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Dichiarazioni raccolte in verifica indizi utilizzabili nel processo-Fisco oggi.it

 

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Il divieto di avvalersi della prova testimoniale nel rito tributario si riferisce alla prova in senso stretto

Dai risultati di un controllo incrociato dell’Amministrazione Finanziaria emergeva un diffuso sistema da parte di varie società nel settore edile di utilizzazione di documenti fiscali che non erano stati oggetto di dichiarazioni, né risultavano annotati e conservati dalla ditta emittente.

Le fatture emesse avevano peraltro per oggetto prestazioni di importi notevoli tali per cui, se da un lato non potevano essere state effettuate dal solo titolare, dall’altro lo stesso non disponeva di personale dipendente iscritto sui documenti obbligatori ai sensi della disciplina in materia di lavoro, né dagli accertamenti della Guardia di finanza risultava che lo stesso soggetto si fosse mai avvalso di imprese terze per l’esecuzione delle medesime opere.

Dalle dichiarazioni dei dipendenti irregolari veniva inoltre rilevato che gli stessi, unici a prestare attività alle dipendenze della società emittente (tra l’altro a “nero”), non avevano mai eseguito nel periodo oggetto di accertamento prestazioni presso e per conto delle società coinvolte.

 

Tutto ciò premesso, appurato che la società emittente non disponeva di altro personale e che per ulteriori lavori non si era avvalsa di altre imprese, e considerato che il personale “a nero” nel periodo in esame veniva impegnato per lavori presso soggetti diversi dalle imprese “beneficiarie” delle fatture, era stato ritenuto che le stesse operazioni si riferissero a operazioni inesistenti.

 

A seguito del contenzioso instaurato avverso gli avvisi emessi dall’ufficio, la Commissione tributaria provinciale di Firenze, con la sentenza n. 89/16/11 del 22 giugno, ha dunque respinto i ricorsi.

I giudici di merito, dopo aver respinto le eccezioni preliminari sollevate dal ricorrente, quanto alla legittimità del raddoppio dei termini di accertamento ex comma 3 dell’articolo 43 del Dpr 600/1973, in base al quale “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”, entravano dunque nel merito della vicenda.

 

Il contribuente opponeva che le dichiarazioni acquisite dalla Gdf, da cui si evinceva che gli stessi lavoratori in nero della società emittente avevano “confessato” di non aver mai lavorato presso i cantieri delle società coinvolte, non erano comunque utilizzabili nel processo tributario.

A tal proposito la CTP, respingendo l’eccezione, evidenzia che le dichiarazioni rese dagli operai di non aver mai prestato lavoro per le ditte destinatarie delle fatture “indubbiamente costituiscono indizi di cui tenere conto, senza che ciò costituisca violazione del divieto della prova testimoniale nel giudizio tributario, trattandosi di dichiarazioni rese nel corso della verifica ai funzionari della GdF, riportate sia pure in sintesi nel PVC redatto dai militi (cfr Cass. n. 21268/2005, 14427/1999, 4306/2010) e utilizzabili come indizi. Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario si riferisce comunque alla prova in senso stretto, non ai semplici indizi che sono utilizzabili”.

 

Del resto, come noto, le massime enucleabili dalla consolidata giurisprudenza della Corte suprema enunciano il principio in base al quale l’Amministrazione può porre a fondamento della propria attività conoscitiva ogni dato comunque in suo possesso, laddove tale principio dimostra la generale irrilevanza di ogni violazione delle norme sull’accertamento (laddove ci fosse) in ordine alla formazione del giudizio dell’Amministrazione e alla conseguente emanazione di un atto di accertamento.

Ciò che rileva dunque, afferma la Cassazione, è solo l’attendibilità delle fonti di prova acquisite, anche considerato che non esiste nel procedimento tributario (a differenza che nel procedimento penale) un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (Cassazione, 7791/2001) e “pertanto gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso salvo la verifica della attendibilità” (Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 1543/2003).

 

Quanto invece al valore indiziario delle dichiarazioni assunte dai verificatori, è evidente che quando le stesse dichiarazioni, tra di loro convergenti, confermano in modo chiaro gli altri elementi già emersi nel corso della verifica, allora esse assurgono al valore di vera e propria prova.

Come infatti ancora evidenziato nella sentenza in commento “si deve poi rilevare che nel PVC la circostanza che i quattro dipendenti dell’impresa … abbiano concordemente dichiarato di non avere mai svolto lavori per le sei ditte nei cui confronti sono state emesse le fatture contestate e di escludere che i relativi lavori di cui alle fatture possano essere stati fatti da altri lavoratori in quanto solo loro avevano lavorato per la ditta … depongono a suo sfavore”, anche considerato che “trattandosi di fatture emesse per operazioni inesistenti, l’onere della prova spettava al contribuente (Cass. 15228/2001) che però non l’ha fornita”.

 

L’accertamento, per quasi un milione di euro, veniva quindi confermato nella sua piena legittimità, compresi i risultati delle indagini bancarie effettuati sui conti dei coniugi e, secondo la Commissione, “utilizzati per occultare operazioni commerciali o per imbastire una vera e propria gestione extracontabile a scopo evasivo …”.

 

Giovambattista Palumbo

 

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