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Risoluzione del contratto per inadempimento e requisiti ad adempiere- (Danila D'Alessandro)-Altalex.it

 

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Nel sistema giuridico italiano, la stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l’inadempimento di uno dei soggetti contraenti, sono, ai sensi dell’art. 1453 del c.c., gli elementi costitutivi del diritto dell’altro contraente ad ottenere la risoluzione del contratto, ovvero l’adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del danno.

 

Questi diritti, benché abbiano in comune gli stessi presupposti costitutivi, sono comunque diversi, perché consentono al contraente interessato di conseguire utilità differenti come diverse sono le azioni proponibili.Di conseguenza la rinuncia all’esercizio di una di queste azioni non equivale alla rinuncia delle altre proponibili.

 

Ai presupposti dell’inadempimento e del rapporto contrattuale instaurato sono riconducibili le seguenti azioni: la domanda d’adempimento, la domanda di risoluzione e la domanda autonoma di risarcimento.

 

Le azioni di adempimento e di risoluzione sono poste dall’art. 1453 del c.c. sullo stesso piano, tanto è vero che il creditore ha la facoltà di scelta tra l’una e l’altra azione.

 

Perciò la parte,che agisce per l’adempimento, può limitarsi ad allegare che l’adempimento non vi è stato ed eguale onere d’allegazione va riconosciuto sussistente nel caso in cui dell’adempimento la parte richieda la risoluzione e il risarcimento del danno.

 

In effetti, con il termine risoluzione per inadempimento, il legislatore ha individuato lo strumento con il quale privare il contratto dei propri effetti giuridici allo scopo di assicurare l’equilibrio fra gli obblighi assunti da ciascuna parte e il buon esito delle reciproche aspettative.

 

Fin dal 1942, la disciplina civilistica con la risoluzione per inadempimento ha previsto delle ipotesi distinte che si differenziano l’una dall’altra perché l’elemento dell’inadempimento viene ad inserirsi in un contesto di circostanze di volta in volta differenti.

 

L’art. 1452 del c.c., quindi, prevede in via generale che nei contratti sinallagmatici a prestazioni corrispettive, a fronte dell’inadempimento di non scarsa importanza di una delle parti, l’altra può chiedere la risoluzione.

 

Secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidata, si ritiene sinallagmatico il contratto in cui la prestazione di una parte sia in funzione della prestazione prevista a carico dell’altra.

 

Perciò i sacrifici patrimoniali e gli apporti di utilità nel rapporto contrattuale sono corrispettivi e reciproci.

 

Infatti, la prestazione di una parte è compensata dalla controprestazione dell’altra. Pertanto, la parte adempiente alla prestazione contrattuale può ottenere la risoluzione del contratto laddove la controparte non esegua la propria prestazione.

 

Il rapporto tra le parti, dunque, deve essere di natura contrattuale, ma è indispensabile che gli effetti del contratto siano obbligatori. Ciò vuol dire che la prestazione può indicare sia un comportamento imposto al soggetto obbligato, sia una vicenda giuridica in virtù della quale il contratto sia passibile di risoluzione in quanto vi è corrispettività tra i sacrifici patrimoniali, anche se il sacrificio risulti a carico di un contraente solamente e non comporti assunzioni di obbligazioni in capo allo stesso.

 

Peraltro, la legge, che si riferisce al contraente inadempiente alle obbligazioni da cui è gravato, dovrebbe applicare la risoluzione solo nei confronti della parte, che abbia assunto le obbligazioni.

 

I requisiti formali e sostanziali della diffida ad adempiere

 

L’art. 1454 del c.c., rubricato come diffida ad adempiere, è qualificabile come il rimedio sinallagmatico apprestato a favore del contraente adempiente, affinché quest’ultimo non subisca le conseguenze derivanti dall’inadempimento altrui.

 

In particolare, la diffida ad adempiere è uno strumento che consente al contraente di ottenere la risoluzione del contratto senza necessità di adire l’autorità giudiziaria competente.

 

In buona sostanza, la diffida ad adempiere è considerata come una delle tre forme di risoluzione stragiudiziale del contratto, più precisamente la risoluzione di diritto che va affiancata alla clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.) e al termine essenziale per una delle parti (art. 1457 c.c.).

 

La diffida ad adempiere è annoverata fra le ipotesi di risoluzione di diritto, perché la disciplina civilistica dispone che al verificarsi della fattispecie regolamentata nei primi due commi dell’art. 1454 c.c., il contratto sia “risolto di diritto”.

 

Con la diffida ad adempiere, può, però, porsi il problema di determinare l’ambito della sua applicazione, sotto il duplice aspetto, sia dell’operatività dell’istituto con riferimento ai contratti a prestazioni corrispettive, sia dell’operatività in relazione alle singole fattispecie concrete.

 

Infatti, alla tesi più liberale, che considera la diffida ad adempiere come un rimedio applicabile ad ogni contratto corrispettivo, va contrapposto la tesi di coloro che sostengono che l’applicabilità di questa fattispecie dipenda dagli effetti del contratto, piuttosto che dall’oggetto e dal tipo di inadempimento.

 

Perciò, al di là delle tesi contrastanti, la diffida ad adempiere trova applicazione nelle ipotesi più disparate di inadempimento.

 

In effetti, la diffida ad adempiere ha lo stesso ambito di operatività dell’art. 1453 del c.c., con la conseguenza che non costituisce ostacolo la circostanza che in contratto siano dedotti termini diversi per l’adempimento di contrapposte prestazioni, oppure che colui che domandi la risoluzione abbia già eseguito la propria prestazione.

 

L’inadempimento che deve legittimare l’esercizio della diffida ad adempiere deve essere grave (art. 1455 c.c.).

 

Pertanto la diffida non avrà effetto laddove l’inadempimento sia di scarsa importanza, tenendo conto dell’interesse dell’altra parte.

 

L’inadempimento, che permette la risoluzione del contratto, è identificato con quell'inadempimento che, se previsto, avrebbe indotto la parte adempiente a non concludere il contratto.

 

Inoltre, se la prestazione dovuta non sia più eseguibile da parte del soggetto obbligato, tanto per ragioni soggettive, quanto per fatti attribuibili al creditore, appare inconcepibile l’assegnazione di un termine per l’adempimento, data l’irrimediabile situazione giuridica, che ha determinato l’impossibilità dell’attuazione del rapporto contrattuale.

 

Perciò non è sussumibile nella fattispecie in esame, l’inadempimento di un’obbligazione negativa all’inadempimento definitivo.

 

Ulteriori dibattiti sono nati sull’intimazione di diffida, ai sensi dell’art. 1454 del c.c., al contraente che abbia dichiarato di non voler adempiere.

 

Secondo alcuni autori in tale ipotesi la diffida perseguirebbe le proprie finalità, eliminando uno stato d’incertezza, offrendo al debitore la possibilità di evitare la risoluzione per effetto di un tempestivo adempimento.

 

Un’altra visione dottrinale, invece, equipara all’inadempimento la dichiarazione o la minaccia di non voler adempiere alle prestazioni formulate prima della scadenza prevista.

 

L’art. 1454 c.c, 1° comma, dispone che alla parte inadempiente possa essere intimato per iscritto dall’altro contraente di adempiere in congruo termine, che decorso inutilmente detto termine, il contratto s’intenderà risolto.

 

La diffida ad adempiere consiste, dunque, in una dichiarazione che deve contenere tre elementi essenziali: l’intimazione all’adempimento, la fissazione del termine concesso al debitore per adempiere e l’ammonimento che il contratto s’intenderà risolto laddove entro il predetto termine il contraente non adempia alla propria prestazione.

 

Secondo un principio consolidato in giurisprudenza, la diffida ad adempiere, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, esige comunque la manifestazione in modo inequivocabile della volontà dell’intimante, da un lato per ottenere l’adempimento del contratto entro un certo termine e, dall’altro di considerare risolto il contratto stesso come effetto dell’inutile decorrenza dei termini.

 

La diffida ad adempiere può essere fatta nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo, non richiedendo la legge una forma particolare, ed essendo sufficiente per la sua operatività che essa pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario.

 

Però la dichiarazione, che l’inadempimento alla scadenza del termine assegnato produrrà l’effetto risolutivo, dovrà risultare chiara ed univoca e produrre la risoluzione del contratto in difetto di adempimento in maniera automatica.

 

Pertanto, una semplice intimazione, contenuta in un avvertimento che in caso di inadempimento si agirà in via legale per la risoluzione del rapporto contrattuale non potrà considerarsi una valida diffida ad adempiere.

 

La diffida, dunque, deve provenire dal creditore in quanto unico soggetto titolare della facoltà di tutelare i propri diritti.

 

L’intimazione mediante diffida ad adempiere del creditore, peraltro, potrà essere presentata anche da un rappresentante della parte purché munito di adeguata procura.

 

Invece, vi è diversità d’opinioni in merito alla forma che la procura debba avere.

 

Infatti, in giurisprudenza si discute se alla procura siano applicabili i principi disposti dall’art. 1392 del c.c.( forma della procura), oppure se alla procura debba essere conferita per iscritto, a causa del tenore dell’art. 1454 del c.c..

 

Per alcune visioni giurisprudenziali e dottrinali, il principio di identità di forma pena nullità della procura non può trovare applicazione nella fattispecie de qua stante la diversità delle funzioni perseguite.

 

Perciò, per diverse pronunce della giurisprudenza si ritiene pienamente valida ed efficace la diffida ad adempiere di un contratto preliminare di compravendita, intimata, per conto e nell'interesse del contraente, da un soggetto fornito di un semplice mandato verbale, come pure quella sottoscritta da un falsus procurator, e successivamente ratificata dalla parte interessata. Ciò in quanto, sebbene l'art. 1350 c.c. stabilisce l'obbligo della forma scritta per la conclusione o la modifica dei contratti relativi a diritti reali immobiliari, nè esso, nè altra disposizione di legge prevedono un simile requisito di forma per ogni comunicazione o intimazione riguardante l'esecuzione di detti contratti.

 

In effetti, nella diffida ad adempiere, nessun obbligo né diritto viene a generarsi in capo al rappresentato. Pertanto non vi sono ragioni per applicare la forma scritta, poiché questa è posta a tutela non del diffidante, ma del diffidato.

 

Però la visione giurisprudenziale, che si è affermata negli ultimi anni, sostiene che la procura per la diffida ad adempiere di cui all'art. 1454 c.c., debba essere rilasciata per iscritto,a prescindere dal carattere eventualmente solenne della forma richiesta per il contratto destinato ad essere risolto. Questo principio è stato statuito dalle Sezioni Unite (Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza 15 giugno 2010, n. 14292), che hanno affrontato la questione relativa alla diffida ad adempiere che debba essere considerata valida anche qualora sia stata firmata da una persona, priva di procura rilasciata per iscritto.

 

La diffida ad adempiere, intimata alla parte inadempiente da un soggetto diverso dall'altro contraente, per produrre gli effetti di cui all'art. 1454 c.c. dovrà essere effettuata da un soggetto munito di procura scritta del creditore. Tale procura dovrà essere allegata, o comunque portata a conoscenza del debitore con mezzi idonei, atteso il carattere negoziale della diffida medesima, quale atto unilaterale destinato ad incidere sul rapporto contrattuale determinandone la risoluzione per l'inutile decorso del termine assegnato.

 

La procura relativa alla diffida ad adempiere di cui all'art. 1454 c.c., per la Suprema Corte dovrà essere rilasciata per iscritto, indipendentemente dal carattere eventualmente solenne della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi ad essere risolto.

 

Ciò in quanto si tratta di una manifestazione di volontà, consistente nell'esplicazione di un potere unilaterale di disposizione della sorte di un rapporto, la quale di per sè è idonea ad influire direttamente nella realtà giuridica, anche in considerazione della circostanza che dà luogo all'automatica risoluzione ipso iure del vincolo sinallagmatico, senza la necessità di una pronuncia giudiziale, nel caso d’inutile decorso del termine assegnato all'altra parte.

 

In particolare, le Sezioni Unite hanno ritenuto indispensabile che la procura per intimare la diffida ad adempiere debba essere rilasciata nella medesima forma, indipendentemente dal carattere eventualmente solenne della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi ad essere risolto.

 

Inoltre, secondo una visione consolidata della dottrina, la diffida ad adempiere è un atto recettizio, che genera i suoi effetti una volta che sia pervenuta a conoscenza del destinatario ed acquista carattere irrevocabile.

 

Uno dei requisiti fondamentali della diffida ad adempiere è l’individuazione di un termine congruo ad adempiere, che deve essere indicato e definito, in mancanza la diffida risulterebbe inidonea a produrre l’effetto risolutivo.

 

Il legislatore italiano stabilisce che tale termine non possa essere inferiore ai 15 giorni.

 

Però vi è anche la facoltà di intimare un termine, quando sia stato già prefissato dalle parti o sia previsto dagli usi. La congruità del termine va valutata alla luce del sacrificio imposto al diffidante e al tempo di attesa della prestazione.

 

L’ammonimento, invece, è un altro elemento essenziale che consente la produzione della risoluzione del contratto.

 

Pertanto, la diffida ai sensi dell’art. 1454 c.c. è un rimedio sinallagmatico, che determina la risoluzione del contratto, quando il contraente gravemente inadempiente, diffidato ad adempiere all’obbligazione in un termine indicato dall’intimante, resti inerte.

 

La reversibilità degli effetti risolutori

 

La diffida ad adempiere apre un successivo dibattito sulla possibilità di recuperare il contratto risolto. La questione, che vede contrapposte la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, verte sulla possibilità, per l'intimante di diffida ad adempiere, di rinunciare agli effetti risolutori che si producono, a norma del 3° co. dell'art. 1454 c.c., con l'inutile spirare del termine stabilito dal creditore in diffida.

 

In particolare, mentre nella giurisprudenza, gli effetti risolutori conseguenti all'intimazione della diffida restano nella disponibilità del creditore, il quale può dunque sempre rinunciarvi e pretendere l'esecuzione del contratto, nella dottrina si ritiene, all'opposto, che tale opportunità sia assolutamente preclusa all'intimante, in ossequio al principio della tutela dell'affidamento del contraente inadempiente contro l'arbitrio di volontà e convenienza del creditore.

 

La svolta nell'orientamento giurisprudenziale è determinata da una pronuncia delle Sezioni Unite a sostegno dell'indisponibilità degli effetti della diffida in un obiter dictum.

 

In effetti, la Suprema Corte a Sezioni Unite, con sentenza 14 gennaio 2009, n. 553 sostiene il distacco dalla posizione giurisprudenziale dominante. Muovendosi in direzione diametralmente opposta, tale pronuncia accoglie dunque in toto le ragioni della dottrina.

 

Pertanto sia la dottrina sia la giurisprudenza affermano l'automaticità della risoluzione con lo spirare del termine intimato e la conseguente inammissibilità di una rinuncia all'effetto risolutorio, evidentemente sottratta per legge alla libera disponibilità del creditore.

 

La reversibilità degli effetti risolutori derivanti da una clausola risolutiva espressa e da un termine essenziale per una delle parti pongono problematiche analoghe.

 

Per il primo di detti due strumenti, la questione dibattuta investe la rinunciabilità agli effetti che si producono dopo la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva, mentre, per il secondo, il problema della possibilità di rinuncia viene in essere al momento dello spirare del c.d. spatium deliberandi di tre giorni di cui all'art. 1457 c.c..

 

Anche qui, laddove la giurisprudenza si allinea per la soluzione favorevole, concedendo al creditore la facoltà di recuperare il contratto risolto pretendendone l'esecuzione, in dottrina si propende invece per la tesi dell'irreversibilità degli effetti risolutori conseguenti alla dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva, in un caso, e al decorso dei tre giorni, nell'altro.

 

(Altalex, 18 marzo 2011. Articolo di Danila D'Alessandro)

 

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Bibliografia

 

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    GAZZONI, Manuale di diritto privato, Jovene, 2004;

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    SACCO, Obbligazioni e contratti, Vol. X, Tomo II, in Trattato di diritto privato, Rescigno, Utet, 1997.

 

 

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