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Lobbismo e trasparenza, cominciamo da un registro? di Gianluca Sgueo

 

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Il 17 febbraio si è svolto a Roma un convegno sul lobbismo e la rappresentanza di interessi professionale in Italia. Il titolo - ”L’attività di lobbying, tra trasparenza e partecipazione” - era accattivante. Sembrava voler evocare lo stretto legame che esiste (o dovrebbe esistere) tra i professionisti della rappresentanza di interessi, le istituzioni pubbliche, la trasparenza e il circuito democratico. Tanti gli argomenti e le domande da discutere. Ne cito alcuni, senza pretesa di esaustività: un sistema democratico beneficia dal lobbismo? Cosa fare per incentivare la trasparenza nella rappresentanza professionale degli interessi? Perchè in Italia i lobbisti non sono una categoria professionale riconosciuta? Quali sviluppi normativi dobbiamo attenderci per la categoria dei lobbisti?

Non tutte le domande hanno trovato una risposta adeguata. Nè era questo lo scopo dell’incontro. Dal dibattito sono però emerse almeno due prospettive. La prima è che in Italia (come anche negli Stati Uniti e presso le istituzioni comunitarie) il lobbismo è parte integrante dei processi decisionali. I lobbisti sono, in altre parole, un elemento fondamentale del complesso motore delle istituzioni. In mancanza di questi, verrebbe meno un tassello essenziale del mosaico dei processi decisionali. La seconda considerazione è, forse, ancora più interessante: in Italia (a differenza degli Stati Uniti e dell’Unione europea), l’assenza di regolazione normativa per la categoria dei lobbisti suscita reazioni molto diverse, addirittura contrapposte. Per alcuni (nel convegno la minoranza, ma è verosimile pensare che siano molti di più) la de-regolazione è uno status del quale è bene non fare a meno. Diversamente, questi sostengono, si andrebbe a incidere negativamente sulla snellezza dei processi decisionali e sul contenimento dei tempi e delle spese. La creazione di commissioni, gruppi di lavoro, audizioni e registri dei lobbisti, di fatto finirebbe per “ingessare” le strutture decisionali. Più di quanto non lo siano già. Per altri, che invece nel convegno erano in larga maggioranza, una regolazione trasparente (”alla luce del sole”, per dirla in gergo giornalistico) rappresenta non soltanto un vantaggio per la categoria, ma un vero e proprio dovere per l’agenda del Legislatore. Una regolazione trasparente sarebbe, a detta di costoro, il primo passo per adeguare le logiche di base del funzionamento del sistema politico-istituzionale italiano a quello delle altre grandi democrazie e, soprattutto, favorire il merito e la competenza di chi per professione fa il lobbista (con tutte le ricadute positive sulla qualità delle decisioni pubbliche, che di quel merito e competenza sarebbero le prime beneficiarie).

La tentazione di schierarsi a favore della seconda ipotesi è forte. Ci sono però tante considerazioni da fare, alcune possibiliste, altre necessariamente critiche. Comincio con un aneddoto personale. Ricordo che quando presentai la mia candidatura per un internship presso la Commissione europea, mi venne spiegato che la procedura di selezione dei candidati non si basa esclusivamente sul merito. Quest’ultimo è ovviamente importante, ma, da solo, non garantisce il successo. Dopo un primo screening dei curricula effettuato dalla Commissione, infatti, si viene inseriti nel “bluebook“. Questo non è altro che un voluminoso file excel in cui sono riportati tutti i dati essenziali dei candidati selezionati (età, titolo di studio, lingue conosciute, ecc.) dal quale i funzionari delle diverse Direzioni Generali sono liberi di attingere scegliendo i candidati che più rispondono alle loro esigenze. Tuttavia, poiché il tempo per la scelta è poco (i tirocini presso la Commissione durano mediamente 6 mesi, e ad ogni tornata subentrano centinaia di nuovi candidati) e le competenze sono tutte più o meno equivalenti, la Commissione accoglie di buon grado lo spirito propositivo dei candidati. In altre parole, nella fase di “interregno” del bluebook i candidati che generalmente ottengono il posto sono quelli che mostrando spirito di iniziativa hanno cercato di individuare la Direzione Generale più vicina alle loro competenze/aspirazioni, hanno individuato i referenti e si sono messi in contatto con loro, per mail o per telefono, proponendo la propria candidatura spontanea.

Quello della Commissione è un buon esempio di logica del lobbismo che si presta a valutazioni ambigue. Da una parte c’è un processo di selezione che assicura solo ai più meritevoli l’accesso. Dall’altra c’è un incentivo forte a coloro i quali, oltre al merito, mostrino capacità analitica e, si direbbe dalle nostre parti, un poco di “faccia tosta”. Un sistema che però funziona solamente dove i criteri guida sono trasparenti e il rischio di corruzione minimo, o inesistente. Questo è il primo punto a favore di una regolazione più trasparente del lobbismo, ma anche un monito al Legislatore che decidesse di intervenire sulla materia. Incentivare la trasparenza senza prevedere un adeguato sistema di controllo e sanzioni (e, direi, anche un filtro all’ingresso, per evitare che chiunque possa inventarsi lobbista) significa condannare alla morte qualsiasi iniziativa di questo tipo. Di qui un secondo ordine di perplessità. Di cosa è fatto un buon lobbista? Direi, approssimando, di esperienza e conoscenza delle istituzioni con le quali si confronta, di preparazione tecnica, di una buona capacità di mediazione. Doti aggiuntive sono l’onestà, la lungimiranza e la trasversalità. Della prima non si può fare a meno, salvo voler implicitamente ammettere l’idea che chi collabora con le istituzioni partecipa anche alla spartizione degli utili. La lungimiranza è necessaria per non smarrire la rotta e saper prevedere le oscillazioni del dibattito politico (e, quindi, saper scegliere i tempi più adatti per l’approvazione di una norma). La trasversalità serve al lobbista per evitare di essere associato a correnti politiche e costruire la propria fortuna (o miseria) sulla base di quelle. Evidentemente siamo molto lontani dall’avere una categoria professionale coesa come quella appena descritta. Esistono tanti lobbisti che hanno tutte le carte in regola, ma tanti sono anche quelli che non le hanno. Non è chiaro se esistano e quali siano gli organi di rappresentanza della categoria. Non sono chiare le qualifiche professionali (raramente, anzi mai, mi è capitato in Italia di ricevere il biglietto da visita di un lobbista che si dichiarasse tale). Non c’è certezza circa le associazioni che fanno lobbismo. Think tanks, enti no profit, partiti politici, associazioni di categoria e sindacati: potenzialmente tutti e nessuno di questi soggetti potrebbe associare lobbisti. Infine, benché siano oramai molti (e spesso prestigiosi) i corsi di formazione in materia, è altrettanto vero che non esistono chiari criteri di certificazione della qualità. Quindi, per ipotesi, vale tanto il master alla Luiss quanto quello organizzato da una sconosciuta associazione.

Cosa fare? Qualcosa si è mosso, non a livello nazionale dove le opposizioni all’idea di un lobbismo trasparente (che cioè risolva tutti i nodi espressi in precedenza) sono forti, ma a livello regionale. Ad oggi sono tre le Regioni che hanno scelto di intervenire sulla materia, l’ultima delle quali è l’Abruzzo. Il 14 dicembre 2010 il Consiglio regionale dell’Abruzzo ha approvato la “Disciplina sulla trasparenza dell’attività politica e amministrativa e sull’attività di rappresentanza di interessi particolari“. La legge è frutto del lavoro del Consigliere Ricardo Chiavaroli, classe 1963, in forza nel PDL. Al di là del colore politico, il tentativo è meritevole di encomio perché prova a intervenire sui punti deboli del lobbismo: la trasparenza (che Chiavaroli prova ad accrescere cominciando da un registro ufficiale, ma anche un sistema di controlli e sanzioni) e la partecipazione (coinvolgendo cioè piccoli e grandi gruppi di pressione nei processi decisionali, affinché le decisioni prese siano realmente condivise e democratiche).

Non è ancora il momento di dire se l’esperimento dell’Abruzzo saprà funzionare (come pure alcuni hanno fatto, esprimendo giudizio negativo), troverà emuli e porterà alla regolazione a livello nazionale. Per ora, avendone tessuto le lodi, mi limito a registrarne le difficoltà (che, peraltro, sono valide non solo per l’Abruzzo ma per tutto il panorama italiano). La prima difficoltà è tecnica: tradurre il prima possibile la legge in fatti, attraverso i necessari regolamenti di attuazione. In mancanza di questi avremo un bel contenitore privo di sostanza. C’è poi una difficoltà ancora maggiore, ed è culturale. Si tratterà di cambiare anzitutto l’impostazione mentale degli amministratori, poi quella dei lobbisti (non tutti, ma molti) e infine quella dei cittadini (per cui lobby significa cricca). Non saprei dire se basterà una legge per farlo o se sarà opportuna un’intensa attività di comunicazione.

Per inciso, tornando alla mia esperienza alla Commissione. Alla fine non partecipai al programma di internship a Bruxelles, ma venni selezionato dal Mediatore europeo a Strasburgo. Qui la selezione si svolge interamente sul merito, senza spazi per il lobbismo di se stessi. Le vecchie abitudini sono dure a morire…

 

 

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