Nel sistema giuridico italiano, la
stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive
e l’inadempimento di uno dei soggetti contraenti, sono,
ai sensi dell’art. 1453 del c.c., gli elementi
costitutivi del diritto dell’altro contraente ad
ottenere la risoluzione del contratto, ovvero
l’adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del
danno.
Questi diritti, benché abbiano in
comune gli stessi presupposti costitutivi, sono comunque
diversi, perché consentono al contraente interessato di
conseguire utilità differenti come diverse sono le
azioni proponibili.Di conseguenza la rinuncia
all’esercizio di una di queste azioni non equivale alla
rinuncia delle altre proponibili.
Ai presupposti dell’inadempimento e
del rapporto contrattuale instaurato sono riconducibili
le seguenti azioni: la domanda d’adempimento, la domanda
di risoluzione e la domanda autonoma di risarcimento.
Le azioni di adempimento e di
risoluzione sono poste dall’art. 1453 del c.c. sullo
stesso piano, tanto è vero che il creditore ha la
facoltà di scelta tra l’una e l’altra azione.
Perciò la parte,che agisce per
l’adempimento, può limitarsi ad allegare che
l’adempimento non vi è stato ed eguale onere
d’allegazione va riconosciuto sussistente nel caso in
cui dell’adempimento la parte richieda la risoluzione e
il risarcimento del danno.
In effetti, con il termine
risoluzione per inadempimento, il legislatore ha
individuato lo strumento con il quale privare il
contratto dei propri effetti giuridici allo scopo di
assicurare l’equilibrio fra gli obblighi assunti da
ciascuna parte e il buon esito delle reciproche
aspettative.
Fin dal 1942, la disciplina
civilistica con la risoluzione per inadempimento ha
previsto delle ipotesi distinte che si differenziano
l’una dall’altra perché l’elemento dell’inadempimento
viene ad inserirsi in un contesto di circostanze di
volta in volta differenti.
L’art. 1452 del c.c., quindi,
prevede in via generale che nei contratti sinallagmatici
a prestazioni corrispettive, a fronte dell’inadempimento
di non scarsa importanza di una delle parti, l’altra può
chiedere la risoluzione.
Secondo la dottrina e la
giurisprudenza consolidata, si ritiene sinallagmatico il
contratto in cui la prestazione di una parte sia in
funzione della prestazione prevista a carico dell’altra.
Perciò i sacrifici patrimoniali e
gli apporti di utilità nel rapporto contrattuale sono
corrispettivi e reciproci.
Infatti, la prestazione di una
parte è compensata dalla controprestazione dell’altra.
Pertanto, la parte adempiente alla prestazione
contrattuale può ottenere la risoluzione del contratto
laddove la controparte non esegua la propria
prestazione.
Il rapporto tra le parti, dunque,
deve essere di natura contrattuale, ma è indispensabile
che gli effetti del contratto siano obbligatori. Ciò
vuol dire che la prestazione può indicare sia un
comportamento imposto al soggetto obbligato, sia una
vicenda giuridica in virtù della quale il contratto sia
passibile di risoluzione in quanto vi è corrispettività
tra i sacrifici patrimoniali, anche se il sacrificio
risulti a carico di un contraente solamente e non
comporti assunzioni di obbligazioni in capo allo stesso.
Peraltro, la legge, che si
riferisce al contraente inadempiente alle obbligazioni
da cui è gravato, dovrebbe applicare la risoluzione solo
nei confronti della parte, che abbia assunto le
obbligazioni.
I requisiti formali e sostanziali
della diffida ad adempiere
L’art. 1454 del c.c., rubricato
come diffida ad adempiere, è qualificabile come il
rimedio sinallagmatico apprestato a favore del
contraente adempiente, affinché quest’ultimo non subisca
le conseguenze derivanti dall’inadempimento altrui.
In particolare, la diffida ad
adempiere è uno strumento che consente al contraente di
ottenere la risoluzione del contratto senza necessità di
adire l’autorità giudiziaria competente.
In buona sostanza, la diffida ad
adempiere è considerata come una delle tre forme di
risoluzione stragiudiziale del contratto, più
precisamente la risoluzione di diritto che va affiancata
alla clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.) e al
termine essenziale per una delle parti (art. 1457 c.c.).
La diffida ad adempiere è
annoverata fra le ipotesi di risoluzione di diritto,
perché la disciplina civilistica dispone che al
verificarsi della fattispecie regolamentata nei primi
due commi dell’art. 1454 c.c., il contratto sia “risolto
di diritto”.
Con la diffida ad adempiere, può,
però, porsi il problema di determinare l’ambito della
sua applicazione, sotto il duplice aspetto, sia
dell’operatività dell’istituto con riferimento ai
contratti a prestazioni corrispettive, sia
dell’operatività in relazione alle singole fattispecie
concrete.
Infatti, alla tesi più liberale,
che considera la diffida ad adempiere come un rimedio
applicabile ad ogni contratto corrispettivo, va
contrapposto la tesi di coloro che sostengono che
l’applicabilità di questa fattispecie dipenda dagli
effetti del contratto, piuttosto che dall’oggetto e dal
tipo di inadempimento.
Perciò, al di là delle tesi
contrastanti, la diffida ad adempiere trova applicazione
nelle ipotesi più disparate di inadempimento.
In effetti, la diffida ad adempiere
ha lo stesso ambito di operatività dell’art. 1453 del
c.c., con la conseguenza che non costituisce ostacolo la
circostanza che in contratto siano dedotti termini
diversi per l’adempimento di contrapposte prestazioni,
oppure che colui che domandi la risoluzione abbia già
eseguito la propria prestazione.
L’inadempimento che deve
legittimare l’esercizio della diffida ad adempiere deve
essere grave (art. 1455 c.c.).
Pertanto la diffida non avrà
effetto laddove l’inadempimento sia di scarsa
importanza, tenendo conto dell’interesse dell’altra
parte.
L’inadempimento, che permette la
risoluzione del contratto, è identificato con
quell'inadempimento che, se previsto, avrebbe indotto la
parte adempiente a non concludere il contratto.
Inoltre, se la prestazione dovuta
non sia più eseguibile da parte del soggetto obbligato,
tanto per ragioni soggettive, quanto per fatti
attribuibili al creditore, appare inconcepibile
l’assegnazione di un termine per l’adempimento, data
l’irrimediabile situazione giuridica, che ha determinato
l’impossibilità dell’attuazione del rapporto
contrattuale.
Perciò non è sussumibile nella
fattispecie in esame, l’inadempimento di un’obbligazione
negativa all’inadempimento definitivo.
Ulteriori dibattiti sono nati
sull’intimazione di diffida, ai sensi dell’art. 1454 del
c.c., al contraente che abbia dichiarato di non voler
adempiere.
Secondo alcuni autori in tale
ipotesi la diffida perseguirebbe le proprie finalità,
eliminando uno stato d’incertezza, offrendo al debitore
la possibilità di evitare la risoluzione per effetto di
un tempestivo adempimento.
Un’altra visione dottrinale,
invece, equipara all’inadempimento la dichiarazione o la
minaccia di non voler adempiere alle prestazioni
formulate prima della scadenza prevista.
L’art. 1454 c.c, 1° comma, dispone
che alla parte inadempiente possa essere intimato per
iscritto dall’altro contraente di adempiere in congruo
termine, che decorso inutilmente detto termine, il
contratto s’intenderà risolto.
La diffida ad adempiere consiste,
dunque, in una dichiarazione che deve contenere tre
elementi essenziali: l’intimazione all’adempimento, la
fissazione del termine concesso al debitore per
adempiere e l’ammonimento che il contratto s’intenderà
risolto laddove entro il predetto termine il contraente
non adempia alla propria prestazione.
Secondo un principio consolidato in
giurisprudenza, la diffida ad adempiere, pur non
richiedendo l’uso di formule sacramentali, esige
comunque la manifestazione in modo inequivocabile della
volontà dell’intimante, da un lato per ottenere
l’adempimento del contratto entro un certo termine e,
dall’altro di considerare risolto il contratto stesso
come effetto dell’inutile decorrenza dei termini.
La diffida ad adempiere può essere
fatta nella forma più idonea al raggiungimento dello
scopo, non richiedendo la legge una forma particolare,
ed essendo sufficiente per la sua operatività che essa
pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario.
Però la dichiarazione, che
l’inadempimento alla scadenza del termine assegnato
produrrà l’effetto risolutivo, dovrà risultare chiara ed
univoca e produrre la risoluzione del contratto in
difetto di adempimento in maniera automatica.
Pertanto, una semplice intimazione,
contenuta in un avvertimento che in caso di
inadempimento si agirà in via legale per la risoluzione
del rapporto contrattuale non potrà considerarsi una
valida diffida ad adempiere.
La diffida, dunque, deve provenire
dal creditore in quanto unico soggetto titolare della
facoltà di tutelare i propri diritti.
L’intimazione mediante diffida ad
adempiere del creditore, peraltro, potrà essere
presentata anche da un rappresentante della parte purché
munito di adeguata procura.
Invece, vi è diversità d’opinioni
in merito alla forma che la procura debba avere.
Infatti, in giurisprudenza si
discute se alla procura siano applicabili i principi
disposti dall’art. 1392 del c.c.( forma della procura),
oppure se alla procura debba essere conferita per
iscritto, a causa del tenore dell’art. 1454 del c.c..
Per alcune visioni
giurisprudenziali e dottrinali, il principio di identità
di forma pena nullità della procura non può trovare
applicazione nella fattispecie de qua stante la
diversità delle funzioni perseguite.
Perciò, per diverse pronunce della
giurisprudenza si ritiene pienamente valida ed efficace
la diffida ad adempiere di un contratto preliminare di
compravendita, intimata, per conto e nell'interesse del
contraente, da un soggetto fornito di un semplice
mandato verbale, come pure quella sottoscritta da un
falsus procurator, e successivamente ratificata dalla
parte interessata. Ciò in quanto, sebbene l'art. 1350
c.c. stabilisce l'obbligo della forma scritta per la
conclusione o la modifica dei contratti relativi a
diritti reali immobiliari, nè esso, nè altra
disposizione di legge prevedono un simile requisito di
forma per ogni comunicazione o intimazione riguardante
l'esecuzione di detti contratti.
In effetti, nella diffida ad
adempiere, nessun obbligo né diritto viene a generarsi
in capo al rappresentato. Pertanto non vi sono ragioni
per applicare la forma scritta, poiché questa è posta a
tutela non del diffidante, ma del diffidato.
Però la visione giurisprudenziale,
che si è affermata negli ultimi anni, sostiene che la
procura per la diffida ad adempiere di cui all'art. 1454
c.c., debba essere rilasciata per iscritto,a prescindere
dal carattere eventualmente solenne della forma
richiesta per il contratto destinato ad essere risolto.
Questo principio è stato statuito dalle Sezioni Unite
(Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza 15 giugno 2010,
n. 14292), che hanno affrontato la questione relativa
alla diffida ad adempiere che debba essere considerata
valida anche qualora sia stata firmata da una persona,
priva di procura rilasciata per iscritto.
La diffida ad adempiere, intimata
alla parte inadempiente da un soggetto diverso
dall'altro contraente, per produrre gli effetti di cui
all'art. 1454 c.c. dovrà essere effettuata da un
soggetto munito di procura scritta del creditore. Tale
procura dovrà essere allegata, o comunque portata a
conoscenza del debitore con mezzi idonei, atteso il
carattere negoziale della diffida medesima, quale atto
unilaterale destinato ad incidere sul rapporto
contrattuale determinandone la risoluzione per l'inutile
decorso del termine assegnato.
La procura relativa alla diffida ad
adempiere di cui all'art. 1454 c.c., per la Suprema
Corte dovrà essere rilasciata per iscritto,
indipendentemente dal carattere eventualmente solenne
della forma richiesta per il contratto destinato in
ipotesi ad essere risolto.
Ciò in quanto si tratta di una
manifestazione di volontà, consistente nell'esplicazione
di un potere unilaterale di disposizione della sorte di
un rapporto, la quale di per sè è idonea ad influire
direttamente nella realtà giuridica, anche in
considerazione della circostanza che dà luogo
all'automatica risoluzione ipso iure del vincolo
sinallagmatico, senza la necessità di una pronuncia
giudiziale, nel caso d’inutile decorso del termine
assegnato all'altra parte.
In particolare, le Sezioni Unite
hanno ritenuto indispensabile che la procura per
intimare la diffida ad adempiere debba essere rilasciata
nella medesima forma, indipendentemente dal carattere
eventualmente solenne della forma richiesta per il
contratto destinato in ipotesi ad essere risolto.
Inoltre, secondo una visione
consolidata della dottrina, la diffida ad adempiere è un
atto recettizio, che genera i suoi effetti una volta che
sia pervenuta a conoscenza del destinatario ed acquista
carattere irrevocabile.
Uno dei requisiti fondamentali
della diffida ad adempiere è l’individuazione di un
termine congruo ad adempiere, che deve essere indicato e
definito, in mancanza la diffida risulterebbe inidonea a
produrre l’effetto risolutivo.
Il legislatore italiano stabilisce
che tale termine non possa essere inferiore ai 15
giorni.
Però vi è anche la facoltà di
intimare un termine, quando sia stato già prefissato
dalle parti o sia previsto dagli usi. La congruità del
termine va valutata alla luce del sacrificio imposto al
diffidante e al tempo di attesa della prestazione.
L’ammonimento, invece, è un altro
elemento essenziale che consente la produzione della
risoluzione del contratto.
Pertanto, la diffida ai sensi
dell’art. 1454 c.c. è un rimedio sinallagmatico, che
determina la risoluzione del contratto, quando il
contraente gravemente inadempiente, diffidato ad
adempiere all’obbligazione in un termine indicato
dall’intimante, resti inerte.
La reversibilità degli effetti
risolutori
La diffida ad adempiere apre un
successivo dibattito sulla possibilità di recuperare il
contratto risolto. La questione, che vede contrapposte
la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, verte
sulla possibilità, per l'intimante di diffida ad
adempiere, di rinunciare agli effetti risolutori che si
producono, a norma del 3° co. dell'art. 1454 c.c., con
l'inutile spirare del termine stabilito dal creditore in
diffida.
In particolare, mentre nella
giurisprudenza, gli effetti risolutori conseguenti
all'intimazione della diffida restano nella
disponibilità del creditore, il quale può dunque sempre
rinunciarvi e pretendere l'esecuzione del contratto,
nella dottrina si ritiene, all'opposto, che tale
opportunità sia assolutamente preclusa all'intimante, in
ossequio al principio della tutela dell'affidamento del
contraente inadempiente contro l'arbitrio di volontà e
convenienza del creditore.
La svolta nell'orientamento
giurisprudenziale è determinata da una pronuncia delle
Sezioni Unite a sostegno dell'indisponibilità degli
effetti della diffida in un obiter dictum.
In effetti, la Suprema Corte a
Sezioni Unite, con sentenza 14 gennaio 2009, n. 553
sostiene il distacco dalla posizione giurisprudenziale
dominante. Muovendosi in direzione diametralmente
opposta, tale pronuncia accoglie dunque in toto le
ragioni della dottrina.
Pertanto sia la dottrina sia la
giurisprudenza affermano l'automaticità della
risoluzione con lo spirare del termine intimato e la
conseguente inammissibilità di una rinuncia all'effetto
risolutorio, evidentemente sottratta per legge alla
libera disponibilità del creditore.
La reversibilità degli effetti
risolutori derivanti da una clausola risolutiva espressa
e da un termine essenziale per una delle parti pongono
problematiche analoghe.
Per il primo di detti due
strumenti, la questione dibattuta investe la
rinunciabilità agli effetti che si producono dopo la
dichiarazione di volersi avvalere della clausola
risolutiva, mentre, per il secondo, il problema della
possibilità di rinuncia viene in essere al momento dello
spirare del c.d. spatium deliberandi di tre giorni di
cui all'art. 1457 c.c..
Anche qui, laddove la
giurisprudenza si allinea per la soluzione favorevole,
concedendo al creditore la facoltà di recuperare il
contratto risolto pretendendone l'esecuzione, in
dottrina si propende invece per la tesi
dell'irreversibilità degli effetti risolutori
conseguenti alla dichiarazione di avvalersi della
clausola risolutiva, in un caso, e al decorso dei tre
giorni, nell'altro.
(Altalex, 18 marzo 2011. Articolo
di Danila D'Alessandro)
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