stata la norma (attesa soprattutto dai professionisti) che annullava la presunzione legale di maggiori ricavi e compensi con riferimento ai prelevamenti non giustificati.

 

La normativa sulle indagini bancarie configura una presunzione legale iuris tantum, in favore dell’Amministrazione finanziaria, che non deve fornire ulteriori elementi a supporto della pretesa tributaria (in tal senso, Cass. Sez. Trib., sentenza n.11750 del 12 maggio 2008).

Inoltre, secondo i giudici di legittimità, la controprova che deve dare il contribuente non deve essere generica, ma analitica, con riferimento a tutte le movimentazioni, in entrata ed in uscita, contestate.

 

In particolare, spetta sempre al contribuente provare che i versamenti sono stati registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili, qualora il contribuente stesso intenda vincere la presunzione di ricavi dei versamenti e dei prelevamenti.

I suddetti principi sono stati più volte confermati dalla Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con le seguenti sentenze:

- n. 18016 del 09 settembre 2005;

- n.18339 del 17 agosto 2009;

- n. 6617 del 19 marzo 2009;

- n.13819 del 13 giugno 2007.

 

La presunzione legale in esame è divenuta molto più ‘’invadente’’ dopo le modifiche apportate all’art. 32 del D.P.R. n.600/73, ad opera della legge n. 311 del 30 dicembre 2004, per effetto della quale ‘’alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni’’.

 

Inoltre, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si sta verificando un contrasto interpretativo in merito all’individuazione dei presupposti per effettuare i controlli bancari intestati esclusivamente a soggetti diversi dal contribuente indagato.

 

Negli ultimi tempi, sembrava prevalere l’orientamento secondo il quale il solo vincolo familiare ed il rapporto societario non erano sufficienti ad estendere il controllo ai conti dell’amministratore e dei soci e dei loro familiari, ma occorreva provare, anche in via presuntiva, la riferibilità degli stessi conti al contribuente.

 

L’ordinanza n. 1943 del 13 settembre 2010 della Corte di Cassazione ha, però, smentito tale orientamento, mentre la successiva sentenza n. 20197 del 24 settembre 2010 lo ha di nuovo confermato.

 

Appare, perciò, opportuno che la questione sia sottoposta quanto prima al vaglio delle Sezioni Unite.

 

La circolare n. 32/E del 2006 dell’Agenzia delle Entrate ha chiarito, inoltre, l’onere probatorio in capo al contribuente (paragrafo 4.4); cioè:

- il contribuente sottoposto a controllo potrà fornire a seconda dei diversi ambiti impositivi la dimostrazione sull’irrilevanza ai fini impositivi dei movimenti finanziari acquisiti ( il riferimento è ai versamenti);

- l’indicazione dei soggetti effettivamente beneficiari dei prelievi;

- l’annotazione dei movimenti nelle scritture contabili o in dichiarazione.

 

Nonostante ciò, però, la difesa del contribuente sulle indagini finanziarie è spuntata, con i limiti istruttori più volte denunciati, soprattutto se viene richiesto di documentare la giustificazione dei prelievi che, per gli importi in contanti, è pressoché impossibile a distanza di tempo.

 

Il problema sul fronte della difesa del contribuente nasce dal fatto che molti uffici territoriali non tengono in considerazione il percorso tracciato a livello centrale e procedono comunque alla contestazione di maggiori ricavi o compensi.

 

Molti prelievi bancari sono effettuati per motivi personali e familiari (con Bancomat o con l’utilizzo di carte di credito) per far fronte alle ordinarie necessità familiari.

A distanza di anni i verificatori pretendono giustificazioni di tali movimentazioni spesso impossibili da fornire con la conseguenza che il contribuente si vede rettificare i propri compensi per importi pari a quelli prelevati e spesi per motivi personali e familiari.

 

In genere, a nulla serve evidenziare che i redditi dichiarati sono superiori alle somme spese.

 

Ecco perché è necessario ed urgente riformare seriamente il processo tributario per consentire al contribuente una più efficace tutela processuale, anche tramite la testimonianza ed il giuramento.

 

In ogni caso, resta forte la delusione per il fatto che le prime bozze della manovra prevedevano l’abrogazione, poi cancellata dalla versione definitiva, dell’incomprensibile presunzione di maggiori compensi e ricavi a fronte di prelevamenti non giustificati.

 

Questa necessaria e logica modifica non sarebbe stata di poco conto non fosse altro per le difficoltà nel fornire, a distanza di anni, adeguate indicazioni in merito ai prelevamenti di somme dai conti e perché non esistono limiti circa l’importo delle operazioni, per le quali chiedere giustificazioni, oltretutto con i limiti difensivi più volte denunciati nel presente scritto.

 

La Corte di Cassazione, con le sentenze n. 767 e 802 del 2011, ha consolidato una serie di principi in materia di presunzioni, sia sui prelevamenti che sui versamenti, riconoscendo in generale un’elevata capacità probatoria a favore del fisco.

 

Il contribuente è chiamato, infatti, a dimostrare di averne tenuto conto nella determinazione del reddito oppure che le operazioni bancarie contestate risultano estranee all’attività svolta: in assenza di prova contraria, le presunzioni rilevano ai fini accertativi.

 

Nessuna ulteriore attività istruttoria è, invece, richiesta ai verificatori in quanto le movimentazioni bancarie integrano di per sé una presunzione legale relativa di maggiori ricavi o compensi.

 

E’, infatti, onere del soggetto verificato dimostrare che gli elementi su cui si fondano le movimentazioni bancarie non si riferiscono ad un’operazione imponibile, mentre l’onere a carico dell’ufficio fiscale è soddisfatto attraverso i semplici dati risultanti dagli stessi conti: in questo senso, la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 6906/2011 e 10036/2011.

 

Infine, la legittimità dell’utilizzo dei dati desunti dalla verifica operata sui conti correnti bancari del contribuente non è condizionata alla previa instaurazione di un contraddittorio, la cui omissione non pregiudica, quindi, la validità nell’atto impositivo emesso.

 

 

F) STUDI DI SETTORE

 

1) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con le sentenze nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 18 dicembre 2009, ha finalmente messo la parola fine alla nota querelle attinente la valenza presuntiva degli studi di settore.

 

Il pensiero finale della Suprema Corte è efficacemente sintetizzabile nello stralcio che segue:

‘’La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può, tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività esercitativa siano state disattese.

 

Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente’’.

 

2) Al tempo stesso, però, la Corte di Cassazione ha più volte chiarito che spetta sempre al contribuente provare le condizioni di esclusione dagli studi di settore.

La normativa, infatti, fa riferimento alle ‘’ specifiche condizioni di esercizio’’ dell’attività e lascia, quindi, ampio margine nella deduzione dei fatti impeditivi (art. 3, comma 181, della legge n. 549/1995); in tal senso, si è più volte pronunciata la Corte di Cassazione, con le seguenti sentenze:

- n. 19163 del 2003;

- n. 23602 del 2008;

- n. 24912 del 2008;

- n. 27648 del 2008;

- n. 3288 del 2009.

 

Da ultimo, la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 16235 del 09 luglio 2010, ha ribadito che:

‘’l’accertamento basato sui parametri prima, ed ora sugli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici il cui fondamento non risiede nello scostamento del reddito dichiarato rispetto a questi ‘’standards’’, ma nasce se il contribuente, all’esito del necessario contraddittorio, non assolve l’onere di provare l’esistenza di condizioni di esclusione di tali ‘’standards’’ o la specifica realtà della sua attività economica nel periodo di tempo in esame.

 

Non è invero sufficiente che egli faccia generico riferimento ad argomentazioni prive di qualunque concreta indicazione, come l’ipotesi, ricorrente nel caso di specie, in cui il contribuente si è limitato ad addurre, quale ragione dello scostamento, la mera applicabilità del principio di tassazione per cassa, trattandosi di reddito professionale’’.

 

3) La Commissione per l’esame della compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscali italiane dell’AIDC ha presentato denuncia alla Commissione UE di illegittimità comunitaria degli accertamenti IVA fondati sugli stessi studi di settore.

 

L’appartenenza degli studi di settore agli ‘’accertamenti standardizzati’’ evidenzia il contrasto con il principio di soggettività dei ricavi imponibili ai fini IVA, che non possono che essere quelli effettivi.

 

 

Né può ritenersi che i risultati statistici possano essere trasformati in risultati personali ed effettivi a seguito del contraddittorio tra fisco e contribuente, caratterizzato da un fisiologico squilibrio tra funzionario, forte di una presunzione semplice, e contribuente, su cui grava l’onere della, spesso difficoltosa, prova contraria, tenuto conto dei limiti istruttori imposti dalla legge (divieto della testimonianza e del giuramento).

 

4) Con le recenti manovre economiche del 2011 la posizione del contribuente si è ulteriormente aggravata, perché:

- viene previsto l’inasprimento delle sanzioni nelle ipotesi di omessa presentazione del modello degli studi di settore, quando il contribuente non vi provvede anche a seguito dell’invito da parte dell’Agenzia delle entrate (vedi Circolare n. 41/E del 05 agosto 2011 dell’Agenzia delle Entrate);

- viene stabilita la possibilità di effettuare, da parte dell’Amministrazione finanziaria, l’accertamento induttivo, cioè basato su presunzioni semplici, sprovviste dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza, in presenza di omissione del modello degli studi di settore o di semplice irregolarità (anche formale) dei dati. L’accertamento induttivo è possibile quando il reddito accertato supera il 10% (dieci per cento) del reddito dichiarato;

- è stata eliminata la previsione in base alla quale, in caso di accertamento basato su presunzioni semplici nei confronti di un soggetto ‘’congruo’’, l’ufficio fiscale deve espressamente riportare nell’accertamento le ragioni che lo hanno portato a disattendere i risultati degli studi di settore;

- infine, bisogna rilevare che le suddette novità hanno in qualche modo a che fare sia con il termine di versamento del 05 agosto 2011 sia con quello di presentazione di UNICO 2011, tenendo presente che le nuove misure si applicano già dalla dichiarazione che sarà presentata a settembre 2011.

 

5) La soppressione dell’obbligo di evidenziare nelle motivazioni dell’atto le suddette ragioni sembra avere il solo scopo di rendere più difficoltosa per il contribuente la propria difesa, omettendo di portare alla sua conoscenza gli elementi probatori in possesso degli uffici fiscali ed azzerando in un sol colpo gli importanti principi esposti dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (vedi n.1).

 

6) Oltretutto, siamo al paradosso per cui chi dichiara redditi inferiori alla soglia della congruità ma ha correttamente compilato il relativo modello può essere accertato solo in presenza di ‘’ulteriori elementi’’ che dimostrino la gravità dell’incongruenza (per esempio, con una difformità superiore al 10%), mentre chi ha commesso un errore di compilazione (anche formale, data la complessità e macchinosità del modello) può subire un accertamento da studi di settore senza che per l’ufficio sia necessario addurre ulteriori elementi probatori circa la gravità dell’incongruenza, essendo sufficiente l’indicazione di un valore di congruità inferiore anche solo al 10%.

 

In definitiva, anche in questa circostanza, il legislatore ha dimostrato di voler anteporre l’interesse fiscale ad una agevole e rapida riscossione di pretese la cui legittimità è tutta da dimostrare rispetto alla doverosa tutela del contribuente, fisiologicamente parte più debole nel rapporto impositivo, e peraltro privo di efficaci strumenti istruttori per poter contrastare le illegittime pretese del fisco.

 

7) Infine, con la terza (ed ultima?) manovra correttiva bis (D.L. N. 138/2011 cit.), il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di studi di settore.

 

La preclusione agli accertamenti di natura analitico induttiva da parte dell’Agenzia dell’entrate è ora possibile soltanto se i contribuenti interessati risultino congrui alle risultanze degli studi di settore, anche a seguito di adeguamento, nel periodo d’imposta accertato e nel periodo d’imposta precedente a quello accertato.

 

 

G) ACCERTAMENTI FISCALI

 

1) Con la recente sentenza n.16642 del 29 luglio 2011 la Corte di Cassazione - Sez. Trib. - ha ribadito il principio che l’accertamento analitico-induttivo è sempre legittimo quando l’esposizione dei ricavi è talmente ridotta rispetto ai costi da far ritenere antieconomica la gestione dell’impresa.

 

2) Con l’ordinanza n. 2593 del 03 febbraio 2011 la Corte di Cassazione - Sez. Trib. - ha precisato che:

‘’il divieto di doppia presunzione attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con un’altra presunzione semplice e non può ritenersi, invece, violato nel caso in cui da un fatto noto (costituito dalla presenza di un lavoratore dipendente non regolarmente assunto) si risale ad un fatto ignorato (costituito dalla maggiore redditività del’impresa), di talchè appare legittima la ricostruzione analitico-induttiva del reddito d’impresa ex art.39, primo comma, lett. D), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fondato sulla presenza di un dipendente non regolarmente assunto, da cui venga desunta l’esistenza di ricavi non contabilizzati in base a parametri riferiti alla qualifica ed alle mansioni del lavoratore irregolare, qualora il contribuente non assolva l’onere della prova contraria, in tal caso su di esso incombente’’.

 

3) L’accertamento su società a ristretta base azionaria rappresenta una forma particolare di accertamento di maggiori redditi imponibili adottata dagli uffici fiscali nel corso degli anni e spesso avvalorata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

 

La presunta distribuzione di utili derivanti da ricavi non contabilizzati o da minori costi, in tali atti, individua il superamento del formalismo giuridico tra società di capitali ristrette (non caratterizzate da un azionariato diffuso con interessi differenziati) e persone fisiche proprietarie.

 

La legittimità dell’accertamento in esame, in presenza di società a base familiare o, comunque, a ristretto azionariato, è stata sostenuta dalla Corte di Cassazione a partire dalla sentenza n. 11785 del 19 febbraio 1990, che ha affermato che la stessa ristretta base azionaria costituisce, da sola, prova presuntiva di distribuzione degli utili ai soci, con inversione dell’onere della prova (probatio diabolica, con i limiti istruttori più volte denunciati).

 

La Corte di Cassazione ha spesso confermato il suddetto principio con le sentenze:

- n. 4695 del 02 aprile 2002;

- n. 16885 del 2003;

- n. 16729 dell’08 agosto 2005;

- n. 7174 del 16 maggio 2002;

- n. 11724 del 18 maggio 2006.

La suddetta presunzione può essere superata dal contribuente tramite prova contraria e con la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati ovvero reinvestiti; in tal senso, Corte di Cassazione con le seguenti sentenze:

- n. 10951 del 25 luglio 2002;

- n. 7564 del 15 maggio 2003;

- n. 20851 del 26 ottobre 2005.

Infine, a completamento dei principi di cui sopra, la Corte di Cassazione ha precisato che:

- stante l’indipendenza dei procedimenti relativi alla società ed al singolo socio, non è necessario che l’accertamento dei maggiori ricavi in capo alla società sia divenuto definitivo (Cassazione, sent. n. 16885/2003);

- la presunzione di cui sopra, in carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria, deve essere confermata anche nell’ipotesi di una perdita contabile nonostante la considerazione di ricavi non contabilizzati, atteso che, per effetto della mancata loro inclusione nella contabilità sociale, comunque i ricavi conseguiti da operazioni ‘’in nero’’ non risultano né accantonati né reinvestiti e, quindi, sono stati distratti dalla società per essere distribuiti ai soci.

 

Il risultato ‘’pur sempre negativo’’ del bilancio, infatti, non esclude il fatto oggettivo che i ricavi non contabilizzati, non entrati nelle casse sociali, sono stati distribuiti ai soci in quanto tali (uti soci), quindi senza alcun altro titolo giuridico che la qualità rivestita (in tal senso, Cassazione, sentenza n. 18640 dell’08 luglio 2008).

 

In ogni caso, l’accertamento da ristretta base azionaria è illegittimo se il socio non è a conoscenza dei fatti contestati alla società, in base all’interessante sentenza n. 56 del 06 maggio 2011 della Commissione Tributaria regionale di Bari.

 

Infine, non bisogna mai dimenticare il fatto che non esiste una precisa definizione giuridica di società a ristretta base sociale, né a base familiare, in quanto la fattispecie va valutata caso per caso.

 

Ecco perché è importante che il contribuente, quanto meno in sede difensiva, chieda la sospensione del processo in attesa della definizione del processo riguardante la società (Cassazione, sentenza n. 20870/2010).

 

Oltretutto, la Cassazione, con la sentenza n.2214/2011, ha chiarito che nei rapporti tra processi tributari si può sempre applicare l’art. 295 c.p.c..

 

4) Alla luce dei principi giurisprudenziali della Corte di Cassazione, nelle particolari (e non rare) ipotesi esposte nei tre numeri precedenti, non si può continuare a limitare la sfera difensiva del contribuente, soprattutto nelle diffuse ipotesi di inversione dell’onere della prova. Uno Stato di diritto, quale si definisce il nostro, non può consentire di pregiudicare il diritto di difesa del contribuente con assurde limitazioni e, cosa ancor più grave, smantellando e paralizzando le Commissioni tributarie (come si chiarirà in seguito), con l’evidente scopo di far cassa a tutti i costi, costringendo il contribuente a patteggiare con il fisco, rinunciando a qualsiasi tutela processuale per l’impossibilità di una effettiva difesa.

 

Da ultimo, per confermare quanto sopra esposto, si fa presente che i finanziamenti concessi dai soci sono a rischio di contestazioni.

 

Infatti, in assenza di chiare indicazioni nel bilancio di esercizio, i prestiti sono sempre considerati fruttiferi di interessi e tassabili in capo al socio finanziatore, in base alla discutibile interpretazione della Corte di Cassazione - Sez. Trib. - con la sentenza n.2735 del 04 febbraio 2011.

 

5) Inoltre, non bisogna dimenticare che, in tema di accertamento tributario, motivato da un forte interesse pubblico, la violazione di regole formali non comporta come conseguenza necessaria l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti, se ciò non sia stabilito da una specifica previsione normativa.

 

In tal senso, Corte di Cassazione, con le seguenti sentenze:

- n. 9565 del 23 aprile 2007;

- n. 13230 del 09 giugno 2009;

- n. 14058 del 16 giugno 2006;

- n. 5093 del 09 marzo 2005;

- n. 12871 del 22 ottobre 2001;

- n. 2668 del 26 marzo 1996.

 

E ciò rende ancora più difficile la difesa del contribuente.

 

Inoltre, con le ultime manovre finanziarie, il Governo scommette sulla lotta a sommerso, con controlli sempre più incisivi per combattere l’evasione fiscale, soprattutto con i seguenti istituti:

- regime dei contribuenti minimi (art. 27, commi 1-7, D.L. n. 98/2011 cit.);

- nuovi limiti al riporto delle perdite fiscali (art. 23, comma 9, D.L. n. 98/2011 cit.);

- spesometro (art. 7 D.L. n. 70/2011 cit. e art. 23 D.L. n. 98/2011 cit.);

- revoca partite iva inattive (art. 23, commi 22-23, D.L. n. 98/2011 cit.);

- tracciabilità pagamenti in contanti da € 2.500 in poi (art. 2, comma 4, D.L. n. 138/2011 cit.);

- sospensione professionisti per omessa fatturazione (art. 2, comma 5, D.L. n. 138/2011 cit.);

- studi di settore (art. 23, comma 28, D.L. n. 98/2011 cit. e art. 2, comma 34, D.L. n. 138/2011 cit.).

 

 

 

H) ACCERTAMENTI FISCALI - RADDOPPIO DEI TERMINI

 

1) La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 247 del 25 luglio 2011, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del disposto dell’art. 57, comma 3, D.P.R. n. 633/72 (comma aggiunto dall’art. 37, comma 25, D.L. n. 223 del 04 luglio 2006) in base al quale:

‘’In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione’’.

 

La stessa disposizione è prevista per le imposte dirette (art. 43, comma 3, D.P.R. n. 600 del 1973, comma aggiunto dall’art. 37, comma 24, D.L. n, 223 del 04 luglio 2006, convertito, con modificazioni dalla legge n. 248 del 04 agosto 2006).

 

Secondo la Corte Costituzionale ‘’ i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una ‘’proroga’’ di quelli ordinari, da disporsi a discrezione dell’amministrazione finanziaria procedente, in presenza di “eventi peculiari ed eccezionali’’.

 

Al contrario, i termini raddoppiati sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorchè, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione.

 

In altre parole, i termini raddoppiati non si innestano su quelli ‘’brevi’’ di cui ai primi due commi dell’art. 57 del D.P.R. n. 633 del 1972, in base ad una scelta degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorchè sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000.

 

Sotto questo aspetto non può parlarsi di ‘’riapertura o proroga di termini scaduti’’ né di ‘’reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti’’, perché i termini ‘’brevi’’ e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi termini di accertamento’’.

Viene, infine, cassata anche la censura sull’applicazione retroattiva dei termini raddoppiati come sanzione impropria, perché la disciplina del raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria.

 

In definitiva, la Corte Costituzionale ha precisato che il raddoppio dei termini di prescrizione vale anche se la denuncia viene effettuata quando i termini ordinari (quattro anni, che salgono a cinque in caso di omessa dichiarazione) siano già scaduti.

 

In pratica, in casi molto frequenti (basti pensare alle ipotesi di dichiarazione infedele o fraudolenta), l’accertamento fiscale potrà essere notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo (o del decimo anno successivo, in caso di omessa dichiarazione) a quello di presentazione della dichiarazione dei redditi, con l’obbligo di conservare tutta la relativa documentazione per quel periodo d’imposta.

 

Infine, la succitata sentenza n. 247/2011 fornisce l’ulteriore conferma della non validità del condono IVA, già decretata dalla Corte di giustizia CE e dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

 

2) L’ASSONIME, con la circolare n. 20 del 29-07-2011 critica giustamente la succitata sentenza della Corte Costituzionale perché il raddoppio dei termini deriva sempre e comunque dall’attività di accertamento, per cui pare proprio che ‘’il raddoppio dei termini non attenga affatto ad una presunta fattispecie di rilevanza penale distinta o distinguibile dalle altre violazioni tributarie’’.

 

Secondo ASSONIME, la lettura della Corte Costituzionale mostra una ratio legis piuttosto anomala in un ordinamento complessivamente orientato a principi di garanzia che trovano una chiara indicazione sia nella Costituzione stessa sia nello Statuto del contribuente (vedi precedente lett. ‘’A’’), che pur non essendo norma costituzionale riveste, in ogni caso, una riconosciuta valenza orientativa nell’interpretazione.

 

3) In una situazione del genere, l’unica difesa del contribuente è quella di eccepire la strumentalità della ‘’notitiae criminis’’, come chiarito in un passaggio della succitata sentenza n. 247/2011.

 

In concreto, nel ricorso il contribuente dovrà eccepire la decadenza dei termini ordinari per l’esecuzione dell’accertamento da parte dell’ufficio fiscale in quanto il raddoppio non si è realizzato perché la comunicazione della notizia del reato è stata fatta solo pretestuosamente ed in via strumentale proprio per usufruire dei termini più ampi.

 

Tale censura, però, deve essere motivata e provata opportunamente, evidenziando le circostanze di fatto o la sequenza degli eventi, dai quali, appunto, emergerebbe la strumentalità della denuncia all’autorità giudiziaria.

 

Anche in questo caso, però, si tratta di una probatio diabolica, tenuto conto dei denunciati limiti istruttori imposti al contribuente nel processo tributario che, specie in questo caso, pregiudicano seriamente la linea difensiva.

 

Oltretutto, proprio in occasione della succitata sentenza n. 247 della Corte Costituzionale, si è arrivati all’assurdo che sul quotidiano ITALIA OGGI di mercoledì 03 agosto 2011 è apparsa un’informazione pubblicitaria (info.condono2002gmail.com) con cui si invita l’Amministrazione finanziaria e la Guardia di Finanza a fare gli accertamenti per l’annualità 2002 perché: ‘’In mancanza verrebbe meno il principio cardine che LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI, OLTRE A REALIZZARSI UN MANCATO RECUPERO PER LO Stato di gettito altissimo (si pensi solo ai grandi contribuenti! )’’.

 

Quindi, al danno la beffa per tutti quei contribuenti che hanno fatto affidamento alle leggi dello Stato di quel momento, che consentiva correttamente il condono IVA per l’anno 2002 e non prevedeva assolutamente alcun raddoppio dei termini di decadenza dell’azione accertativa.

 

Da ultimo, per completare l’accerchiamento del contribuente, nella G.U. del 01 agosto 2011 è stato pubblicato il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 15-07-2011, recante la specifica dei criteri da seguire per poter erogare alle amministrazioni locali, che hanno partecipato all’accertamento fiscale e contributivo, il 33% delle maggiori somme, a titolo di imposta e sanzioni, riscosse a titolo definitivo, così come previsto dall’art. 1, comma 1, del D.L. n. 203/2005.

 

La suddetta disposizione, però, è stata di recente modificata per effetto dell’art. 2, comma 10, lett. b), del D.lgs. n. 23 del 14 marzo 2011, che ha aumentato la quota di partecipazione dal 33% al 50%.

 

Per l’anno 2011, però, ai Comuni andrà il 33% e questo renderà ancora più incisiva ed invadente l’attività di controllo e di accertamento, senza consentire ai contribuenti una piena libertà di difesa.

 

Infine, con il D.L. n. 138 cit., il legislatore ha previsto per i Comuni il 100% del gettito dell’attività di accertamento, ma solo se entro il 31/12/2011 mettono in campo i Consigli tributari.

 

 

I) ACCERTAMENTI ESECUTIVI DALL’01 OTTOBRE 2011

 

Il nuovo e più incisivo istituto giuridico dell’accertamento esecutivo è disciplinato da tre disposizioni di legge:

- l’art. 29 D.L. n. 78 del 31 maggio 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 30 luglio 2010;

- l’art. 7, comma 2, lettera N), e comma 3, D.L. n. 70/2011 cit.;

- l’art. 23, comma 30, D.L. n. 98/2011 cit.

In particolare, in base alle suddette disposizioni:

- gli avvisi di accertamento emessi di imposte dirette, IVA, IRAP ed addizionali, nonché i relativi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni, concernenti periodi d’imposta in corso al 31 dicembre 2007 e successivi, diventano esecutivi dopo 60 giorni dalla notifica;

- decorsi 30 giorni dopo la scadenza dei 60 giorni previsti per adempiere al pagamento (o per proporre ricorso) l’agente della riscossione può quindi portare avanti la riscossione forsata senza la preventiva notifica della cartella di pagamento (l’accertamento è, infatti, esecutivo);

- in ogni caso, se il contribuente presenta istanza di accertamento con adesione opera, senz’altro secondo me, la sospensione dei termini per la proposizione del ricorso (90 giorni, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6, comma 3, D.lgs. n. 218 del 19 giugno 1997);

- è prevista la sospensione della procedura di esecuzione forzata per un periodo di 180 giorni dalla data dell’affidamento dell’avviso di accertamento all’agente della riscossione, disposizione cui è stata affiancata la riduzione dell’importo riscosso in caso di ricorso (dal 50% ad un terzo), come grazioso contentino al contribuente  (!);

- in ogni caso, però, la sospensione non si applica con riferimento alle azioni cautelari e conservative, nonché ad ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore.

 

Per effetto della succitata riforma, quindi, si determina un’anticipazione del momento della riscossione che fa sorgere in capo al contribuente l’esigenza di concentrare in un unico atto le azioni di merito e cautelare, venendo meno in tal modo le obiezioni di quella parte della dottrina e di quasi tutta la giurisprudenza di merito che riteneva (secondo me sbagliando) che l’inibitoria fosse esperibile soltanto in presenza di un’iscrizione a ruolo già effettuata, anche a titolo provvisorio.

 

Va tenuto, altresì, presente che per rendere, oggi, effettiva la tutela del contribuente in sede processuale occorrerà accelerare i tempi della trattazione delle istanze di sospensione da parte dei giudici tributari, in modo tale che le udienze si svolgano prima della scadenza del termine o dei 60 giorni previsto per la riscossione spontanea o dei 180 giorni, quale termine ultimo per ottenere la sospensiva.

 

A fronte di maggiore incisività ed accelerazione delle procedure di riscossione a titolo provvisorio, però, non corrisponde un’altrettanto incisiva tutela processuale del contribuente perché:

- con la parziale riforma della giustizia tributaria e con i nuovi casi di incompatibilità, di cui tratteremo in seguito, di fatto si rischia la paralisi delle Commissioni tributarie, con la sensibile riduzione degli organici, senza che il contribuente riesca ad ottenere la fissazione dell’ udienza di sospensiva nei ristretti termini previsti dalla legge;

- inoltre, nonostante la chiara ed importante sentenza della Corte Costituzionale (n. 217 del 17 giugno 2010), molte Commissioni tributarie di merito continuano a negare la sospensiva in grado di appello (per esempio, C.T.R. della Lombardia - Se. Brescia – Sez. LXVI, ordinanza n. 26 del 18 ottobre 2010; C.T.R. della Puglia - Sez. Lecce - Sez. 23, ordinanza n. 80 del 28 aprile 2011).

 

Persino la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 21121 del 13-10-2010 ha negato la sospensiva in grado di appello.

 

La sentenza della Corte Costituzionale, che afferma la sospendibilità della sentenza di secondo grado, è stata depositata il giorno 17 giugno 2010; la succitata sentenza della Corte di Cassazione è stata deliberata il 28 maggio 2010 (anche se depositata il 13 ottobre 2010). Quindi , prima che la Consulta si pronunciasse.

Con un po’ di attenzione, però, si sarebbe potuto aggiustare la motivazione, adeguandola a quella della recente sentenza della Corte Costituzionale.

 

Ultimamente, però, la C.T.R. della Lombardia, con l’ordinanza n. 8 del 24 maggio 2011, ha nuovamente rimesso la questione alla Corte Costituzionale, con la speranza che, questa volta, una conferma della Consulta annienti definitivamente tesi contrarie.

 

In ogni caso, per definire una buona volta per tutte la questione, sarebbe opportuno prevedere, de iure condendo, un’esplicita ammissibilità della sospensiva anche in grado di appello.

 

 

L) LE NUOVE ISCRIZIONI PROVVISORIE

 

Con le recenti manovre economiche, il legislatore fiscale ha adottato nei confronti del contribuente il bastone e la carota.

 

Il ‘’bastone’’ è rappresentato sostanzialmente dall’accertamento esecutivo e dalla paralisi della giustizia tributaria, con l’assurdo allargamento delle ipotesi di incompatibilità previste dall’art. 8 D.Lgs. n. 545 del 31 dicembre 1992.

 

La ‘’carota’’, invece, anche se non attenua il bastone di cui sopra, è rappresentata dalla riduzione ad un terzo, dal precedente cinquanta per cento, delle iscrizioni provvisorie per le imposte dirette e per l’IVA.

 

Infatti, l’art. 7, comma 2-quinques, D.L. n. 70 del 13 maggio 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 106 del 12 luglio 2011 (in G.U. n. 160 del 12 luglio 2011), testualmente dispone:

‘’All’articolo 15, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n.602, e successive modificazioni, le parole: ‘’la metà’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘’un terzo’’.

 

Di conseguenza, la nuova formulazione dell’art. 15 cit. è la seguente:

‘’Le imposte, i contributi ed i premi corrispondenti agli imponibili accertati dall’ufficio ma non ancora definitivi, nonché i relativi interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell’atto di accertamento, per un terzo degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati’’.

A tal proposito, si precisa che:

- il suddetto comma era stato sostituito, con effetto dal 01 gennaio 1999, dall’art. 4 D.Lgs. n. 462 del 18 dicembre 1997;

- la suddetta disposizione è applicabile anche ai fini IVA, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 D.Lgs. n. 46 del 26-02-1999 (articolo così sostituito dall’art. 1, comma 5-ter, lett. b), numero 1, D.L. 17 giugno 2005 n. 106, modificato dalla legge di conversione).

 

Il nuovo art. 15 cit. è entrato in vigore il giorno 13-07-2011, successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 160 del 12-07-2011.

 

Di conseguenza, tutti i ruoli provvisori formati dagli uffici dal 13-07-2011 devono tenere conto della novella legislativa, e quindi calcolare un terzo, e non più la metà, della maggiore imposta accertata, oltre gli interessi, indipendentemente dal periodo d’imposta accertato.

 

Infatti, l’art. 12, comma 4, D.P.R. n. 602 del 29-09-1973 testualmente dispone:

‘’Il ruolo è sottoscritto, anche mediante firma elettronica, dal titolare dell’ufficio o da un suo delegato. Con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo’’ (articolo così sostituito, con effetto 01 luglio 1999, dall’art. 4 D.Lgs. n. 46 del 26 febbraio 1999).

 

Oltretutto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 25, comma 2-bis, D.P.R. n. 602 cit.:

‘’La cartella di pagamento contiene anche l’indicazione della data in cui il ruolo è stato reso esecutivo’’ (comma aggiunto dall’art. 8, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 32 del 26 gennaio 2001).

 

In definitiva, dalle prossime cartelle esattoriali bisogna stare attenti a leggere la data in cui il ruolo è stato reso esecutivo perché, se formato dal 13-07-2011 in poi, l’iscrizione provvisoria deve essere fatta con la nuova misura del terzo, pena la nullità del ruolo stesso da far valere dinanzi la Commissione tributaria provinciale, indipendentemente dal periodo d’imposta in contestazione.

 

Infatti, la normativa in questione fa riferimento soltanto alla fase della riscossione (D.P.R. n. 602 del 1973 cit.) e non anche alla fase dell’accertamento (D.P.R. n . 600 del 29 settembre 1973 e successive modifiche ed integrazioni).

 

Oltretutto, l’illegittima iscrizione a ruolo può convincere i giudici tributari a concedere la sospensiva, anche tramite decreto (art. 47, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992) e ciò è importante soprattutto in previsione dell’assurda ed incostituzionale normativa dell’accertamento esecutivo, che entrerà in vigore il prossimo 01 ottobre 2011 (vedi lett. i).

 

Infine, non bisogna dimenticare che, secondo la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 1666/11 del 29 luglio 2011, il ruolo è ricompreso nella categoria degli atti pubblici (art. 2699 codice civile) in quanto formato da un pubblico ufficiale (dirigente ufficio tributi), autorizzato a manifestare all’esterno la volontà della pubblica amministrazione.

 

Per questa ragione, secondo i giudici di legittimità, stante la natura di atto pubblico del ruolo, i suoi contenuti fanno piena prova sino a che non sia avanzata una formale azione giudiziale di querela di falso (artt. 221-227 c.p.c.).

 

 

M) LITI CON RECLAMO DAL 1° APRILE 2012

 

Per impugnare gli avvisi di accertamento di valore non superiore a 20.000 euro, notificati a partire dall’01 aprile 2012, dovrà obbligatoriamente essere prima proposto reclamo all’Agenzia delle entrate.

 

Infatti, il nuovo art. 17-bis D.Lgs. n. 546 del 31-12-1992 (aggiunto dall’art. 39, comma 9, D.L. n. 98 del 2011 cit.), stabilisce le seguenti regole:

- per le controversie di valore non superiore a 20.000 euro, relative agli atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo ed è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’art. 48 D.Lgs. n. 546 cit.;

- la presentazione del reclamo è condizione di ammissibilità del ricorso;

- l’inammissibilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio;

- la normativa in questione non si applica per le controversie relative al recupero di aiuti di Stato (art. 47-bis D.Lgs. n.546 cit.);

- il reclamo va presentato alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili;

- il reclamo può contenere una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell’ammontare della pretesa;

- l’organo destinatario, se non intende accogliere il reclamo volto all’annullamento totale o parziale dell’atto, né l’eventuale proposta di mediazione, formula d’ufficio una proposta di mediazione;

- decorsi 90 giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione il reclamo produce gli effetti del ricorso;

- i termini di cui agli artt. 22 e 23 D.Lgs. n. 546 cit. decorrono dalla suddetta data; se l’Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data antecedente, i predetti termini decorrono dal ricevimento del diniego; in caso, inoltre, di accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini decorrono dalla notificazione dell’atto di accoglimento parziale;

- nelle suddette controversie, la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50% delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento in questione;

- invece, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la Commissione tributaria può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione;

- infine, le suddette disposizioni si applicano con riferimento agli atti suscettibili di reclamo notificati a decorrere dal 1° aprile 2012.

 

La complessa e macchinosa normativa di cui sopra tende a convincere il contribuente a patteggiare a tutti i costi con il fisco, pena l’instaurazione di un giudizio tributario costoso, con il pagamento del contributo unificato, con limiti istruttori e con il rischio di una pesante ulteriore condanna alle spese.

 

Oltretutto, l’assurdo di tale normativa è che il preventivo e necessario reclamo deve essere presentato alla stessa Agenzia delle entrate che ha emanato e notificato l’avviso di accertamento in contestazione e che, in linea di massima, non avrà la serenità di decidere con trasparenza ed imparzialità, soprattutto in vista degli obiettivi di cassa imposti.

 

Inoltre, l’istituto in questione, così com’è congegnato, pregiudica seriamente la linea difensiva del contribuente.

 

Infatti, la proposta di mediazione formulata all’interno del reclamo potrebbe influenzare negativamente il successivo convincimento del giudice tributario sulla bontà delle argomentazioni difensive svolte dal contribuente in altra parte del reclamo.

 

Anche in questo caso siamo di fronte ad elementi di incertezza e di novità che dovranno, quanto meno, essere sviluppati ed approfonditi prima della loro definitiva entrata in vigore per gli atti notificati a partire dall’01 aprile 2012.

 

Secondo me, la norma in questione deve essere totalmente abrogata, lasciando soltanto a giudici tributari, professionali e competenti, l’eventuale possibilità di decidere sulla conciliazione.

 

In ogni caso, de iure condendo, il contribuente non deve più avere limiti difensivi, in modo che possa decidere con serenità, insieme al professionista di fiducia, se intentare o meno il giudizio tributario.

 

Infine, deve essere prevista la possibilità di poter conciliare anche in grado di appello, logicamente riparametrando le attuali sanzioni, come oggi è previsto nel processo civile ed in quello penale.

 

Di conseguenza, tutte le problematiche tornano al principale punto di partenza, che è quello di una necessaria, urgente, seria e completa riforma del processo tributario, dove tutte le parti (pubbliche e private) devono stare sullo stesso piano processuale e senza limitazioni nell’esercizio del diritto di difesa, costituzionalmente garantito.

 

 

N) ABUSO DEL DIRITTO

 

Ultimamente, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del problema dell’abuso del diritto, ossia del carattere elusivo che può assumere un’operazione posta in essere dal contribuente con il solo fine di evadere la normativa ed ottenere un indebito risparmio d’imposta.

 

Infatti, con la sentenza n. 16428, depositata il 27 luglio 2011, i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo cui grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di chiarire il perché l’operazione abbia carattere elusivo, in quanto non è sufficiente richiamare esclusivamente la normativa antiabuso esistente nell’ordinamento.

 

Nell’arco di tempo di un mese, a cavallo tra il 2010 ed il 2011, sia la Corte di Giustizia Europea che la Corte di Cassazione, rispettivamente nelle sentenze C-277/09 E n. 1372 del 21 gennaio 2011, riportano l’abuso del diritto nella sua connotazione specifica: occorre, cioè, che sia stata posta in essere una costruzione di puro artificio.

 

Il caso inglese, trattato a Lussemburgo, ha dato ragione al contribuente, perché il giudizio di rinvio non aveva accertato la natura artificiosa dell’operazione, anche se l’utilizzo di una controllata in un altro Paese Comunitario aveva consentito di non pagare l’IVA in nessuno dei due Paesi.

 

Il caso italiano è significativo per le affermazioni sul diritto del contribuente ad utilizzare la struttura giuridica con un minor costo fiscale, con la conseguente insindacabilità di queste scelte da parte dell’Amministrazione finanziaria, e sulla necessità di valutare con una diversa attenzione le operazioni di ristrutturazione societaria rispetto a quelle di tipo puramente finanziario, oggetto delle prime sentenze su questo specifico argomento (si rinvia per un’analisi completa all’interessante articolo di Raffaele Rizzardi, in Corriere Tributario IPSOA n. 9/2011, pagg. 663-672).

 

E’ da accogliere con soddisfazione l’importante svolta della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia UE, soprattutto perché, nel corso degli anni, altre rigide interpretazioni giurisprudenziali avevano penalizzato i contribuenti per le loro iniziative produttive, anche perché in fase istruttoria i limiti difensivi, imposti dalla legge e più volte criticati nel presente scritto, non consentivano un’efficace difesa.

 

D’ora in poi l’Amministrazione finanziaria deve sempre evidenziare e motivare le ragioni del carattere elusivo di un’operazione imprenditoriale priva di valide ragioni economiche.

 

L’abuso del diritto non avrà in futuro una casistica ma una vera norma con un principio generale, come riferito al questione time della Commissione Finanze della Camera dal sottosegretario all’Economia Bruno Cesario, il quale ha rilevato che sarebbe certamente auspicabile una previsione normativa volta a coordinare l’attuale norma antielusiva con il principio dell’abuso del diritto, richiamato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

 

Si conferma così, in via ufficiale, la scelta, già espressa dall’Agenzia delle entrate, di prevedere una norma antielusiva di carattere generale (vedi il Sole 24-Ore del 13 e del 27 ottobre 2011).

 

Vi sono due esigenze in conflitto la lotta all’elusione e l’interesse dei privati alla certezza del diritto.

 

La scrittura di una norma generale è problema non facile: si richiede grande realismo e finezza giuridica con l’occhio rivolto a quanto accade in sede comunitaria.

 

 

O) FATTURE FALSE E DEDUCIBILITA’ DEI COSTI

 

La Corte di Cassazione, con l’importante sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011, ha stabilito il principio che, in tema di imposte sui redditi, i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purchè supportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa.

 

Infatti, con l’abrogazione dell’art. 75, comma 6, del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 ad opera dell’art. 5 del D.P.R. n. 695 del 09 dicembre 1996, si è avuto un sensibile ampliamento (Cass., Trib., sentenza n. 3305 dell’11 febbraio 2009) del regime di prova dei costi da parte del contribuente, prova che può essere fornita anche con i mezzi diversi dalle scritture contabili, purchè costituenti elementi certi e precisi, come prescritto dall’art. 75, comma 4, del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986.

 

In sostanza, il contribuente, oggi, con il nuovo indirizzo giurisprudenziale, può dimostrare l’effettiva sussistenza nonché l’ammontare e l’inerenza di quegli specifici costi.

 

Il problema, però, rimane sempre quello dei limiti difensivi, in quanto il contribuente, in assenza di idonea documentazione, avrà difficoltà a dimostrare nel processo i suddetti costi effettivi, in quanto non può utilizzare la testimonianza né il giuramento decisorio o suppletorio.

 

Infine, si precisa che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9537 del 16 febbraio 2011, ha avuto modo di ritornare sulla “vexata quaestio” della deducibilità o meno ai fini delle imposte sui redditi dei costi derivanti da operazioni considerate soggettivamente inesistenti, riaffermando l’importante principio di diritto per cui, nel comparto dell’imposizione diretta, a differenza di quello dell’IVA, i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purchè sopportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa.

 

 

P) RISCOSSIONE - RUOLI - RIMBORSI - PRIVILEGI

 

1) In fase di riscossione, con le recenti manovre economiche estive, si è messo uno stop alla mora sugli interessi.

 

Infatti, ai sensi dell’art. 7, commi 2-sexies e 2-septies, del D.L. n. 70/2011 cit., gli interessi di mora non si applicano più sulle somme corrispondenti alle sanzioni pecuniarie tributarie ed agli interessi (divieto del c.d. anatocismo).

 

2) Al tempo stesso, però, il legislatore ha reso le rate iniziali di pagamento particolarmente preziose.

 

A renderle tali è il nuovo meccanismo che porta il fisco a rinunciare alle fideiussioni per le dilazioni dei debiti superiori a 50.000 euro ma in tutti i casi, a prescindere dall’ammontare della richiesta al contribuente, introduce una garanzia decisamente pesante: la sanzione pari al 60% del debito residuo per chi non paga una rata (successiva alla prima) entro il termine di scadenza di quella successiva.

 

3) Oltre un milione e ottocentomila istanze, per un controvalore di 2 miliardi di euro, cui si devono aggiungere circa 260 milioni di interessi.

 

A tanto ammonta lo stock totale dei rimborsi delle imposte dirette alla fine del 2010 (Italia Oggi di mercoledì 03 agosto 2011).

 

Gran parte delle pendenze risulta fisiologicamente concentrata nel biennio più recente (2007-2008), mentre le pratiche ancora da lavorare, risalenti a prima del 2005, sono poche migliaia.

 

Il problema, secondo me, si potrebbe risolvere rendendo immediatamente esecutive le sentenze di condanna del fisco in tema di rimborsi, senza dover attendere, come oggi, il passaggio in giudicato della sentenza (art. 69 D.Lgs. n. 546 cit.) per iniziare, poi, il giudizio di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. n. 546 cit.).

 

In prospettiva di una completa riforma del processo tributario, infatti, tutte le parti (pubbliche e private) devono trovarsi sullo stesso piano processuale, senza alcuna posizione di privilegio, come oggi ha il fisco.

 

Infatti, mentre l’Amministrazione finanziaria, in caso di vittoria totale o parziale, ha la possibilità di riscuotere provvisoriamente gran parte delle somme in contestazione (art. 68 D.Lgs. n. 546 cit.), il contribuente, invece, per essere tempestivamente rimborsato dei suoi crediti deve attendere la fine di tutti i gradi di giudizio (fino in Cassazione) per ottenere il passaggio in giudicato della sentenza, a meno che non si tratti di maggiori somme versate a titolo provvisorio a seguito della notifica di avvisi di accertamento, per le quali è applicabile la più celere procedura dell’art. 68, comma 2, D.L.gs n. 546 cit. (Circolare n. 49/E dell’01 ottobre 2010 e n. 37/E del 21 giugno 2010 dell’Agenzia delle entrate - Direzione centrale affari legali e contenzioso).

 

Solo l’effettiva parità processuale delle parti rende veramente operativo il dettato costituzionale dell’art. 111:

‘’La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata’’.

 

4) Inoltre, si segnala la recente ordinanza n. 1M/52/11 del 6-21 luglio 2011 della Commissione Tributaria Regionale di Napoli che ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza di secondo grado impugnata dal contribuente dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, ma ha subordinato la suddetta sospensione alla produzione da parte del contribuente di una garanzia fideiussoria assicurativa o bancaria.

 

Ciò, però, non risolve i problemi del contribuente, che può avere difficoltà ad ottenere la fideiussione, con il rischio del fallimento e del licenziamento dei dipendenti.

Appunto per questo è necessario modificare l’attuale normativa, non prevedendo alcuna forma di garanzia fino alla definizione totale della controversia.

 

5) Infine, l’ampliamento dei privilegi fiscali oltre ogni limite (anche temporale) e la retroattività delle norme hanno stravolto i rapporti esistenti tra fisco e privati, soprattutto nelle procedure in corso di votazione, permettendo all’Amministrazione Finanziaria di far valere in sede di ripartizione delle finanze un maggior credito, tutto di natura privilegiata, e di conseguenza di avere un diverso e maggior peso nella composizione concordataria, sia giudiziale che stragiudiziale, del credito rispetto agli altri creditori.

 

6) La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 281 del 28 ottobre 2011, ha dichiarato incostituzionale l’art. 85 D.P.R. n. 602/73 nella parte in cui prevede che, se il terzo incanto ha esito negativo, l’assegnazione dell’immobile allo Stato ha luogo per il minor valore tra il prezzo base del terzo incanto e la somma per la quale si procede, anziché per lo stesso prezzo base.

 

In sostanza, la Consulta indica come criterio (minimale, fino all’intervento del legislatore) quello di prendere a base il prezzo del terzo incanto, che è il più congruo rispetto al valore dell’immobile pignorato.

 

 

Q) RIMESSIONE IN TERMINI

 

1) La legge n. 69/2009, modificando in parte il codice di procedura civile, ha abrogato l’art. 184-bis c.p.c. ed ha spostato il contenuto nell’art. 153, comma 2, c.p.c., che così recita:

‘’la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma’’.

Al suddetto istituto giuridico deve ora essere riconosciuta una valenza di carattere generale e deve, di conseguenza, ritenersi applicabile anche ad attività esterne al processo.

Data questa nuova valenza generale, la rimessione in termini può di sicuro ritenersi applicabile anche al ricorrente che abbia incolpevolmente fatto decorrere il termine di impugnazione del provvedimento impositivo.

 

2) Prima della suddetta riforma processuale, la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 14482 del 29 settembre 2003, aveva precisato che:

‘’Come appare evidente dalla sua stessa collocazione (libro secondo, titolo I, capo II, sezione II della trattazione della causa), la norma riguarda le sole ipotesi in cui le parti costituite siano decadute dal potere di compiere determinate attività difensive nell’ambito della causa in corso di trattazione.

 

Essa, quindi, pur rendendo di applicazione generale l’istituto della rimessione in termini (operante, quindi, dopo la soppressione del riferimento alle decadenze previste negli articoli 183 e 184, contenuto nel testo originario, anche per le decadenze stabilite nei confronti del convenuto dagli artt. 167, secondo comma, e 171, secondo comma), non è invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio.

 

Per queste vige tuttora la regola della improrogabilità dei termini perentori (art. 153 c.p.c.), che impedisce di utilizzare l’istituto in discorso anche per le decadenze relative al compimento del termine perentorio per instaurare il giudizio (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 10094/1997, 8999/1999, 5778/2000, 9178/2000, 15491/2000, 2875/2002, 11136/2002, 11218/2002, 1285/2003), quale quello non rispettato dalla contribuente che ha chiesto di essere rimessa in corsa’’.

 

I suddetti principi, inoltre, erano stati ribaditi dalla Corte di Cassazione con le seguenti sentenze:

- N. 7814/03 del 19 maggio 2003;

- N. 4973/98 del 19 maggio 1998;

- N. 12935 del 2000;

- N. 6954 del 1999;

- N. 5197 del 1998.

 

In definitiva, la Corte di Cassazione, prima delle modifiche, riteneva costantemente che l’istituto della rimessione in termini atteneva ad eventuali nullità di ordine endoprocessuale, e cioè determinatesi nel corso del processo, in cui le parti fossero incorse per cause ad esse non imputabili, e non certo ad invalidità che investono il rituale instaurarsi del rapporto processuale.

 

3) Con il nuovo art. 153, comma 2, c.p.c. cit. lo scenario processuale oggi cambia a favore del ricorrente, che può utilizzare l’istituto anche se, senza colpa, ha fatto decorrere il termine perentorio di impugnazione del provvedimento impositivo (per esempio, avviso di accertamento, avviso di rettifica, avviso di sanzioni, cartella esattoriale, ecc.).

Ciò comporta che d’ora in poi sarà affidato al giudice tributario di trovare, di volta in volta, e nel caso concreto al suo esame, il giusto equilibrio tra l’effettività del diritto di difesa della parte che invoca la rimessione in termini e l’improrogabilità dei termini perentori su cui, invece, fa esclusivo riferimento l’ufficio fiscale ( c.d. auto responsabilità da decadenza in senso oggettivo ovvero per colpa).

 

Ultimamente, sull’applicabilità della rimessione in termini nel processo tributario si è pronunciata la Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, con l’ordinanza n. 377/2011 (in ‘’Il Sole 24 Ore’’ di lunedì 01 agosto 2011), a seguito della decadenza imputabile solo al difensore e non al contribuente.

 

Il nuovo istituto, però, potrebbe non avere pratica applicazione nel processo tributario perché il contribuente, con i limiti istruttori imposti per legge (divieto di testimonianza e giuramento) rischia di non poter dimostrare, in mancanza di documenti ufficiali, che non ha potuto impugnare per tempo l’atto fiscale per cause a lui non imputabili.

 

 

R) PROBLEMI DELLA GIURISDIZIONE

 

Oggi, anche se può sembrare strano, il maggior problema processuale che incontra il contribuente è quello di individuare ed adire il giudice competente, che dovrà decidere la sua causa in tempi ragionevoli.

 

Infatti, con una normativa tributaria alquanto complessa e poco chiara, senza l’indicazione dei principi, e con l’aggravante delle problematiche connesse alla finanza locale, anche a seguito del federalismo fiscale, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, è spesso intervenuta per dirimere le controversie in tema di giurisdizione (art. 41 c.p.c.).

 

Segnaliamo, a titolo puramente indicativo, alcune questioni risolte dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

 

- Spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi oggetto la debenza di contributi previdenziali (sent. n. 15168 del 23 giugno 2010).

 

- Rientrano nella giurisdizione delle Commissioni Tributarie, e non in quella dei giudici amministrativi, le cause contro i provvedimenti di rigetto delle istanze di rateizzazione (ord. n. 15647 dell’01 luglio 2010).

 

- Appartiene alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie la domanda proposta nei confronti dell’Amministrazione finanziaria per la restituzione di somme indebitamente versate a titolo di IVA (sent. n. 16281 del 12 luglio 2010).

 

- Ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di contributi a favore dei Consorzi di bonifica spetta al giudice amministrativo, ricollegandosi a posizioni di interesse legittimo, la domanda diretta a denunciare lo scorretto esercizio del potere impositivo del Consorzio, mentre è devoluta alla cognizione del giudice ordinario la domanda con cui si contesti l’esistenza di tale potere, in quanto la domanda è diretta a tutelare il diritto soggettivo dello stesso a non essere obbligato a prestazioni patrimoniali fuori dai casi previsti dalla legge (sent. n. 18327 del 06 agosto 2010).

 

- Spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti ad una contestata debenza dei canoni chiesti dal Comune a titolo di COSAP, aventi ad oggetto l’accertamento dell’esistenza del credito azionato dall’ente locale (ord. n. 22628 del 08 novembre 2010).

 

- Rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice tributario le controversie relative all’opposizione all’ordinanza ingiunzione emessa dall’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), in tema di videogiochi (sent. n. 23107 del 16 novembre 2010).

 

- Rientrano nella giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla restituzione dell’indebito pagamento di somme a titolo di TIA, in forza della natura tributaria riconosciuta alla TIA dalla sentenza della Corte Costituzionale (ord. n. 23291 del 18 novembre 2010); in senso contrario, invece, si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 2064 del 28 gennaio 2011, con cui è stata riconosciuta appartenere alla giurisdizione ordinaria la controversia avente ad oggetto la restituzione dell’IVA corrisposta all’atto del pagamento della TIA.

 

- Nei giudizi instaurati prima dell’entrata in vigore della Legge n. 69/2009 cit. (modifiche al c.p.c.), può essere chiesto d’ufficio il regolamento di giurisdizione, a norma dell’art. 59, comma 3, della suddetta legge (ord. n. 24686 del 06 dicembre 2010).

 

- Appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto la debenza, nei confronti della SIAE, delle somme prescritte, ai sensi dell’art. 181-bis della legge n. 633/1941, per l’apposizione sui supporti multimediali del previsto contrassegno (ord. n. 1780 del 26 gennaio 2011).

 

- Il giudice tributario non può dichiarare il difetto di giurisdizione in seguito alla contestazione degli atti della riscossione con i quali il concessionario recupera anche entrate non tributarie; in sostanza, la giurisdizione permane anche se la competenza sugli atti è parziale (sentenza n. 16858 del 02 agosto 2011).

 

E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

 

A questo punto, è auspicabile che, in vista della prossima riforma fiscale da tutti auspicata, sia riformato totalmente il processo tributario con un’elencazione chiara e definitiva di tutte le controversie di competenza dei giudici tributari, senza generiche petizioni di principio, in modo da non disorientare il contribuente ed il professionista che lo assiste.

 

Oggi, infatti, è vero che l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 546 cit. stabilisce che appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati.

 

Ma è altresì vero che la Corte Costituzionale ha più volte precisato che per qualificare come tributarie le entrate erariali si devono seguire i seguenti criteri, indipendemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate:

- doverosità della prestazione;

- collegamento di questa alla pubblica spesa;

- con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante.

 

In tal senso, si citano le seguenti sentenze della Corte Costituzionale:

- N. 334 del 2006;

- N. 73 del 2005;

- N. 64 del 2008;

- N. 335 del 2008.

 

Questi principi, però, validi sul piano teorico, possono essere di difficile applicabilità sul piano pratico, tanto è vero che alcune volte la stessa Corte di Cassazione ha dovuto rivedere criticamente una sua precedente interpretazione.

 

Per esempio, con le sentenze nn. 15031 e 15032 del 2009, i giudici di legittimità hanno cambiato indirizzo in tema di controversie fra sostituto e sostituito, stabilendo che sono di competenza del giudice ordinario e non del giudice tributario, trattandosi di diritto esercitato dal sostituto verso il sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, cui resta estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario.

 

Ecco perché è importante che intervenga una legge che stabilisca in modo chiaro ed analitico l’oggetto della giurisdizione tributaria per dare certezze ai contribuenti, ai professionisti, agli uffici ed ai giudici tributari.

 

Infine, nella materia tributaria, bisogna prevedere un unico processo dove discutere e decidere le questioni fiscali, quelle penali (senza più il c.d. ‘’doppio binario’’) e persino quelle civili, in tema, per esempio, di risarcimento danni per atti o comportamenti illeciti da parte dell’Amministrazione finanziaria, senza che il contribuente debba impazzire nell’individuazione del giudice competente e nell’attesa della definizione dei vari processi intentati o da intentare per tutelare e far valere i propri diritti ed interessi, soprattutto con le ultime modifiche penali-tributarie fatte con il D.L. n. 138/2011 cit..

 

 

S) AUTOTUTELA

 

1) Il potere di autotutela dell’ufficio fiscale è disciplinato dall’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, convertito dalla Legge n. 656 del 1994 e dal Decreto Ministeriale n. 37/1997 e consiste nella possibilità da parte dell’Amministrazione di annullare in modo totale o parziale un atto, o rinunciare ad una pretesa, quando l’atto si manifesti come illegittimo o non conforme alla legge che lo regola, anche senza istanza di parte, e pure in pendenza di giudizio od in caso di non impugnabilità del provvedimento tributario, con il solo limite di una sentenza di merito (non di diritto) passata in giudicato.

 

In definitiva, si può sostenere che l’autotutela tributaria è espressione di un potere-dovere di ripristino della legalità violata, incidente sul diritto del contribuente, e pertanto, anche ai sensi dell’art. 7 della Legge n. 212/2000 cit. (Statuto dei diritti del contribuente), grava sulla Amministrazione finanziaria l’obbligo di dare corso alla relativa istanza fornendo motivata risposta.

 

L’autotutela non è espressamente prevista tra gli atti impugnabili dall’art. 19 D.Lgs. n. 546 cit. e questo vuoto normativo, gravemente lesivo dei diritti di difesa del contribuente, ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali che soltanto ultimamente la Corte di Cassazione ha cercato di dirimere, anche se in modo non sufficientemente esaustivo.

 

2) In un primo momento, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9669/09 del 23 aprile 2009, aveva precisato che:

‘’Nella già citata sentenza n. 7388 del 2007 si chiarisce, infatti, che l’esercizio del potere di autotutela ‘’non costituisce un mezzo di tutela del contribuente’’ e che ‘’nel giudizio instaurato contro il mero, ed esplicito, rifiuto di esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato, nelle forme ammesse sugli atti discrezionali, soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria’’.

 

3) Ultimamente, però, la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con l’importante sentenza n. 26313 del 29 dicembre 2010, ha precisato che:

- l’esercizio del potere di autotutela ha natura eminentemente discrezionale ed esercitabile esclusivamente nel perseguimento di soli interessi pubblici;

- di conseguenza, il contribuente non ha un diritto perfetto ma un interesse legittimo, che potrà trovare tutela nell’ambito della giurisdizione tributaria, e non amministrativa, per effetto della riserva di legge;

- l’autotutela è sottoposta ai limiti di sindacabilità degli atti discrezionali, ovvero nell’ambito della legittimità dell’operato dell’Amministrazione (anche in caso di inerzia) e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del giudice tributario alla Amministrazione nella adozione di un atto di autotutela;

- in definitiva, ne consegue che il sindacato del mero rifiuto dell’esercizio di autotutela deve limitarsi all’esame della legittimità della condotta amministrativa, e non può estendersi al merito, ovvero a valutare la fondatezza della pretesa tributaria del contribuente.

 

Dagli enunciati principi, dunque, i giudici di legittimità, con la citata sentenza n. 26313/2010, fanno discendere che:

a) l’esercizio del sindacato sulla attività di autotutela costituisce procedimento autonomo e ben distinto dal procedimento di impugnazione di un atto impositivo, con cui non interferisce;

b) in ogni caso, non costituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti.

 

4) Nonostante la parziale apertura della Corte di Cassazione, la difesa del contribuente in tema di autotutela non è piena ed efficace, per cui è necessario, nella generale ed organica riforma del processo tributario, inserire l’autotutela espressamente tra gli atti impugnabili, anche come silenzio-rifiuto, e con possibilità di entrare nel merito, senza alcuna limitazione istruttoria al contribuente, che può chiedere anche la rimessione in termini, se sussistono le condizioni (vedi lett. ‘’Q’’).

 

Infine, non bisogna dimenticare il principio che il fisco è tenuto al risarcimento dei danni se non applica correttamente l’autotutela (Cassazione, Sez. III civile, sentenza n. 5120 del 03 marzo 2011).

 

5) L’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 22/E del 26 maggio 2011, ha precisato che gli uffici devono annullare in autotutela tutti gli accertamenti sbagliati.

 

 

T) LE COMMISSIONI TRIBUTARIE NON DEVONO ESSERE PARALIZZATE

 

Le Commissioni tributarie non devono fare cassa ma risolvere con competenza, equilibrio e serenità, senza pregiudizi, le controversie che insorgono tra il fisco ed i contribuenti, non solo nel rispetto delle norme ma anche sulla corretta interpretazione giuridica delle stesse.

 

Il concetto di cui sopra è logico e naturale, in quanto un organo giurisdizionale (e tali sono le Commissioni tributarie) non solo deve essere, ma anche ‘’apparire’’, terzo ed imparziale nella definizione delle controversie tributarie e non ci deve essere alcun sospetto che le sentenze debbano tendere a fare cassa, nell’unico interesse del fisco, che è una delle parti in causa.

 

Eppure, questi elementari e chiari concetti, oggi, sono stati totalmente messi in discussione con la recente manovra economica che, tra le varie disposizioni, vuole riordinare (peraltro parzialmente) la giustizia tributaria.

 

La suddetta riforma mette seriamente in pericolo i principi di autonomia ed indipendenza della Magistratura tributaria e ne travolge l’attuale assetto in modo irrazionale ed incostituzionale.

 

In definitiva, la suddetta manovra vuole rafforzare le cause di incompatibilità dei giudici tributari nonché incrementare notevolmente la presenza nelle Commissioni tributarie regionali di giudici selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili ovvero tra gli Avvocati dello Stato a riposo (art. 39 D.L. n. 98 cit.).

 

Di conseguenza, il legislatore, al fine di assicurare una maggiore efficienza del sistema della giustizia tributaria, garantendo altresì imparzialità (!) e terzietà (!) del corpo giudicante, ha disposto che rientrano tra le cause assolute di incompatibilità ai sensi dell’art. 8 D.Lgs n. 545 del 31 dicembre 1992:

1) le iscrizioni in albi professionali, elenchi e ruoli indicati nell’art. 12 del D.Lgs n. 546 del 31 dicembre 1992, nonché il personale dipendente di cui al succitato art. 12; ciò indipendentemente dalla preventiva indagine sull’attività esercitata in materia fiscale (con possibili future eccezioni di incostituzionalità per irragionevolezza della norma, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione);

2) l’esercizio in qualsiasi forma, anche se in modo saltuario o accessorio ad altra prestazione, della consulenza tributaria, della tenuta delle scritture contabili e della redazione dei bilanci, nonché l’attività di consulenza, assistenza o di rappresentanza, a qualsiasi titolo e anche nelle controversie di carattere tributario, di contribuenti singoli o associazioni di contribuenti, di società di riscossione dei tributi o di altri enti impositori;

3) i rapporti di coniugio, di convivenza (con quali prove?), di parentela fino al terzo grado o di affinità in primo grado di coloro che sono iscritti in albi professionali (vedi n. 1) ed esercitano le attività individuate al n. 2 nelle Regioni dove hanno sede le Commissioni tributarie provinciali (per i giudici di primo grado) e le Commissioni tributarie regionali (per i giudici di appello).

 

I giudici tributari che alla data del 06-07-2011 versano nelle condizioni di incompatibilità devono comunicare la cessazione delle cause di incompatibilità entro il 31 dicembre 2011 al Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, nonché alla Direzione della giustizia tributaria del Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze.

 

In caso di mancata rimozione nel termine predetto delle cause di incompatibilità, i giudici tributari decadono automaticamente, con paralisi assoluta delle Commissioni tributarie.

 

Infine, per completare il riordino (parziale) della giustizia tributaria, il legislatore ha previsto:

a) un concorso per 960 posti presso le Commissioni tributarie, riservato, però, ai soli magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, in servizio o a riposo, ed agli avvocati e procuratori dello Stato a riposo; tutti i suddetti soggetti, però, non devono prestare già servizio presso le predette Commissioni tributarie;

b) i compensi corrisposti ai membri delle Commissioni tributarie entro il periodo d’imposta successivo a quello di riferimento si intendono concorrere alla formazione del reddito imponibile, ai sensi dell’art. 11 del T.U. II.DD. (DPR n. 917 del 22 dicembre 1986), e non saranno più tassati separatamente.

 

A questo punto, l’opera di smantellamento e paralisi delle Commissioni tributarie è stato completato, così come di seguito esposto.

 

A) Tutti i professionisti iscritti agli Albi vengono categoricamente esclusi, con grave perdita delle professionalità giuridiche ed economiche necessarie per decidere, con equilibrio e competenza, delicate e complesse questioni fiscali (con possibili vizi di incostituzionalità già segnalati).

 

B) Rischiano tutti gli altri componenti che hanno coniugi, conviventi, affini e parenti nella Regione (o Province e Regioni confinanti).

 

C) I compensi, già miseri (euro 25 a sentenza depositata), si riducono ulteriormente, perché non più assoggettati a tassazione separata; il compenso medio mensile dei giudici delle CTP è pari a 655 euro; molto inferiore l’importo medio mensile percepito nelle CTR, pari a 284 euro.

 

D) Entrano a far parte delle Commissioni tributarie gli avvocati dello Stato a riposo, oltre ai magistrati contabili; in questo caso, invece, il legislatore ignora i conflitti di interesse, in quanto agli avvocati dello Stato, in particolare, è affidata la difesa dell’Agenzia delle entrate.

 

E) Continuano a far parte delle Commissioni tributarie i magistrati militari che, di certo, non hanno una competenza professionale in campo fiscale superiore a quella degli avvocati e dei dottori commercialisti che, invece, il legislatore ha voluto espellere senza alcuna motivata giustificazione.

 

F) Possono far parte delle Commissioni tributarie gli ispettori tributari di cui alla Legge n. 146 del 24 aprile 1980 (ciò a seguito dell’abrogazione della lettera f) dell’art. 8 D.Lgs. n. 546 cit.); per assurdo, quindi, i super-ispettori del fisco possono diventare giudici tributari, ignorando il legislatore totalmente i criteri di terzietà ed imparzialità.

 

Infatti, gli ispettori tributari sono alle dirette dipendenze del Ministero dell’economia e delle finanze (art. 9 L. n. 146 cit.) e potevano persino eseguire, in via straordinaria, verifiche fiscali (art. 9, c. 1, lettere b) e c), cit.); in questo caso, anche l’apparenza della terzietà ed imparzialità va a farsi benedire.

 

In sostanza, la riserva di posti a favore di soggetti incardinati nell’Amministrazione, come gli avvocati dello Stato e gli ispettori del Fisco, appanna l’immagine del giudice tributario anche solo sotto il profilo dell’apparenza, in quanto rischia di sembrare agli occhi dei contribuenti condizionato nelle sue decisioni.

 

G) In definitiva, con le attuali modifiche, potremmo avere collegi giudicanti composti da (elencazione non esaustiva):

- Magistrati militari;

- Magistrati contabili;

- Avvocati dello Stato a riposo;

- Ispettori tributari;

- Casalinghe con la laurea in giurisprudenza o in economia e commercio conseguita da almeno due anni;

- Ufficiali della Guardia di Finanza cessati dalla posizione di servizio permanente effettivo prestato per almeno dieci anni;

- Pensionati;

- Imprenditori;

- Agenti di assicurazioni;

- Commercianti;

- Artigiani;

- Docenti scolastici;

- Magistrati onorari;

- Giudici di pace.

 

Bisogna tener conto che, attualmente, la composizione delle C.T. è del 23,9% di magistrati togati e del 76,1% di giudici non togati.

 

H) Infine, nelle Commissioni tributarie regionali i posti da conferire saranno attribuiti in modo da assicurare progressivamente la presenza in tali Commissioni di due terzi dei giudici selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili ovvero gli avvocati dello Stato a riposo.

 

I) Di conseguenza, su un totale di 3.731 giudici tributari al 31-12-2010, circa 3.000 giudici sono a rischio di decadenza, con la possibilità (se non certezza) di una totale paralisi della giustizia tributaria per molti anni (anche perché i 960 posti a concorso sono insufficienti a compensare le perdite). Oltretutto, in base a quanto previsto dal Decreto Ministeriale dell’11 aprile 2008, l’organico dei giudici tributari dovrebbe essere pari a 4.668.

 

J) La paralisi delle Commissioni tributarie coincide, peraltro, con l’entrata in vigore, dall’01-10-2011, delle norme sugli accertamenti esecutivi, dove la posizione del fisco è di fatto prevalente rispetto alla posizione del contribuente, stante le inevitabili difficoltà che esso incontrerà a causa della impossibilità di vedere trattata l’istanza di sospensione nel breve termine di 180 giorni previsto dalla norma, a seguito della conversione in legge del Decreto Sviluppo n. 70 del 13-05-2011 (vedi lett. ‘’I’’).

 

La giustizia civile è affidata in gran parte a professionisti per i quali vige la sola incompatibilità di tipo territoriale.

 

Non si vede perché per il giudice tributario debbano valere regole diverse e più severe di quelle di qualsiasi altra magistratura.

 

Con il rischio che in futuro la giustizia tributaria sia amministrata da chi di ‘’professione’’ fa la casalinga, in quanto laureata in giurisprudenza o in economia ha tutti i titoli per fare il giudice tributario (art. 4, comma 1, lett.i), D.Lgs. n. 545 cit.).

 

Oggi, invece, serve una giurisdizione tributaria terza ed imparziale, che sappia risolvere e rasserenare le situazioni fiscali più complesse e spigolose, con competenza ed equilibrio.

 

Appunto per questo è da criticare e contestare in toto l’attuale intervento legislativo, peraltro adottato con la forma del decreto legge senza che ci siano le condizioni di necessità ed urgenza (art. 77, comma 2, della Costituzione).

 

E’ auspicabile, invece, che il legislatore, nell’ambito della generale riforma fiscale, con legge delega riformi totalmente la giustizia tributaria (non un semplice parziale ed ingiustificato riordino) prevedendo i seguenti, necessari principi:

1) dipendenza dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e non più dal Ministero dell’economia e delle finanze, che è una delle parti in causa;

2) parità assoluta tra le parti in causa, senza limitazioni nella fase istruttoria, con la possibilità di citare i testimoni e fare i giuramenti;

3) possibilità di chiedere le sospensive e le conciliazioni anche in grado di appello e di Cassazione;

4) di conseguenza, tenuto conto che il processo tributario diventa un ‘’vero’’ processo (come quello civile, penale ed amministrativo), necessità di reclutare giudici tributari a tempo pieno, con competenza qualificata, pagati dignitosamente anche per le sospensive (dato che è previsto il pagamento di un contributo unificato), e senza alcun collegamento funzionale con il Ministero dell’economia e delle finanze.

 

In definitiva, le suddette disposizioni di riordino mettono seriamente a rischio i principi di autonomia ed indipendenza della Giustizia tributaria, che sono principi assoluti, non subordinati alla materia su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi.

 

Oltretutto, i tempi sono maturi per il definitivo riconoscimento costituzionale della Magistratura tributaria, che opera esclusivamente nell’interesse dello Stato e del cittadino contribuente.

 

In Germania, la giurisdizione tributaria è costituzionalmente riconosciuta e garantita alla stregua di quella civile, penale o amministrativa.

 

Per le questioni fiscali è prevista la competenza di una sezione della magistratura ordinaria con specifiche competenze professionali in grado di garantire la tutela giurisdizionale in materia fiscale.

 

In particolare, tentato senza buon fine il rimedio amministrativo, il contribuente può rivolgersi ai Tribunali tributari di primo e secondo grado con l’eventuale ultimo grado affidato alla suprema Bundesverfassungsgericht.

 

 

U) RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E RIFORMA DEL PROCESSO TRIBUTARIO

 

In questi mesi, si sta discutendo molto della riforma della giustizia e della riforma fiscale.

 

A tal proposito, è opportuno segnalare la necessità di riformare totalmente il processo tributario che, oggi gestito dal Ministero dell’economia e delle finanze, cioè una delle parti in causa, non consente una piena ed efficace tutela del contribuente.

 

Nel progetto di riforma del processo tributario, secondo me, è opportuno tenere conto dei seguenti suggerimenti, che peraltro ho individuato nel mio progetto di legge pubblicato sul mio sito (www.studiotributariovillani.it):

- Gestione del processo tributario da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri (o del Ministero della Giustizia) e non più da parte del Ministero dell’economia e delle finanze;

- Ammissibilità della prova testimoniale e del giuramento;

- Termini perentori per la costituzione degli uffici;

- Sospensione degli atti anche in grado d’appello;

- Possibilità di conciliazione giudiziale anche in grado d’appello;

- Competenza delle Commissioni Tributarie anche per il risarcimento dei danni;

- Impugnazione dell’autotutela sia espressa sia tacita;

- Selezione di giudici professionalmente competenti e ben retribuiti, non come oggi che non vengono pagati per le ordinanze di sospensiva ed ai quali vengono corrisposte solo euro 25 a sentenza depositata, indipendentemente dal valore della causa.

 

In definitiva, secondo me, la riforma del processo tributario deve realizzare il principio del giusto processo, previsto dall’art. 111 della Costituzione, in modo che il contribuente sia posto sullo stesso piano processuale del fisco, senza alcuna limitazione nell’esercizio della difesa.

 

Infine, nella materia tributaria, bisogna prevedere un unico processo dove discutere e decidere le questioni fiscali, quelle penali (senza più il c.d. ‘’doppio binario’’) e persino quelle civili, in tema, per esempio, di risarcimento danni, in modo che il contribuente non debba impazzire nell’attesa della definizione delle varie cause oggi previste (vedi lett. ‘’R’’).

 

 

V) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

Con questo scritto, anche se in maniera non approfondita e non esaustiva, ho voluto dimostrare le varie difficoltà processuali che il contribuente ed il professionista che lo assiste incontrano nel processo tributario.

 

E’ giusto combattere l’evasione fiscale e rendere particolarmente incisive le azioni di recupero e riscossione delle imposte e tasse evase; al tempo stesso, però, bisogna consentire al contribuente di potersi difendere nel migliore dei modi, senza limitazioni o condizionamenti, anche perché la Costituzione tutela il diritto di difesa (art. 24, comma 2, ‘’La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo’’), in un processo dove le parti devono essere poste su un piano di perfetta parità davanti ad un giudice ‘’terzo ed imparziale’’ (art. 111, comma 2, cit.).

 

Con le ultime manovre economiche estive, invece, il legislatore vuole costringere il contribuente a pagare o patteggiare, rendendo estremamente difficoltoso e costoso il ricorso alla giustizia tributaria, peraltro, in futuro, gestita da giudici non professionali, a tempo parziale, poco remunerati e, cosa alquanto grave, gestiti (anche economicamente) dal Ministero dell’economia e delle finanze, che è una delle parti in causa.

 

Inoltre, alcuni giudici tributari sono alle dirette dipendenze del Ministero dell’economia e delle finanze (come i super-ispettori del fisco) o hanno difeso l’Amministrazione finanziaria (come gli avvocati dello Stato a riposo) o possono non avere alcuna cognizione giuridica e tecnica delle complesse problematiche fiscali (come, per esempio, le casalinghe con la laurea in giurisprudenza o in economia e commercio conseguita da almeno due anni !).

 

La giustizia tributaria è una cosa seria, dove i contribuenti onesti rischiano il fallimento se non sono messi nelle condizioni processuali di potersi efficacemente difendere, senza l’unica prospettiva di pagare o patteggiare a qualsiasi condizione.

 

Uno Stato di diritto, come il nostro, dalle sane tradizioni giuridiche non può più permettere una situazione del genere con l’alibi di dover far cassa a tutti i costi, penalizzando soprattutto i contribuenti onesti, che hanno scrupolosamente rispettato le leggi fiscali (spesso incomprensibili, confusionarie e contraddittorie) e che vogliono difendersi da cavillose e capziose interpretazioni del fisco (pensiamo, per esempio, alle controversie in tema di crediti d’imposta occupazione ed investimenti) o vogliono contrastare assurdi accertamenti basati su generiche e fumose presunzioni.

 

Oggi, il fisco ha tutti i mezzi giuridici e processuali per fare verifiche, accertamenti (studi di settore, redditometro, indagini bancarie, con inversione dell’onere a carico del contribuente) nonché ruoli e cartelle esattoriali (che sono atti pubblici ex art. 2699 del codice civile), anche tutelati dai privilegi.

 

Di conseguenza, il contribuente non deve subire limitazioni o condizionamenti per contrastare la potenza di fuoco del fisco, perché la battaglia processuale, già impari, diventa persa in partenza, con l’unica possibilità di pagare e patteggiare, salvo, dopo, fallire o chiudere le attività e licenziare.

 

Ecco perché è importante, in vista della generale riforma fiscale, riscrivere il processo tributario ma in modo serio e completo, non come è stato fatto sino ad oggi in modo superficiale e parziale.

 

E’ certamente vero che senza imposte non esiste lo Stato e senza lo Stato non esiste il diritto di proprietà.

 

Tutto ciò, però, non significa che l’imposta serva a distruggere la proprietà o debba essere prelevata a scapito della giustizia e dei diritti costituzionalmente garantiti.

 

Il diritto del contribuente alla giusta imposta è, in conclusione, il diritto al rispetto della disciplina costituzionale del fenomeno fiscale consistente nell’insieme dei principi di giusta imposta, individuati sinteticamente negli artt. 2, 3 e 53 della Costituzione ed in tutti i numerosi ulteriori articoli della nostra Carta in cui tali principi trovano sviluppo ed attuazione, in sintonia, peraltro, con il diritto di difesa dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale (anche all’apparenza), ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione.

 

In definitiva, deve terminare la costante manovra di ‘’deprocessualizzazione’’ della materia tributaria messa in atto dal legislatore per far cassa a tutti i costi, calpestando il diritto di difesa del contribuente.

 

Se la gente evade, oggi come in passato, è principalmente perché:

- il carico fiscale è eccessivo;

- le norme tributarie sono troppe, scritte male ed ingestibili;

- perché la legislazione fiscale cambia in continuazione, ignorando (anzi calpestando) lo Statuto del contribuente, come oggi è avvenuto con le ultime manovre estive sopra citate.

 

In luogo di stolide ed inappaganti guerre agli evasori, buone solo a creare e diffondere invidia sociale, sarebbe bene attuare subito la riforma fiscale, con la necessaria ed urgente riforma del processo tributario.

 

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