Autore :
Michelangelo Scanniello
Sommario: 1. Il tema. - 2. Una
questione terminologica- 3. I soggetti dell’indagine:
azienda e impresa. – 4. Inizio dell’impresa. – 5. Fine
dell’impresa. - 6. Inizio e fine dell’impresa sociale. -
7. Iscrizione e cancellazione nel registro delle
imprese. – 8. Il termine finale del fallimento. – 9. Il
sistema. Conclusioni.
Il tema
L’inizio e la fine, l’iscrizione e
la cancellazione dal registro delle imprese, insieme al
fallimento, sono aspetti intimamente correlati
all’impresa. Questo breve scritto intende mettere in
luce i punti di contatto tra le fattispecie per capire
quale siano i momenti di inizio e fine dell’attività
imprenditoriale, seguendo un unico filo conduttore.
Infatti, l’impresa è un fenomeno
vivo, una “entità essenzialmente dinamica”(1), un
“organismo economico” (2) che nasce e muore.
Quest’ultima fase, la c.d. “fine dell’impresa”, è
(diciamo così) “certificata” dalla cancellazione dal
registro delle imprese. In ultimo, i rapporti giuridici
pendenti al momento della fine dell’impresa, devono
godere di un regime di certezza giuridica; questo per
tutelare la realtà socio-economica, lesa in modo
unilaterale con la cessazione dell’attività
imprenditoriale; e detta tutela può consistere anche nel
fallimento successivo alla cessazione dell’attività.
Pertanto la rilevanza dei tre
istituti è di tutta evidenza, ricomponendosi in un
sistema. Ciò nonostante, definire il momento preciso
della fine dell’impresa o dell’inizio della medesima non
è affatto facile. Molto si è scritto sul punto, ma oggi
qualche lume sembra esserci.
Una questione terminologica
Come spesso avviene in diritto la
terminologia, benché adottata in modo generalizzato, non
è del tutto propria.
Si nota, giustamente, che parlare
di inizio e fine dell’impresa non è corretto.
Chiaramente tutti ci intendiamo nel dire che un’impresa
“inizia”, “finisce” o “si sospende”. Tuttavia, in punto
di pura correttezza terminologica, non ha senso parlare
di inizio, fine o sospensione dell’impresa(3). Questo
perché l’impresa è un modello di comportamento, un
paradigma normativo che o è presente o non lo è; o la
fattispecie concreta risponde a quella astratta oppure
no. Pertanto la fine e/o l’inizio dell’impresa altro non
sono che i due estremi del segmento comportamentale
“impresa”; così discutere di essi altro non significa
che parlare di una attività economica, professionalmente
svolta, ecc. che corrisponde, appunto, all’impresa(4).
Ad ogni modo, la terminologia poco
si accorda con la pratica, perciò continueremo ad usare
i termini di cui sopra, perché unanimemente adoperati e
di ineludibile chiarezza.
I soggetti dell’indagine:
azienda e impresa.
L’art. 2082 dispone: “E’
imprenditore chi esercita professionalmente una attività
economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o di servizi”. Si deduce che il codice
civile non definisce l’impresa ma l’imprenditore.
Tuttavia la definizione di impresa si desume abbastanza
agevolmente. Tanto che: “L'impresa è l'attività
economica svolta dall'imprenditore, per cui non è
ammissibile un'impresa senza imprenditore”(5).
E si evince anche chiaramente che
impresa non è sinonimo di “azienda”. L’azienda è infatti
definita dall’art. 2555 c.c. quale “complesso di beni
organizzati dall’imprenditore per esercizio
dell’impresa”.
L’azienda è, in questo modo,
l’aspetto materiale, il riflesso immanente di una
attività non materiale, dedita ad uno scopo produttivo;
nella definizione di azienda l’accento cade sui beni
utilizzati nell’attività. Al contrario l’impresa è
quella attività. L’una privata dell’altra sono tratti di
un disegno incompiuto, e solo dalla “complementarietà
tra i due aspetti”(6) origina la reale (e realistica)
immagine dell’impresa(7).
Nel codice, dei due aspetti, se si
volesse farne un valutazione, è l’attività ad avere la
“decisa prevalenza sul complesso dei beni (azienda) al
quale essa si riferisce”(8). Ma i due profili spesso si
confondono nella terminologia comune e legislativa,
specie di diritto pubblico.
Stando alla definizione di impresa,
ad ogni modo, appare evidente il superamento dell’ottica
fisiocratica, presente nei codici precedenti.
Si è giunti difatti ad una visione
in cui la ricchezza non è prodotta dal bene in sé, ma
dalla sua utile collocazione in un complesso di beni
organizzati. La vera ricchezza la crea la specifica
collocazione del bene in quella specifica azienda, non
(soltanto) il valore proprio ma statico del singolo
bene.
Inizio dell’impresa
“La qualità di imprenditore si
acquista con l’effettivo esercizio dell’attività di
impresa”(9), e si perde con l’effettiva cessazione della
stessa attività; non rilevando affatto dichiarazioni,
più o meno pubbliche, quali iscrizioni ad albi,
autorizzazioni chieste od ottenute, a fare
l’impresa(10).
Specularmente, l’involontario
inizio di attività imprenditoriale costituisce attività
d’impresa a tutti gli effetti; e detta attività sarà
soggetta al c.d. “statuto dell’imprenditore”, nelle sue
eventuali declinazioni, ad esempio quale imprenditore
commerciale(11). Questo perché si ritiene che l’attività
di impresa è un fatto giuridico, non un atto
giuridico(12).
E’ sostenibile, ancora, “il
principio per cui gli atti meramente preparatori o
interni, non accompagnati dall'effettivo esercizio della
corrispondente attività commerciale non possono essere
considerati idonei ad attribuire la qualità di
imprenditore”, a meno che non “ci si trovi di fronte ad
una attività più o meno intensa, finalizzata a porre in
essere concreti e positivi atti di commercio ed
estrinsecatasi all'esterno con tali peculiari
connotati”(13).
La giurisprudenza del resto
riconosce “la qualità di imprenditore nella fase
organizzativa quando si tratta di applicare la
disciplina della concorrenza sleale, ritenendo che
abbiano natura concorrenziale anche gli atti compiuti da
chi o a danno di chi sta organizzando la propria
attività imprenditoriale”(14).
Quanto detto si riassume nel
“principio di effettività”(15), che dà una certa
linearità d’insieme al discorso: se c’è (e fino a quando
ci sarà) effettivamente attività imprenditoriale, c’è
anche impresa; altrimenti parliamo di attività d’altra
natura(16).
Ma da qui in poi, però, la
linearità del discorso cambia, e non di poco.
Il problema è, infatti,
identificare il reale, l’effettivo inizio dell’attività
d’impresa. La dizione della norma di certo non aiuta,
poiché è imprenditore chi “esercita” una “attività”;
espressioni proiettate al futuro, non statiche, ed è di
per sé difficile fotografare bene i contorni di un
soggetto in movimento già nella definizione oltre che
nelle mutevoli fattezze.
Si sostiene che “basta, per
acquistare la qualità di imprenditore, anche il
compimento di un solo atto di impresa” se finalizzato ad
una “lunga serie” di atti connessi al primo e svolti
professionalmente(17). O che la nozione di imprenditore
è “un dato obiettivo”(18), tutto teso alla remunerazione
dei fattori produttivi impiegati nell’impresa da esso
diretta.
E fin qui vale ancora il principio
di effettività; ma qual è il “primo atto d’impresa”?
In definitiva, non esiste una
riposta univoca. Bisogna in primo luogo analizzare la
singola attività ed individuare la presenza o meno di
atti preparativi all’impresa, per poi valutarne la
natura e il significato reale. Così la creazione di
strutture stabili, visibili, magari con investimenti
economici rilevanti, sono segno certo che l’attività
economica è cominciata. Si tratterebbe, come si dice, di
“un atto di organizzazione”, cioè diretto a creare
l’organizzazione, da distinguersi dall’ “atto
dell’organizzazione”, effetto dell’organizzazione.
Questa terminologia può essere
accolta solo in senso descrittivo; ove se ne accogliesse
una statica e netta classificazione, si sostiene, si
verrebbe sconfessati dalla fluidità e perplessità di
atti che ben difficilmente sono inquadrabili nella prima
o nella seconda categoria(19).
La giurisprudenza, quando ricorre
un “apparato esteriore”, ritiene sufficiente “anche il
compimento di un singolo atto riconducibile a quella
organizzazione”; quando l’apparato esteriore manchi,
invece, richiede “atti oggettivamente suscettibili di
essere qualificati come atti d’impresa”, che non siano
cioè “operazioni isolate”, ma al contrario il frutto di
una “attività professionalmente esercitata”(20).
Ove la fase preparatoria non
dovesse esserci il discorso si complica ulteriormente.
Difatti solo atti coordinati, omogenei, ripetuti e
funzionali ad uno scopo, potrebbero essere un valido
indice di attività di impresa.
In linea di massima in
giurisprudenza si cerca di trarre una regola generale
dal principio dell’affidamento dei terzi. Basti il
ricordare che la “società apparente” è creatura
giurisprudenziale. Questo criterio è ritenuto opportuno
da chi lo unisce ad “un sufficiente margine di certezza
circa la natura dell’oggetto dell’attività
intrapresa”(21).
In altre parole, alcuni tendono a
individuare l’inizio dell’impresa nell’attività che dia
il giusto credito, presso i terzi, di essere realmente
tale, ma sotto un crisma oggettivo di una attività
iniziata, o altrimenti manifestata prima del suo inizio.
Fine dell’impresa
La cessazione dell’impresa, a sua
volta, crea altri problemi.
E’ chiaro che non può parlarsi “di
cessazione dell'impresa e di inizio di una nuova
impresa, ogni volta che resti immutata la persona
dell'imprenditore e mutino, invece, alcuni degli
elementi caratterizzanti l'impresa medesima, quali ad
esempio la ditta o l'oggetto”/22) anche perché per il
codice (art. 2196) trattasi di modifiche apportate
all’impresa.
Generalmente si afferma che devono
essere cessate le operazioni “intrinsecamente identiche
a quelle poste in essere nell’esercizio
dell’impresa”(23), o gli atti del “ciclo
caratteristico”(24).
Altri sostiene che solo gli atti
tesi a “distruggere l’organizzazione aziendale”
identificherebbero realmente la fine dell’impresa(25);
la liquidazione, in particolare, afferirebbe
all’azienda, quale sua scomposizione(26).
Ma questo secondo criterio è valido
solo in teoria. Difatti solo quando l’organizzazione non
riesce ad essere più il sostrato dell’attività, essa
effettivamente cessa; infatti ben può un atto in fase di
terminazione dell’impresa essere valutato uguale a
quello svolto nel punto di massima del ciclo produttivo.
Vendere un bene in fase di liquidazione non è in sé,
ontologicamente, diverso dal bene che si vende
all’inizio dell’impresa, o nel punto di massimo storico
nella vendita di quel bene.
Per questo solitamente l’impresa si
ritiene cessi con una fase di liquidazione, in cui si
smantella il compendio dei beni, l’organizzazione creata
e finalmente cessata(27). Dunque, durante la
liquidazione l’impresa esiste ancora, solo la
“disgregazione del complesso aziendale”(28) certifica la
fine dell’impresa in modo non equivoco, oltre le
intenzioni dell’imprenditore.
Tuttavia, se questa affermazione è
vera per le imprese dotate di strutture fisiche più o
meno visibili, non avviene lo stesso per quelle che
detta struttura non possiedono.
Inizio e fine dell’impresa
sociale
In dottrina e in giurisprudenza è
comune l’affermazione secondo cui le società sono
istituzionalmente impresa, per ragioni storiche, ma
anche sistematiche.
Si è sostenuto a lungo “la
contrapposizione che è lecito istituire tra l'art. 2196
c.c., il quale impone l'inserzione nel registro delle
imprese all'imprenditore, che esercita attività
commerciale [..] e gli art. 2200 e 2201 c.c., che
assoggettano all'obbligo dell'iscrizione nel registro
delle imprese le società costituite per l'esercizio di
un'attività commerciale secondo uno dei tipi regolati
nei capi III ss. tit. V lb. V […] e gli enti pubblici
che hanno per oggetto esclusivo o principale l'attività
commerciale”(29).
Pertanto “l’impresa collettiva
nasce con la costituzione della società”; in particolar
modo, la società è una “impresa commerciale per il solo
fatto che abbia oggetto commerciale, prima ancora che
compia atti che lo realizzino” (30).
Per le società esisterebbe una
vocazione pressoché totale all’impresa, scorrendo
inseparabilmente nel piano tracciato dalla prima. Per le
società, in altre parole, non vigerebbe il principio di
effettività, poiché segnate dal “destino di essere
imprenditore”(31).
A quanto finora detto la
giurisprudenza, e la dottrina, aggiungevano che la
cessazione non si individuava con la cessazione
dell’attività, ma nella cancellazione dal registro.
Tuttavia la cancellazione poteva ottenersi solo con il
pagamento di tutti i debiti sociali(32) e “la
definizione dei rapporti tra i soci”(33). La simmetria è
chiara: la società è impresa già alla sua costituzione;
la società non è più impresa con la cancellazione,
soggetta al pagamento dei debiti.
In questo modo, la società poteva
fallire, magari per un singolo debito, sopravvenuto o
scoperto, anche molti anni dopo la cancellazione dal
registro. E’ di tutta evidenza la sperequazione rispetto
all’imprenditore individuale. Questi infatti poteva
fallire entro un anno dalla cessazione dell’attività
(art. 10 l.fall). E difatti più volte si è proposta la
questione di legittimità costituzionale, come si vedrà.
Dunque, solo per l’imprenditore
individuale valeva il principio di effettività.
La ratio del ragionamento
risiede(rebbe) nel fatto che mentre l’individuo può
essere o meno imprenditore, in base allo svolgimento di
una attività da valutarsi quale impresa, le società
nascerebbero sempre con questa finalità, perché ad esse
connaturata.
Tuttavia questa impostazione non
era per molti autori condivisibile; difatti l’articolo
2082 descrive chi è “imprenditore”, che fosse collettivo
o meno, e lo definisce come colui il quale eserciti
un’attività, al di fuori di ogni “dichiarazione
programmatica”(34), qual è, e resta, la costituzione di
una società.
La “sostanziale autonomia delle due
entità concettuali rappresentate dalla società e
dall’imprenditore”(35) è evidente, ma operare
“staticamente” solo sulle rispettive definizioni, è
inutile(36), sarà stato solo un esercizio didattico.
Infatti, l’equiparazione
imprenditore-società nasce da lontano, dall’abrogato
codice del commercio. In esso si definiva (art. 8) i
commercianti, ossia: “coloro che esercitano atti di
commercio per professione abituale e le società
commerciali”(37). E nel solco della tradizione si è
continuato a sostenere che le società sono sempre
impresa.
Tuttavia, saldo orientamento
sostiene che il fatto di esistere società che abbiano
sospeso l’attività restando, ad esempio iscritte al
registro delle imprese quali inattive, ma cui si possa
notificare un atto, è una realtà tangibile prima che dal
punto di vista normativo, da quello logico. La società,
cioè, continua ad esistere seppure quale inattiva, una
sorta di “disoccupato collettivo”?
Ad ogni modo il problema, adottando
questo orientamento, diviene l’individuazione di indici
significativi della cessazione dell’attività. In linea
di massima, si afferma, occorre effettuare una “diagnosi
di impresa” alla stessa stregua di come si procede con
le persone fisiche(38), salvo le debite differenze
dovute alla diversa figura soggettiva. Pertanto occorre
una analisi caso per caso e si rimanda a quanto detto
sopra.
Iscrizione e cancellazione nel
registro delle imprese
L’art. 2196 dispone: “Entro trenta
giorni dall'inizio dell'impresa l'imprenditore che
esercita un'attività commerciale deve chiedere
l'iscrizione all'ufficio del registro delle imprese […]
deve inoltre chiedere l'iscrizione delle modificazioni
relative agli elementi suindicati e della cessazione
dell'impresa, entro trenta giorni da quello in cui le
modificazioni o la cessazione si verificano”.
Sia per gli imprenditori
individuali che per le società di persone, l’efficacia
dell’iscrizione è pacificamente dichiarativa, ed è al
più un indizio della reale iscrizione (o
cessazione)(39); infatti l’imprenditore può ritardare o
addirittura “omettere l’iscrizione dell’avvenuto inizio
o della cessazione, sia continuare l’esercizio
dell’impresa dopo essersi cancellato”(40).
Per le società di capitali il
discorso è più complesso. Il codice prevede, per dette
società, la costituzione della personalità giuridica ex
artt. 2331, 2464 e 2475(41), attraverso l’iscrizione nel
registro delle imprese(42).
Ma i citati articoli fanno
riferimento alla società/43), alla sua persona
giuridica, non all’impresa, proprio perché il principio
di effettività è (o sarebbe?) riferibile anche alle
società di capitali.
In altre parole, l’iscrizione della
società presso il registro delle imprese è un
riconoscimento dello status di soggetto giuridico, non
l’attribuzione della qualità di imprenditore, che si
guadagna “sul campo”; il riconoscimento di una certa
capacità giuridica, non l’attribuzione della qualità di
imprenditore. Come detto in precedenza, si deve
prescindere dalla volontà del (o dei soggetti) che
pongono in essere una certa attività.
L’art. 2196 c.c. dispone anche
l’iscrizione del fatto “cessazione dell’impresa”. Ma
l’art. 2196, si sostiene in modo fermo, non è
applicabile alle società, anche se ci sono voci
contrarie.
Per le società, pertanto, non c’è
l’obbligo di depositare la cessazione dell’attività, ma
cancellazione della società. Difatti per le società di
persone (art. 2312 c.c.), si dispone l’obbligo per i
liquidatori della cancellazione dal registro; lo stesso
avviene per le società di capitali (art. 2495 c.c.).
Così procedendo, si evince che per
le società terminare il ciclo produttivo (fine attività
in senso stretto) e smantellare il compendio aziendale
(liquidazione) sono operazioni diverse anche nel loro
rispettivo valore giuridico: il primo è operazione non
formalizzata, la seconda si sostanzia nella iscrizione
della liquidazione e della cancellazione dal registro
delle imprese(44); e se le società sono, come parte
della dottrina e giurisprudenza sostengono,
istituzionalmente impresa: l’obbligo dell’art. 2196 non
può esistere, perché “l’inizio dell’impresa” è “l’inizio
della società”.
Tuttavia, il discorso è cambiato di
recente. In particolare è mutato il valore da dare alla
cancellazione dal registro per le società.
Infatti due sentenze della
Cassazione, a Sezioni Unite, sono intervenute di
recente(45); esse hanno sostenuto, schematizzando, che:
per le società di capitale il
nuovo art. 2495 “ha reso costitutiva [..] l’efficacia
della cancellazione, che provoca immediatamente
l’estinzione della compagine sociale”(46); questo
avviene a causa dell’inserimento, nel 2003, dell’inciso:
“Ferma restando l’estinzione della società” (comma 2),
che dovrebbe scaturire dall’obbligo gravante sui
liquidatori di “chiedere la cancellazione della società
dal registro delle imprese” (comma 1) e dalla
conseguenza di esso: “dopo la cancellazione i creditori
sociali non soddisfatti possono far valere i loro
crediti nei confronti dei soci” (ancora il comma 2). Si
desumerebbe che la società di capitale si estingue in
modo chiaro con la cancellazione.
Per le società di persone il
discorso è meno chiaro. Le due sentenze sostengono che
l’iscrizione e la cancellazione hanno effetto
dichiarativo, tuttavia l’art. 2312 affermando che:
“Dalla cancellazione della società i creditori sociali
che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro
crediti nei confronti dei soci”, fa sì che anche per le
società, estinta la capacità processuale venga meno la
soggettività giuridica (anche se non ‘entificata’).
L’art. 2495, in pratica, “ammanta
dei suoi effetti anche le società di persone” (47),
originando una conseguenza imprevista, diciamo pur così,
anche per le società di persone.
In effetti l’art. 2495 c.c. è molto
interessante anche perché da esso sembra desumersi
ancora l’equipollenza tra cessazione e
cancellazione(48). Ma questo consegue anche alla logica:
affermare che l’iscrizione ha effetto dichiarativo non
può trasformare la cancellazione in efficacia
costitutiva(49), anzi potrebbe avere un vero effetto
presuntivo della cessazione dell’impresa(50)
Il termine iniziale del
fallimento
L’art. 10 della legge fallimentare,
come modificato dalla L. 5/06 e dal D.lgs 169/07,
dispone: “Gli imprenditori individuali e collettivi
possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese, se
l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla
medesima o entro l’anno successivo.
In caso di impresa individuale o di
cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi,
è fatta salva la facoltà per il creditore o per il
pubblico ministero di dimostrare il momento
dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre
il termine del primo comma”(51).
Si deduce che il dies a quo
coincide con la cancellazione dal registro delle
imprese, ma può essere spostato nel caso in cui
(creditore o P.M.) dimostrino un termine effettivo
differente(52).
Ma è davvero così?
Secondo parte della dottrina,
infatti, la novella all’art. 10 nega il principio di
effettività, che è stato per l’imprenditore individuale
limitato, e per le società praticamente escluso(53).
Invero nel primo caso solo il
creditore (o il P.M.) può disporre di un termine diverso
per il fallimento, mentre per le società c’è l’ulteriore
condizione che (creditore o P.M.) possono dimostrare
l’effettiva cessazione solo nel caso di “cancellazione
di ufficio degli imprenditori collettivi” (ex DPR
247/04).
In questo modo, si sostiene, si
sarebbe tornati alla equiparazione società-impresa al
momento della iscrizione-cancellazione nel registro, in
base all’oggetto sociale, anche perché una società
commerciale che esercita in fatto attività agricola non
può farsi fallire solo perché società commerciale(54).
Specie a seguito della modifica
dell’art. 2495 c.c., in pratica, la cancellazione della
società pare essere “la definitiva ed irreversibile
estinzione della società”(55). La giurisprudenza, del
resto, non è affatto indifferente a questo orientamento
come già riportato sopra.
Altra dottrina, invece, sostiene
che il nuovo art. 10 è una vera novità, tanto chiesta in
passato; prima della modifica, specie in giurisprudenza,
l’applicabilità dell’art. 10 alle società era
praticamente “ignorato” (56).
In questo modo: “oggi la
cancellazione dal registro delle imprese è condizione
necessaria affinché l’imprenditore individuale o
collettivo benefici del termine annuale per la
dichiarazione di fallimento”(57).
In altre parole il termine annuale
è presuntivamente identificato nella cancellazione dal
registro delle imprese(58) perché non esiste una norma
che istituzionalizzi l’impresa nella società tramite “il
superamento della nozione di imprenditore delineata
nell’art. 2082 c.c.”(59).
Resta il problema delle società
irregolari e di quelle occulte su cui molto si
discute(60).
Il sistema. Conclusioni
Si tracciano di seguito brevi
conclusioni. Nell’opinione di chi scrive, per concludere
il discorso fin qui portato, il sistema si può così
ricomporre:
l’inizio e la fine dell’impresa
devono essere sorretti dal principio di effettività, a
prescindere dal soggetto che diviene imprenditore;
l’efficacia dell’iscrizione o
della cancellazione dal registro delle imprese invece è
diversa a seconda del soggetto:
per gli imprenditori
individuali vale sempre l’effettività dell’esercizio,
cui deve corrispondere una situazione notiziale
aggiornata nel registro, anche perché sanzionata a
diverso titolo; inoltre per questi sussiste un dovere
esplicito derivante, come detto, dall’art. 2196 del
codice;
per le società di persone
restano dichiarative la cancellazione e l’iscrizione;
facendo presumere che effettivamente l’attività inizi o
cessi in pari data, ma può aversi prova contraria ai
sensi dell’art. 10 legge fallimentare(61);
per le società di capitali
la cancellazione (e l’iscrizione) fa estinguere la
società, ma la cessazione è, a sua volta, rinvenibile in
punto di fatto ad un tempo successivo, stante ancora
l’articolo da ultimo citato, ai fini del fallimento.
Da tutto quanto detto, si evince
una certa “logica di sistema”, che coniuga l’affidamento
dei terzi con l’effettivo esercizio, o meno,
dell’attività d’impresa da parte dell’imprenditore.
(1) Cass. 29/01/1973, n. 273.
(2) Ferri, Manuale di Diritto
Commerciale, 34, 2006.
(3) Del resto “l’espressione
‘inizio dell’impresa’ compare una sola volta nella
nostra legge, nell’art. 2196 c.c.” insegnava lo Jaeger
nel 1966 in un importante articolo: “Note critiche
sull’inizio dell’impresa commerciale”, in Rivista di
diritto civile, p. 756.
(4) Sul punto bene: Spada, Impresa,
60, Dig. Disc. Priv., Sez. Comm.
(5) Alpa-Mariconda, Art. 2082, in
Codice civile commentato , 2005.
(6) Ferri, Manuale di Diritto
Commerciale, 32, 2006.
(7) Non conforme appare: Galgano,
Diritto Commerciale, I, 63, 2008.
(8) Riva-Sanseverino, in
Commetario del Codice civile Scialoja-Branca, Libro V,
Art. 2082147, 1969.
(9) Campobasso, Diritto
Commerciale, I, 99, 2008; in giurisprudenza cfr. Cass.
17/03/1997, n. 2321.
(10) Spada, Impresa, 60, Dig. Disc.
Priv., Sez. Comm.; similmente: Buonocore, Imprenditore,
in Enciclopedia del diritto, Vol. XX, par. 2, 1970;
Graziani-Minervini-Belviso, Manuale di diritto
commerciale, 64, 2011.
(11) Campobasso, Op. cit., loc cit.
(12) Lucidamente: per il fatto
giuridico “la giuridicità è conseguenza del mero
verificarsi dell’evento naturale”, mentre l’acquisto
della qualità imprenditore è conseguenza che “la legge
ricollega unicamente alla reiterazione degli atti”
professionalmente svolti, a prescindere dalla volontà
dello stesso soggetto (Buonocore, L’impresa, 100 ss, in
Trattato diritto commerciale diretto da Buonocore);
pertanto l’impresa è un fatto giuridico non un atto,
diversamente da quanto disposto nell’abrogato codice del
commercio (art. 3); tuttavia la questione non è così
semplice, perché altri ha opinato per l’impresa come
atto (cfr. sul punto: Panuccio, Impresa (dir. priv.), in
Enc. Dir., XX, par. 19, 1970).
(13) Alpa-Mariconda, Art. 2082, in
Codice civile commentato , 2005.
(14) AA.VV, Art. 2082, Codice
civile ipertestuale, 2006.
(15) Il principio oggi trova
riscontro nominale anche nel nuovo art. 10 l.
fallimentare, come si vedrà.
(16) “Affinché si abbia l’impresa
[…] è necessaria l’effettività dell’esercizio” insegnava
il Casanova, in Impresa ( in generale), in Nuov.
Digesto It., 354.
(17) Galgano, Op. cit., loc. cit.
(18) Cass. 19/06/2008, n. 16612.
(19) Campobasso, Op. cit., 102;
similmente Galgano, Op. cit., 65.
(20) (Cass. 13/08/2004, n. 15769).
(21) AA.VV., Diritto Commerciale,
2010, 11.
(22) Buonocore, Op. cit. par. 16.
(23) Cass. 17/03/1997, n. 2321.
(24) Lubrano di Scorpaniello,
Cessazione dell’impresa e procedure concorsuali, 2005,
69.
(25) AA.VV., Diritto Commerciale,
11, 2010.
(26) F. Ferrara, Il fallimento,
122, 1974.
(27) Cfr. Buonocore: “il
comprendere nell'attività di esercizio dell'impresa le
operazioni di realizzo attraverso la vendita dei beni
non dipende […] soprattutto dalla circostanza che solo
dopo il compimento di tale fase potrà considerarsi
verificato quel fatto irrevocabile che, nella specie, è
la cessazione dell'impresa. E, di conseguenza, dal
momento del compimento della fase predetta potrà
parlarsi effettivamente di cessazione dell'impresa,
intesa sia come cessazione di attività, sia come
disgregazione del complesso aziendale” (Imprenditore,
in Enc. Dir., par. 20, 1970).
(28) Galgano, Dir. Comm., cit., 65.
(29) Andrioli, Fallimento (dir.
priv. e dir. proc. civ.), in Enciclopedia del diritto,
Vol. XVI, par. 12, 1968; il medesimo autorevole
scrittore aggiunge: “Che poi la società, pur essendo
tenuta all'iscrizione nel registro, non ottemperi a tale
obbligo, è vicenda che non incide sull'acquisizione
della qualità d'imprenditore e quindi sulla generica
soggezione al fallimento, sol se si tratti di società in
nome collettivo e in accomandita semplice (art. 2297,
2317 c.c.), non già se si tratti di società di capitali,
per le quali la personalità giuridica segue
all'iscrizione nel registro, e per le operazioni
compiute in nome della società prima dell'iscrizione
sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i
terzi coloro che hanno agito (art. 2231, 2464, 2475
c.c.)”
(30) Cass. 28/04/2005, n. 8849.
(31) Graziani-Minervini-Belviso,
Op. cit., 65.
(32) Pajardi, Codice del
fallimento, sub. art. 10, 2, 2009.
(33) Campobasso, Op. cit., 104.
(34) Cfr. Campobasso, Op. cit.,
100.
(35) Farina, L’acquisto della
qualità di imprenditore, 222, 1985.
(36) Farina, Op. cit., 223.
(37) Del resto l’art. 76 disponeva:
“le società commerciali hanno per oggetto uno o più atti
di commercio”.
(38) Farina, Op. cit., 306.
(39) Naturalmente se non si dà per
scontata la più volte citata teoria tradizionale secondo
cui la società è sempre impresa.
(40) Lubrano di Scorpaniello, Op.
cit.,49. Gli effetti del ritardo e dell’omissione sono,
naturalmente diversi, ma sul punto non possiamo
dilungarci.
(41) Nel disposto dell’art. 2331 si
ha un caso di c.d. pubblicità costitutiva, ossia è
l’iscrizione a dare la personalità giuridica alle
società di capitali. La formulazione della norma è
“equivoca” per Pavone La Rosa, Il registro delle
imprese, 102, 2004, ma unanimemente interpretata come
sopra.
(42) Per le società di persone è il
contratto costitutivo l’atto fondante, e il suo deposito
presso il registro delle imprese ha valore solo di
pubblicità dichiarativa appunto, cui nulla aggiunge in
termini di efficacia-costituzione la registrazione.
(43) Lubrano di Scorpaniello, Op.
cit. loc. cit.
(44) Cfr. molto bene sul punto:
Lubrano di Scorpaniello, Op. cit. 72 ss.
(45) SS.UU. 22/02/2010, n. 4060 e
09/04/2010, n. 8424).
(46) Ghia-Piccinini-Severini,
Trattato delle procedure concorsuali, I, 105, 2010).
(47) Ghia-Piccinini-Severini, Op.
cit., 104.
(48) Tuttavia le citate sentenze
sembrano divergere nell’efficacia da attribuirsi alla
cancellazione, per una è dichiarativa per l’atra
costitutiva (Ghia-Piccinini-Severini, Op. cit., 106).
Infatti la Cassazione a Sezioni Unite ha sostenuto,
nella sentenza di febbraio, che: “La natura costitutiva
riconosciuta per legge a decorrere dal 1 gennaio 2004,
degli effetti delle cancellazioni già iscritte e di
quelle future per le società di capitali che con esse si
estinguono, comporta, anche per quelle di persone, che,
a garanzia della parità di trattamento dei terzi
creditori di entrambi i tipi di società, si abbia una
vicenda estintiva analoga con la fine della vita di
queste contestuale alla pubblicità, che resta
dichiarativa degli effetti da desumere dall’insieme
delle norme pregresse e di quelle novellate, che, per
analogia iuris determinano una interpretazione nuova
della disciplina pregressa delle società di persone”. In
pratica le società si estinguono con la cancellazione.
Invece, molto di recente si è
stabilito: “L’articolo 2495 comma 2 del codice civile,
così come modificato dal Dlgs 6/2003 ed in vigore dal 1°
gennaio 2004, sostituendo il previgente articolo 2456
del codice civile, prevede che dopo la cancellazione
della società, la stessa si estingue”; pertanto: “I
creditori sociali non soddisfatti possono far valere i
loro crediti nei confronti dei soci, fino alla
concorrenza delle somme da questi riscosse in base al
bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei
liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa
di questi”; ne consegue che: “In sostanza, viene sancito
l’effetto costitutivo dell’estinzione della società al
momento dell’iscrizione della cancellazione nel registro
delle imprese, indipendentemente dall’esaurimento o meno
del procedimento di liquidazione e dal persistere o meno
di debiti o crediti sociali” (Trib. Piacenza,
14/04/2011); sostenendosi l’efficacia costitutiva della
cancellazione.
(49) Rossano, La cancellazione dal
registro delle imprese e le società di persone, in
Giurisprudenza, Commerciale, 715, luglio-agosto 2010.
(50) Rossano, Op. cit., 716. Ne
consegue che l’articolo 10 della l. fall. “assume un
identico rilievo per tutte le società”, scrive ancora
l’autore.
(51) La modifica si è avuta a
seguito della dichiarazione di incostituzionalità, in
particolare si veda Corte Cost. 20/05/2000, n. 319 in
Giurisprudenza Italiana., 2000, 1857.
(52) Secondo logica l’art. 2196 e
l’art. 10 della l.fall. sono connessi. L’uno dice che
l’imprenditore deve dichiarare l’inizio dell’impresa,
l’altro che dalla cancellazione decorre il termine per
il fallimento. Oggi con l’istituto dell’impresa
individuale inattiva (con la Bersani-bis) la connessione
diventa più forte. Infatti entrambi gli articoli mettono
in luce la funzione-finzione della pubblicità che reca
il registro delle imprese, ma in una ottica particolare:
il fatto dichiarato non esiste nella realtà. L’art. 2196
dovrebbe negare l’esistenza dell’impresa individuale
inattiva, poiché parla di obbligo di denunciare l’
“inizio dell’impresa”; ma se “inizio dell’impresa” viene
intesa quale operazioni prodromiche all’attività (i
cc.dd. atti di organizzazione), l’impresa c’è, manca
invece l’attività.
In altre parole “inizio di impresa”
sarebbe cosa diversa da “inizio dell’attività”.
In realtà la differenza
terminologica è tenue. Forse inizio dell’impresa e
dell’attività non sono differenti, nelle intenzioni del
legislatore, anche perché l’iscrizione in registri
pubblici non è prova di impresa, o attività, ma indizio
di intenzioni, come si è detto sopra.
L’art. 10 l.fall., quasi
all’opposto, fa dichiarare un fatto (la cancellazione
dell’impresa) che potrebbe non essere avvenuto nella
realtà.
(53) Guglielmucci, Diritto
fallimentare, 36, 2011.
(54) Si avrebbe, in pratica, la
“coincidenza della liquidazione formale della società
con quella sostanziale” (Pajardi, Op. cit., 5).
(55) Galgano, Dir. Comm., cit.,
421.
(56) Pellegrino, Fallimento delle
società, 166, 2007.
(57) Campobasso, Op. cit., 105.
(58) Campobasso, Op. cit., 105.
(59) La citazione è tratta da Jorio
(Osservazioni in tema di società […], in Rivista di
diritto civile, 1968, 83 s.) che condanna una decisione
di apertura di fallimento per una società che non aveva
effettivamente iniziato l’impresa ma effettuato atti di
garanzia; all’ autore si rimanda per tutta la materia
dell’art. 10 l.fall. ante riforma, dato la grande
attenzione che ha dedicato al tema anche in scritti
successivi.
(60) Per alcuni il termine decorre
“dalla data della effettiva liquidazione di tutti i
rapporti” (Pellegrino, Op. cit., 169 s.).
(61) Resta salvo il caso di
iscrizioni di società inattive, cui si affida in futuro
la dichiarazione di inizio di attività. |