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Frammenti di biodiritto-Articolo di  Giuseppe Morano

 

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Giurisprudenza e legislazione del XXI secolo: la grande sfida della regolazione e normazione di aspetti essenziali della vita rimessi in discussione dal progresso tecnologico.

La nascita e l’evoluzione della tecnoscienza , ovvero di quella disciplina capace di applicare le scoperte scientifiche teoriche alla tecnica, è stata in grado di creare macchinari e procedimenti tesi ad incidere sulla vita di ognuno di noi, addirittura prolungandola o creandola.

La biotecnologia va quindi regolata, affinchè il progresso migliori la vita di tutti senza però rischiare di travolgere gli aspetti più naturali ed intimi dell’ esistenza umana.

L’aspetto più interessante (ma stesso tempo più insidioso), nell’ ottica del giurista, è , però, quello relativo all’ incidenza che hanno le biotecnologie sui casi concreti della vita umana ingenerando nuove posizioni giuridiche soggettive e facendo sorgere nuove aspettative e nuovi pretesi biodiritti, rientranti nella galassia dominata da un simbolico, ma al contempo labile e generico, “diritto alla felicità”.

Questo diritto è presente nella Dichiarazione di Indipendenza Americana del 4 luglio 1776 dove si legge che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità».

Il documento stabilisce, così, che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre, le istituzioni pubbliche, si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza. Viene dunque recepito un catalogo dei diritti di matrice giusnaturalistica ed ad esso si aggiunge la felicità come fine ultimo che ciascun individuo è chiamato a perseguire liberamente con le sue scelte, contemperandolo però con il diritto alla vita ed alla libertà altrui. Nella costruzione dello Stato di matrice europea, è prevalso, invece, un ordine politico prevalentemente razionale, che ruota intorno ai dominanti concetti di libertà e di diritto: la libertà, che consiste nella possibilità per ciascun individuo di ricercare la sua felicità per la via che gli sembrerà migliore deve pertanto non rendere pregiudizio alla libertà degli altri; il diritto, invece, deve recepire e codificare questo valore. La libertà del singolo individuo non è illimitata, ma si connette alla libertà degli altri individui tramite il concetto di solidarietà sociale (art. 2 cost. It.).

Descritto il perimetro esterno nel quale si viene a collocare il “biodiritto”, si deve adesso evidenziare come esso si componga delle varie norme incidenti “sulla vita” e “sulle scelte relative alla vita”, venendosi così ad incastonare tra i tradizionali settori del diritto di famiglia e del diritto delle successioni.

Del resto, già il Santi Romano, aveva preconizzato nella teoria sulla pluralità degli ordinamenti giuridici, la frammentazione e la settorializzazione del diritto. Questa, sarebbe stata inarrestabile proprio in quanto legata alle continue evoluzioni scientifiche e sociali alle quali il diritto non avrebbe potuto sottrarsi, per non perdere l’ aspirazione a garantire una completa, ordinata ed armonica vita civile.

Dunque, se si cataloga il biodiritto come nuova branca del diritto civile, non si può non scorgere i suoi portati essenziali proprio in quelle recentissime ed attualissime normative e costruzioni pretorie inerenti alla clonazione, alla fecondazione assistita, al testamento biologico e al divieto di accanimento terapeutico, tutti risvolti nati dallo sviluppo, dall’ evoluzione costante e dall’ influsso che le biotecnologie stanno avendo sui diversi aspetti della vita umana.

Si può partire dal caso Welby per vedere chiaramente come il confine tra eutanasia e rifiuto dei trattamenti medici sia molto sottile e complicato.

Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare progressiva, era nella fase terminale della sua malattia; egli, a seguito di ciò, presentò ricorso al Tribunale di Roma per ottenere l'interruzione delle cure che lo tenevano in vita, attraverso il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale.

Il caso Welby, in punto di diritto, non ha a che fare ne' con il testamento biologico, ne' con la liberta' di scelta terapeutica. Infatti, Welby, era capace di intendere e di volere ed in quanto tale, la legge proteggeva il suo diritto di decidere se e quando rifiutare qualsiasi intervento esterno sulla propria persona (art. 13 e 32 Cost. It.).
Welby aveva dunque la legittima facoltà di chiedere che le macchine che lo tenevano in vita gli fossero tolte integralmente rifiutando il proprio consenso al trattamento terapeutico.
Chiunque avesse negato tale diritto, si sarebbe posto in contrasto con le norme di rango costituzionale e penale che vietano ogni trattamento sanitario su persona capace di intendere e di volere che non abbia espresso il proprio consenso agli stessi. Chiunque disattendesse queste volonta' , continuando a somministrare le terapie senza aver previamente acquisito il consenso, sia esso medico o familiare, sarebbe penalmente punibile per violenza privata o lesioni volontarie e, probabilmente, incorrerebbe anche nel divieto di trattamento disumano previsto dall'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

Come mai dunque tanto clamore?

Il caso era giuridicamente abbastanza lineare se non fosse stato per il fatto che Welby voleva realizzare la propria morte certamente tramite la legittima sospensione delle cure, ma, in modo improprio. Egli, infatti, chiedeva che le forme di abbandono terapeutico connesse al distacco del ventilatore artificiale si trasformassero nel diritto a vedersi erogato l’ “aiuto della dolce morte", vietata dal codice penale come omicidio del consenziente. In sostanza, Welby, chiedeva una diversa modalita' di esercizio di un suo diritto fondamentale che, se negata, lo avrebbe costretto ad una morte più lenta e prolungata, ma naturale.

Questa pretesa diversa modalità, non è tollerata dal nostro ordinamento e costituisce anche una forma di abuso del diritto , intentendosi con tale formula, un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto del diritto soggettivo, il cui riconoscimento implica l’attribuzione al soggetto di una duplice posizione, di libertà e di forza. Si ha abuso, nel caso di uso anormale del diritto, che conduca il comportamento del singolo fuori della sfera del diritto soggettivo esercitato, per il fatto di porsi in contrasto con gli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico positivo. Pretendere una “sedazione terminale”, quindi una sedazione che “conduce ad una determinata e premeditata morte” e non che “accompagna verso la morte naturale”, equivale ad ammettere forme di eutanasia attiva che contrasterebbero col codice penale ma soprattutto con i diritti fondamentali ed inviolabili della persona, alla vita ed alla salute ex art. 2 e 32 Cost. It..

In caso di malattia, difatti, ogni paziente può legittimamente non prestare il proprio consenso ai trattamenti terapeutici proposti. L’ art. 32 Cost. It. Al comma 2 prevede, a tal proposito, che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Questa disposizione se letta in combinato disposto con le norme sulle cure palliative (oggi armonizzate nella legge 38/2010), consente al paziente di non sottoporsi a trattamenti sanitari invasivi in grado di prolungargli inutilmente la vita ed al contempo garantisce, allo stesso paziente, il diritto ad essere accompagnato “verso la morte naturale” con la minor sofferenza possibile, per il tramite delle terapie del dolore. Le cure palliative, difatti, si sostanziano in interventi terapeutici volti a sopprimere, alleviare e controllare il dolore in persone affette da malattie caratterizzate da un’ evoluzione inarrestabile verso esiti infausti e sono, su richiesta del paziente, pienamente somministrate nelle strutture del servizio sanitario nazionale. Dunque, il nostro ordinamento ben riconosce il diritto a lasciarsi morire seguendo il decorso naturale della malattia, senza doversi sottoporre ad inutili forme di accanimento terapeutico e, riconosce altresì, il diritto del paziente a non soffrire, garantendo le terapie del dolore.

Quanto detto è frutto della primazia che lo Stato dà al bene vita ed al bene salute, presupponendo il diritto a morire in modo naturale; non è consentito al singolo individuo di scegliersi la morte che più gli aggrada e pretendere che lo stato gliela somministri.

Si deve adesso transitare dalla tematica di biodiritto inerente al divieto di accanimento terapeutico, a quella del cosiddetto testamento biologico (o meglio D.A.T. come si vedrà in seguito) , ovvero alle forme di dissenso ai trattamenti terapeutici manifestate da colui che è attualmente capace di intendere e di volere, e che dispone per il caso e per il tempo in cui non lo dovesse più essere.

Per un’ analisi completa di tali concetti giuridici, non si può non partire da un altro caso concreto: il caso Englaro.

Eluana Englaro, a seguito di un terribile incidente entrò in una condizione di “stato vegetativo permanente”, o, meglio ancora, “persistente”.Infatti, secondo la scienza medica, lo stato vegetativo è una condizione di possibile evoluzione del coma caratterizzata dalla ripresa della veglia, senza contenuto di coscienza e consapevolezza di sé e dell'ambiente circostante.

Lo stato vegetativo viene definito persistente (stato vegetativo persistente, SVP) - in inglese Persistent Vegetative State (PVS) - se protratto nel tempo e, permanente, quando si presume che sia irreversibile. Esistono oggi tuttavia ancora molte controversie sia da un punto di vista medico che legale sul fatto che questa condizione sia davvero irreversible o meno, ciò è legato al fatto che in, seppur rarissimi casi, si sono verificati risvegli da tale stato anche dopo venti anni. Lo stato vegetativo va distinto sia sul piano clinico che giuridico, dalle condizioni definite come morte cerebrale o coma irreversibile. In questi casi è presente la completa ed irreversibile perdita di attività dell'encefalo, confermata dalle registrazioni elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali correlate, fra cui l'attività respiratoria. La morte cerebrale è, quindi, una condizione completamente diversa dallo stato vegetativo, che non viene riconosciuto come morte in nessun sistema legale.

La Englaro, a seguito di tale situazione patologica, non poteva alimentarsi ed idratarsi in modo naturale ed autonomo e, per ovviare a ciò, si procedeva a somministrare i trattamenti vitali tramite un sondino naso gastrico.

Il tutore della ragazza (il padre), nella convinzione che tale stato della figlia fosse ormai irreversibile e che mai la ragazza, per le sue convinzioni etiche e morali, avrebbe voluto prolungare inutilmente una vita che tale più non era, fece ricorso alla magistratura per ottenere la sospensione dei trattamenti di alimentazione ed idratazione. Il punto giuridico rilevante di tale vicenda riguarda due questioni: i poteri del tutore nell’ esercizio dei diritti personalissimi dell’ incapace e la valenza della volontà presunta dell’ incapace .

La suprema Corte di Cassazione, con sentenza 21748/2007 ha risolto le questioni sollevate enucleando un principio di diritto valevole per tutte le situazioni simili a quella in cui si trovava la Englaro. Esso stabilisce che: Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti:

(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno;

e

(b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.

Riguardo la legittimazione del tutore ad avanzare tali richieste in nome e per conto dell’ incapace, la Suprema Corte argomenta parte dall’art. 357 cod. civ., il quale, viene letto in connessione con l’art. 424 cod. civ. e prevede che «Il tutore ha la cura della persona» dell’interdetto, investendo, così , la figura del tutore, della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell’incapace. Poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 e ss. cod. civ., introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina contenere l’indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405, quarto comma, cod. civ.).

A conferma di tale lettura delle norme del codice può richiamarsi la sentenza 18 dicembre 1989, n. 5652, con la quale si è statuito che, in tema di interdizione, l’incapacità di provvedere ai propri interessi, di cui all’art. 414 cod. civ., va riguardata anche sotto il profilo della protezione degli interessi non patrimoniali, potendosi avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione della volontà del soggetto con quella della persona nominata tutore pure in assenza di patrimoni da proteggere.

Ad ulteriore sostegno, la Suprema Corte, richiama alcune disposizioni sulla rappresentanza legale in ordine alle cure e ai trattamenti sanitari.

Secondo l’art. 4 del d.lgs. 24 giugno 2003, n. 211 (Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico), la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che non hanno dato o non hanno rifiutato il loro consenso informato prima che insorgesse l’incapacità, è possibile a condizione, tra l’altro, che «sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante»: un consenso – prosegue la norma – che «deve rappresentare la presunta volontà del soggetto». Ancora, l’art. 13 della legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge 22 maggio 1978, n. 194), disciplinando il caso della donna interdetta per infermità di mente, dispone che : la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza, sia entro i primi novanta giorni, che trascorso tale periodo, può essere presentata, oltre che dalla donna personalmente, anche dal tutore; che nel caso di richiesta avanzata dall’interdetta deve essere sentito il parere del tutore; che la richiesta formulata dal tutore deve essere confermata dalla donna.

In tale argomentare, la Corte di Cassazione, prova a stabilire i limiti dell’intervento del rappresentante legale.

Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che come già precisato nell’ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291, la libertà di rifiutare le cure “presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive”. Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. L’uno e l’altro vincolo al potere rappresentativo del tutore hanno, un referente normativo: il primo nell’art. 6 della Convenzione di Oviedo, che impone di correlare al «bénéfice direct» dell’interessato la scelta terapeutica effettuata dal rappresentante; l’altro nell’art. 5 del d.lgs. n. 211 del 2003, ai cui sensi il consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica deve corrispondere alla presunta volontà dell’adulto incapace.

Non v’è dubbio che la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a preservarne e a tutelarne la vita.

Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte.

L’ art. 357 c.c stabilisce che il tutore ha la cura della persona del minore o dell’ interdetto in tutti gli atti civili e ne ne amministra i beni. Dunque, il tutore, pur avendo una funzione prevalente di gestione degli interessi patrimoniali dell’ incapace (artt. 378,382 c.c.), conserva però anche poteri in ordine a tutti gli altri atti civili e pertanto può ben essere il soggetto giuridicamente legittimato a promuovere l’ azione per far valere il diritto al rifiuto delle cure da parte dell’ incapace. In tali casi ,però, vi è un esercizio indiretto di un diritto personalissimo dell’ incapace, e quindi nasce un conflitto tra l’ ipotetico, legittimo diniego verso i trattamenti sanitari ed il diritto dell’ incapace alla vita, conflitto di interessi che in assenza di certezze sulla reale volontà dell’ incapace potrebbe porre quest’ ultimo e il tutore su posizioni contrapposte; un eventuale curatore speciale si verrebbe, quasi certamente, a trovare nella stessa identica situazione. Sarebbe pertanto opportuno prevedere, in tali casi, in via legislativa, una decisione del giudice sull’ autorizzazione o meno alla cessazione dei trattamenti sanitari, solo a seguito di contraddittorio tra il tutore ed un curatore speciale ad hoc individuato in un collegio medico costituito da specialisti; ciò al fine di rendere la decisione su una questione così difficile e delicata, in quanto afferente al bene personalissimo vita, il più possibile ponderata e partecipata, a maggior ragione quando non vi sono pregresse dichiarazioni scritte dell’ incapace in un senso o nell’ altro.

L’istituto dell’ amministratore di sostegno, in questi casi, può per un verso apparire più appropriato rispetto alla figura del tutore: l’art. 408 c.c. recita infatti: “La scelta dell’ amministratore di sostegno avviene con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario” e l’ art 410 c.c. continua: “nello svolgimento dei suoi compiti l’ amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”. Per altri versi, però, non risulta essere la figura giuridica più adatta ad intervenire in tali particolari situazioni,ciò in quanto la nomina dell’ amministratore di sostegno presuppone una seppur flebile capacità ad autodeterminarsi: art.409c.c. “ il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’ assistenza necessaria dell’ amministratore di sostegno. Il beneficiario dell’ amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”, art. 410 c.c. “L’amministratore di sostegno deve tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere, nonché in caso di dissenso con il beneficiario il giudice tutelare”. Come sarebbe possibile fare ciò quando vi è una persona in stato vegetativo persistente?

Pertanto se l’ amministratore di sostegno è figura adeguata a supportare persone affette da disabilità ,ma non totalmente incapaci come ad esempio nel caso Welby, sicuramente nei casi simili a quello Englaro la figura del tutore è giuridicamente la più appropriata a rappresentare gli interessi dell’ incapace, salva l’ opportunità di novità legislative così come in precedenza detto, nei casi in cui si debbano prendere decisioni inerenti ai diritti personalissimi dell’ incapace. Difatti, ammettere un’ unica voce a rappresentare l’ incapace non appare adeguato, in quanto, come già visto, sarebbe giusto pensare a decisioni più partecipate e ponderate attraverso l’ obbligatorio contraddittorio tra un tutore ed un collegio di curatori speciali ad hoc , esperti della materia.

Riprendendo il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza 21748/2007, a detta di chi scrive, si è nel complesso ben deciso, anche se necessitano alcuni appunti nella parte di sentenza relativa ai trattamenti di idratazione ed alimentazione.

La suprema Corte, ha infatti sancito giustamente la prevalenza del diritto alla vita come regola generale, subordinando l’ eccezione dell’ autorizzazione alla cessazione dei trattamenti medici in assenza di una volontà esplicita del paziente, dovuta ad incapacità, a due presupposti: condizione di stato vegetativo permanente senza possibilità di guarigione per i parametri medici attuali, ed elementi di prova chiari, concordanti e convincenti sulla volontà del paziente di cessare i trattamenti medici, tratti dalla sua personalità dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti pregressi.

E’ ovvio che la prova per presunzioni, data l’ eccezionalità della stessa rispetto alla regola generale della primazia del bene vita, non potrà che essere stringente. Il giudice dovrà concedere il distacco delle apparecchiature salvavita, in assenza di consenso informato del paziente, solo se le prove fornite sulla sua presunta volontà in tal senso, saranno così forti da “andare al di la di ogni ragionevole dubbio”.

Pertanto, il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione, per la sua buona riuscita, dovrà affidarsi alla ponderazione e attenta valutazione dei singoli tribunali che andranno ad applicarlo al caso concreto, prestando attenzione alla rigidità della prova richiesta, al fine di non alterare la giusta scala di valori e di equilibri tra vita, salute ed autodeterminazione del paziente.

In tali casi, saranno importanti le testimonianze e gli scritti sulle proprie concezioni di vita e credenze religiose, ma al fine di raggiungere il corretto operare di tale valutazione presuntiva, si dovranno anche apprestare i dovuti accorgimenti procedurali affinchè chiunque (genitori, parenti, amici), sia in possesso di prove concrete o sia in grado di testimoniare fatti pregressi sull’ idea di vita del paziente, venga ammesso a far valere le stesse dinnanzi al giudice competente, partendo dal fatto che, ex art. 32 cost., la salute è anche interesse della collettività oltre che bene primario dell’ individuo. Si dà quindi atto della bontà dell’ argomentazione giuridica effettuata della suprema Corte nel dettare un principio di diritto in grado di bilanciare i beni vita, salute e libertà ma, sottolineando, però, anche l’ importanza del ruolo dei singoli giudici che avranno il delicato compito di applicare al caso concreto il principio enucleato, in modo stringente.

Si può ora passare ad analizzare l’ argomentare dei giudici di legittimità sui concetti di idratazione ed alimentazione.

La sentenza 21748/2007 ha esplicitato che: “i trattamenti di idratazione ed alimentazione artificiali con sondino nasogastrico, costituiscono un trattamento sanitario in quanto sottendono ad un sapere scientifico posto in essere da medici anche se proseguito da non medici e consistenti nella somministrazione di preparati chimici”, la stessa Corte ha tuttavia, in modo non proprio lineare, aggiunto: “non possono essere considerate forme di accanimento terapeutico ma costituiscono, invece , un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale, salvo che nell’ imminenza della morte, l’ organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno stato di intolleranza collegato alla particolare forma di alimentazione”. Detto ciò, la Corte di Cassazione, pur sottolineando che il giudice non possa ordinare il distacco del sondino naso gastrico, lascia allo stesso giudice del caso concreto il controllo di ragionevolezza sulla scelta del distacco compiuta dal tutore. Orbene, l’art. 32 della nostra costituzione prevede che “Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Dunque se alimentazione ed idratazione non sono trattamenti sanitari, essi devono essere garantiti e non possono essere sospesi in quanto posti a tutela dei beni vita e salute che sono interesse della collettività. Diversi pareri del Comitato Nazionale di Bioetica hanno evidenziato come idratazione ed alimentazione siano “atti dovuti” in quanto supporti vitali di base che consentono all’ individuo di rimanere in vita evitando allo stesso,per il tramite della loro interruzione, un processo di sofferenza che possa prolungarsi anche fino a due settimane per portare, infine, ad una morte di fame e di sete la cui sofferenza non è eliminabile attraverso le terapie del dolore. Da ciò si deve dedurre che alimentazione ed idratazione anche se artificiali, non possono essere considerati trattamenti sanitari, se i metodi con i quali essi sono somministrati non consistono in forme di eccessiva invasività né diano sofferenze sproporzionate al paziente. Possono diventare però tali, e trasformarsi in forme di accanimento terapeutico, in questi specifici casi: a)se nell’ imminenza della morte l’ organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite b) se vi sia uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’ alimentazione c)se per i modi artificiali ed invasivi con cui l’ alimentazione e l’ idratazione vengano somministrate non vi sia proporzionalità tra le sofferenze che essi apportano al paziente ed i benefici in vista di una sua futura guarigione.

Il giudice del caso concreto pertanto non potrà autorizzare la scelta compiuta del tutore di sospendere idratazione ed alimentazione, neanche se vi è stata una ricostruzione in tal senso della volontà presunta del paziente, salvo che venga accertata da parte del giudice di merito la ricorrenza di una delle tre tipologie di eccezioni prima esaminate, le quali (soltanto) rendono alimentazione ed idratazione trattamenti sanitari sproporzionati.

Il principio di diritto sulla “volontà presunta” del malato, in assenza di consenso informato al trattamento sanitario, è stato necessitato anche dalla totale assenza di una specifica normativa al riguardo.

La suprema Corte,infatti, ha fondato le sue argomentazioni su diversi parametri legali: art 4 del. D.lgs. 211/2003 (esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali), l’ art. 6 della Convenzione di Oviedo per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo alla applicazione della biologia e della medicina ; gli artt. 2, 13, 32 Cost. It..

Si è pertanto animato il dibattito sulla necessità di introdurre una normativa sul testamento biologico che attenui il principio di matrice pretoria della volontà presunta del paziente incapace.

Innanzi tutto si deve sottolineare come a seguito della sentenza 21748/2007, il parlamento aveva proposto dinnanzi alla Corte Costituzionale, conflitto di attribuzione tra poteri dello stato.

La Corte delle Leggi, con ordinanza 334/2008, ha dichiarato inammissibile il ricorso stabilendo che il provvedimento censurato ha caratteristiche giurisdizionali proprie e non funzioni di produzione normativa e che non memoma in alcun modo l’ esercizio del potere legislativo da parte del parlamento, il quale avrà la libertà di colmare in ogni momento il vuoto legislativo trovando gli adeguati punti di equilibrio tra i fondamentali beni costituzionali coinvolti nella vicenda. Dunque, la sentenza della Corte di Cassazione non ha creato diritto invadendo la funzione legislativa, ma ha semplicemente colmato un vuoto legislativo attraverso un’ interpretazione costituzionalmente orientata della scarna normativa già esistente, dando in tal modo giustizia nel caso concreto senza incorrere in responsabilità per non liquet.

Una legislazione sul testamento biologico sembra essere oramai imminente.

Difatti, il Senato ha approvato nel Marzo 2009 il ddl Calabrò contenente “ Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”.

Dunque, nel testo che non appena deliberato dalla camera (si presume a breve) diventerà legge, si usa il termine “dichiarazioni anticipate di trattamento” e non quello di testamento biologico.

Questa è sicuramente una felice definizione da parte del legislatore. Infatti, il termine testamento biologico ovvero testamento di vita (bios = vita), risulta essere un controsenso sia in termini letterali quanto in termini sostanziali, potendosi in questo caso erroneamente immaginare che con un atto avente le forme del testamento un individuo possa disporre dell’ inviolabile bene della vita. Il termine dichiarazioni anticipate di trattamento è ,inoltre , sicuramente più preciso di un'altra espressione proposta, ovvero : “volontà previe di trattamento”, un siffatto nomen avrebbe rischiato di far prevalere in sede di eventuale interpretazione del testo, le presunte volontà del dichiarante rispetto al contenuto della dichiarazione, dando adito a forme di incertezza.

Nell’ analizzare le disposizioni del disegno di legge Calabrò, si possono cogliere i seguenti punti focali:

A) DIVIETO DI ACCANIMENTO TERAPEUTICO

Soprattutto in condizioni di morte prevista come imminente, il medico deve astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura e/o di sostegno vitale del medesimo.
Il divieto di accanimento terapeutico non può legittimare attività che direttamente o indirettamente, per loro natura o nelle intenzioni di chi li richiede o li pone in essere, configurino pratiche di carattere eutanasico o di abbandono terapeutico.

B) CONSENSO INFORMATO

Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole

L'espressione del consenso è preceduta da accurate informazioni rese in maniera completa e comprensibile circa diagnosi, prognosi, scopo e natura del trattamento sanitario proposto, benefici e rischi prospettabili, eventuali effetti collaterali, nonché circa le possibili alternative e le conseguenze del rifiuto del trattamento.
L'alleanza terapeutica così costituitasi all'interno della relazione medico paziente è rappresentata da un documento di consenso, firmato dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica.

In caso di interdizione ai sensi dell'articolo 414 del codice civile, il consenso è prestato dal tutore che appone la firma in calce al documento. In caso di inabilitazione, ai sensi dell'articolo 415 del codice civile, si applicano le disposizioni di cui all'articolo 349, comma 3 del codice civile relative agli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Qualora vi sia un amministratore di sostegno ai sensi dell'articolo 404 del codice civile e il decreto di nomina preveda l'assistenza in ordine alle situazioni di carattere sanitario, il consenso è prestato dall'amministratore di sostegno. La decisione di tali soggetti è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute dell'incapace e non può pertanto riguardare trattamenti sanitari in pregiudizio della vita dell'incapace stesso.

C) CONTENUTI E LIMITI DELLE DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO

Nella Dichiarazione Anticipata di Trattamento il dichiarante esprime il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari e di fine vita in previsione di un'eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere.
Nella Dichiarazione Anticipata di Trattamento il soggetto dichiara il proprio orientamento circa l'attivazione e non attivazione di specifici trattamenti sanitari, che egli, in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica, è legittimato dalla legge e dal codice di deontologia medica a sottoporre al proprio medico curante.
Il soggetto può, in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica, dichiarare di accettare o meno di essere sottoposto a trattamenti sanitari sperimentali invasivi o ad alta rischiosità, che il medico ritenga possano essergli di giovamento, può altresì dichiarare di accettare o meno trattamenti sanitari che, anche a giudizio del medico avessero potenziale, ma non sicuro carattere di accanimento terapeutico.
Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato, futili, sperimentali, altamente invasive e invalidanti. Possono essere altresì inserite indicazioni da parte del redattore favorevoli o contrarie all'assistenza religiosa e alla donazione post mortem di tutti o di alcuni suoi organi.
Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni finalizzate all'eutanasia attiva o omissiva.

La dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e per questo motivo non può assumere decisioni che lo riguardano. La valutazione dello stato clinico va formulata da un collegio medico formato da medico legale, un anestesista-rianimatore, ed un neurologo, sentiti il medico curante e medico specialista della patologia, designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero.

D) ALIMENTAZIONE ED IDRATAZIONE

Nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento.

E) FORMA E DURATA DELLA DICHIARAZIONE ANTICIPATA DI TRATTAMENTO

Le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono obbligatorie né vincolanti, sono redatte in forma scritta con atto avente data certa e firma del soggetto interessato maggiorenne, in piena capacità di intendere e di volere dopo una compiuta e puntuale informazione medico clinica, e sono raccolte esclusivamente dal medico di medicina generale che contestualmente le sottoscrive.

La dichiarazione anticipata di trattamento ha validità per cinque anni che decorrono dalla redazione dell’ atto, termine oltre il quale perde ogni efficacia. La dichiarazione anticipata di trattamento può essere revocata o modificata in ogni momento dal soggetto interessato. La revoca anche parziale, della dichiarazione deve essere sottoscritta dal soggetto interessato, la dichiarazione anticipata di trattamento deve essere inserita in cartella clinica.

F) FIDUCIARIO

Nella dichiarazione anticipata di trattamento è possibile la nomina di un fiduciario, maggiorenne, capace di intendere e di volere, che opera sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nelle dichiarazioni anticipate, per farle conoscere e contribuire a realizzarne le volontà.
Il fiduciario appone la propria firma autografa al testo contenente le dichiarazioni anticipate.
Il fiduciario si impegna ad agire nell'esclusivo e migliore interesse del paziente.
Il fiduciario, in stretta collaborazione con il medico curante con il quale realizza l'alleanza terapeutica, si impegna a garantire che si tenga conto delle indicazioni sottoscritte dalla persona nella dichiarazione anticipata di trattamento.
Il fiduciario si impegna a vigilare perché al paziente vengano somministrate le migliori terapie palliative disponibili, evitando che si creino situazioni sia di accanimento terapeutico, sia di abbandono terapeutico.
Il fiduciario si impegna a verificare attentamente che il paziente non sia sottoposto a nessuna forma di eutanasia esplicita o surrettizia.
Il fiduciario può rinunciare per iscritto all'incarico, comunicandolo direttamente al dichiarante o, ove quest'ultimo fosse incapace di intendere e di volere, al medico responsabile del trattamento sanitario.

G) RUOLO DEL MEDICO

La volontà espressa dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento è attentamente presa in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno.
Il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica.

Le indicazioni sono valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell'inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza.
Nel caso di controversia tra fiduciario ed il medico curante, la questione è sottoposta alla valutazione di un collegio di medici: medico legale, un anestesista-rianimatore, ed un neurologo, sentiti il medico curante e medico specialista della patologia, designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero. Tale parere non è vincolante per il medico curante, il quale non sarà tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico.

Il testo prevede quindi la D.A.T. come una dichiarazione non obbligatoria, revocabile e limitata nel tempo, insomma uno strumento flessibile e partecipativo tra medico e paziente , grazie anche alla figura del fiduciario che deve sempre mirare a tutelare contemporaneamente la vita, la salute e l’autodeterminazione del malato, facendo prevalere sempre il best interest dello stesso. La D.A.T. è dunque un importante strumento di orientamento nelle cure mediche ma non è strettamente vincolante per il medico, ciò è dovuto anche al fatto che la redazione della D.A.T . è si effettuata con l’ ausilio del medico di fiducia, ma è redatta pur sempre in modo autonomo dai singoli soggetti, spesso non cultori delle discipline mediche, e potrebbe quindi presentare un grado di imprecisione nelle terminologie o di genericità ed astrattezza nelle disposizioni, tale che una sua vincolatività porterebbe a risultati talvolta aberranti.

Dal testo della norma viene in rilievo una nuova figura giuridica: il fiduciario.

Egli dovrà essere un soggetto avente la piena fiducia di colui che redige la D.A.T. e dovrà eseguire come un mandatario le direttive impartitegli per il caso in cui si verifichi una situazione di incapacità seguita da trattamento medico. La disposizione della dichiarazione anticipata di trattamento che contenga la nomina di un fiduciario, sarà quindi configurabile come una sorta di mandato sospensivamente condizionato al verificarsi dell’ evento incapacità in cui potrebbe incorrere il soggetto mandante.

Il meccanismo è simile all'intestazione fiduciaria, quest’ ultima sorge con un contratto di mandato in base al quale un soggetto (il fiduciante) trasferisce un diritto ad un altro soggetto (il fiduciario), con l'obbligo di quest'ultimo di esercitarlo per il soddisfacimento di determinati interessi del trasferente o di un terzo o comuni a lui ed al trasferente od al terzo. Con l'intestazione fiduciaria, il fiduciario ha il compito di amministrare in modo professionale, in trasparenza e riservatezza, per conto del fiduciante, il suo patrimonio. La proprietà di quest'ultimo rimane del fiduciante mentre il fiduciario agisce in base alle direttive impartite dal primo. Ciò che cambia nella figura del fiduciario è solo il bene che egli è tenuto ad amministrare, non più quello del patrimonio bensì quello della salute del soggetto fiduciante, agendo nell’ esclusivo interesse di quest’ ultimo. Resta da chiedersi se il fiduciante possa attribuire un compenso al fiduciario per l’ opera che egli eventualmente presterà nel suo interesse. Esso potrebbe essere un incentivo per il fiduciario a svolgere bene e con ancora maggiore riconoscenza e diligenza il proprio delicato compito, che potrebbe anche richiedere un notevole dispendio di tempo ed energie, per cui sembra ben possibile che il fiduciante decida di attribuire al fiduciario un compenso, subordinato al verificarsi dell’ eventuale stato di incapacità del fiduciante connesso ad una situazione di salute che necessiti di trattamenti medici.

Il fiduciante potrebbe inoltre ben nominare più fiduciari sia in modo congiuntivo che in modo sostitutivo laddove uno di essi dovesse rifiutare o premorire.

Nel testo della normativa si sarebbe potuta anche prevedere una nullità parziale per quelle disposizioni inerenti specifici trattamenti sanitari che a causa del progresso scientifico riescano a fornire, nel momento in cui si attualizza l’ evento incapacità-trattamento, un elevato esito fausto della patologia, prima non preventivabile.

Anche riguardo al divieto assoluto di effettuare dichiarazioni relative ad alimentazione ed idratazione si sarebbe potuta prevedere un’ eccezione espressa per i tre casi prima menzionati in cui queste cure vitali si possono tradurre in trattamento medico, ovvero:

a)se nell’ imminenza della morte l’ organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite b) se vi sia uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’ alimentazione c)se per i modi artificiali ed invasivi con cui l’ alimentazione e l’ idratazione vengano somministrate non vi sia proporzionalità tra le sofferenze che essi apportano ed i benefici in vista di una futura guarigione.

Con riguardo alle normative di “biodiritto” inerenti al fenomeno della clonazione umana , c’ è da dire che essa è bandita in tutti i paesi a fini di riproduzione ed in molti altri anche a fini di ricerca. In Italia vi è un’ordinanza del Ministro della Sanità del 22 dicembre 1999 che esplicitamente ne stabilisce il divieto, oltre alla legge 40/2004 che proibisce gli “interventi di clonazione mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell'embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca” ed a ciò si deve aggiungere anche la ratifica da parte dell’ Italia della Convenzione di Oviedo del 1997 che ha introdotto un protocollo addizionale sul divieto di clonazione di esseri umani il quale vieta ai paesi aderenti la clonazione a fini riproduttivi e la creazione di embrioni a scopo di ricerca. All'interno dei singoli Paesi, tuttavia, tranne pochi casi, non esistono, allo stato attuale, normative che stabiliscano precise sanzioni al divieto di clonazione umana e su ciò bisognerebbe avviare una riflessione. Da registrare inoltre il fatto che in molti stati si consente la clonazione vegetale ed animale, attività ultimamente sospesa nell’ UE per iniziativa della Commissione Europea che ha bloccato, in Europa, la produzione e commercializzazione di cibi provenienti da animali clonati. La Commissione europea ha proposto di sospendere la clonazione animale a fini alimentari per cinque anni, così come l'utilizzo di animali d'allevamento clonati e la commercializzazione di cibi provenienti da cloni. Bruxelles ha chiesto inoltre di creare un sistema di tracciabilità per le importazioni di materiale destinato alla produzione di cloni, come sperma ed embrioni. Lo ha deciso il Collegio dei Commissari Ue riunito a Strasburgo nell’ Ottobre 2010, in concomitanza con la sessione plenaria dell'Europarlamento.

Si deve adesso passare ad esaminare l’ultimo profilo, cronologicamente ma non certo per importanza, relativo alla procreazione medicalmente assistita.

La legge 19 febbraio 2004, n. 40 definisce la procreazione assistita come l'insieme degli artifici medico-chirurgici finalizzati a favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall'infertilità umana qualora non vi siano altri metodi efficaci per rimuovere le cause di sterilità o di infertilità.

Alle tecniche di procreazione assistita possono accedere "coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi". È vietato il ricorso a tecniche di fecondazione eterologa.

Si parla di fecondazione omologa quando il seme e l'ovulo utilizzati nella fecondazione assistita appartengono alla coppia di genitori del nascituro, il quale presenterà quindi un patrimonio genetico ereditato da coloro che intendono allevarlo. La fecondazione eterologa si verifica, invece, quando il seme oppure l'ovulo (ovodonazione) provengono da un soggetto esterno alla coppia.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 151 del 2009 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 3 del medesimo articolo nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna. Le considerazioni svolte dal redattore della sentenza in ordine al censurato divieto di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad “un unico e contemporaneo impianto e comunque non superiore a tre” sono basate al fatto che la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione poiché non consente di tenere conto del numero di embrioni realmente necessario per il buon esito della procedura di procreazione in relazione alla qualità degli embrioni, alle condizioni soggettive della donna, con riguardo all’età; contrasta con il principio della gradualità e della minore invasività della tecnica di procreazione assistita espresso all’art. 4, comma 2, della stessa legge.

Favorisce, inoltre, l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che possono conseguire all’iperstimolazione ovarica; determina, per altro verso,l’incidenza di possibili gravidanze plurime, con pregiudizio sia della donna che del feto stante il divieto di riduzione embrionaria selettiva posto dall’art.14,comma 4; sottrae alla competenza del medico, caso per caso,la valutazione che gli spetterebbe sulla base delle più accreditate e aggiornate conoscenze tecnico-scientifiche riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto. Si tratta di considerazioni alle quali sovrintende un principio più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale (come si dice in sentenza), quando ha precisato che “ in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali”.

Da quanto precede discendono le ragioni della censura di incostituzionalità, per violazione dell’art. 3 sotto il profilo del principio di uguaglianza e di quello di ragionevolezza in quanto il legislatore impone il medesimo trattamento a situazioni dissimili; per violazione dell’art. 32 per il danno alla salute della donna ed eventualmente a quella del feto. Resta poco da dire in ordine ai motivi di incostituzionalità del 3° comma del’art. 14 poiché, come si è visto più sopra, la pronunzia al riguardo è diretta conseguenza del percorso logico-giuridico seguito per censurare il comma precedente, percorso che per il comma 3 si focalizza sulla necessità di salvaguardia della salute della donna.

Inoltre, altra novità di rilievo, è stata quella relativa all’ aggiornamento delle linee guida della legge 40/2004, opera effettuata dal Ministero della Salute nel 2008 e che ha consentito indagini sullo stato di salute degli embrioni non più soltanto di tipo osservazionale. Pertanto si è aperta la strada alle indagini genetiche preimpianto; esse al pari delle altre diagnosi prenatali, assurge oggi ad essere una normale forma di monitoraggio con finalità conoscitiva della salute dell’ embrione alla stregua dei criteri della buona pratica clinica, la cui mancanza da luogo a responsabilità medica. Riconoscendosi alla madre il diritto di abortire il feto malato, non si può non riconoscerle anche il diritto di prevenire l’ impianto di un simile feto che poi eventualmente dovrebbe abortire con grossi rischi per la salute. Inoltre, il nostro ordinamento, riconosce anche la legittimità nella diagnosi prenatale, tecnica altrettanto invasiva del feto, avente funzione di tutela sia verso il feto che verso la madre.

C’è da aggiungere che l’ estensione della procreazione assistita omologa unitamente alla diagnosi preimpianto, anche in favore di coppie non sterili o infertili ma che rischiano comunque di procreare concretamente figli affetti da gravi malattie a causa di patologie geneticamente trasmissibili , potrebbe permettere a tali coppie di non correre più questo rischio, il tutto tramite una lettura costituzionalmente orientata dell’ art. 13 della legge 40/2004. Ciò viene proposto anche alla luce dell’ ampliamento dell’ accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita operata dalle linee guida del Ministero della salute del 2008, le quali hanno parificato alle coppie infertili quelle in cui almeno un individuo sia portatore di gravi malattie quali il virus hiv o l’ epatite b e c. Pertanto alla luce del primario rilievo che assume il benessere psicofisico della donna nel nostro ordinamento, così come esplicitato dalla Corte Costituzionale in più pronunce, e che nel caso di genitori portatori di malattie geneticamente trasmissibili ben coincide anche con l’ interesse del nascituro a venire alla luce sano, si potrebbe, con una lettura costituzionalmente orientata della norma, estendere la procreazione medicalmente assistita omologa e l’ analisi preimpianto anche alle coppie con malattie geneticamente trasmissibili gravi ed inguaribili, attività questa, che alcuni tribunali hanno già in via pretoria autorizzato (vedi trib. Salerno 191/2010).

La trattazione dei principali aspetti di biodiritto riguardanti la procreazione medicalmente assistita, non può non prendere in considerazione il dibattito e le numerose ordinanze di remissione alla Corte Costituzionale( Trib. Catania 7305/2010, Trib. Firenze 7618/2010) che si sono avute in merito al divieto di fecondazione eterologa, ovvero di quella procreazione in cui seme o ovulo proviene da un individuo estraneo alla coppia.

I fautori dell’ incostituzionalità della norma che vieta in Italia la procreazione eterologa (art. 4, legge 40/2004), richiamano vari assunti.

Anzitutto si afferma che suddetta norma sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 31 della nostra costituzione , ovvero con i principi di non discriminazione e ragionevolezza, sostenendosi che il legislatore ha effettuato un’ irragionevole discriminazione tra soggetti vertenti in situazioni uguali (infertilità della coppia), per il solo fatto che essi abbisognassero di modalità differenti della stessa terapia ( procreazione assistita, omologa in un caso eterologa nell’ altro). Si afferma inoltre che il divieto posto all’eterologa, sarebbe solo formale e non sostanziale, in quanto l’art.12 della L. 40/2004 prevede solo una sanzione amministrativa per i sanitari ed invece nessuna sanzione per la coppia che eventualmente decidesse di accedere all’ eterologa in violazione della norma, si fa inoltre notare come la stessa legge 40/2004 all’ art. 9 prevede che l’ eventuale figlio nato dalla violazione del divieto di inseminazione eterologa , non possa essere disconosciuto escludendo inoltre ogni legame giuridico parentale rispetto ai donatori di gameti.

La norma oltre che irragionevole e discriminatoria sarebbe, per i fautori di tale tesi, anche contraddittoria in quanto porrebbe solo un divieto di facciata, eventualmente aggirabile, aggravando solo i procedimenti per chi si trovasse nella infelice situazione di non poter procreare se non tramite eterologa. Si afferma inoltre che il divieto che avrebbe come ratio quella di impedire parentele atipiche, non sarebbe giustificato , in quanto la legge già prevede una possibile discrepanza tra genitorialità genetica e genitorialità legittima attraverso le norme sull’ adozione. Ad ulteriore supporto, si sostiene che tale divieto contrasterebbe anche con l’ art. 2 Cost. laddove, esso, impedendo l’uso di tale tecnica alle coppie totalmente infertili che non dispongono di alternative alla procreazione eterologa, violerebbe il diritto alla vita privata e familiare ed il diritto di autodeterminarsi, compromettendo anche l’ integrità pscicofisica di tali coppie infertili.

Il divieto di fare ricorso alla donazione di gameti nell’ambito della pma, ad avviso dei tribunali rimettenti la questione alla Corte Costituzionale, pregiudicherebbe anche il diritto alla salute di alcune coppie sterili almeno sotto due profili: impone loro di sottoporsi, allorché sarebbe necessaria la fecondazione assistita eterologa, a “pratiche mediche meno indicate, dai risultati più incerti”, in violazione del diritto di ciascuno , solennemente affermato dal Giudice delle Leggi, “ad essere curato efficacemente secondo i canoni della scienza e dell’arte medica”; inoltre, quel divieto costringerebbe molte coppie a recarsi all’estero, affrontando sia il disagio psicologico ed emotivo di allontanarsi dal luogo degli affetti, sia il rischio di essere contagiati da malattie trasmesse dal donatore o dalla donatrice, per carenza di controlli e di informazioni.

Ulteriore argomentazione favorevole viene tratta dai sostenitori dell’incostituzionalità del divieto di eterologa, attraverso la Convenzione europea dei diritti dell’ uomo, la quale all’art. 7 prevede che “ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare” e agli artt 8 e 14 prevede il divieto di discriminazione . Tali articoli sono stati implementati nel loro contenuto, da una recente pronuncia della Corte di giustizia di Strasburgo che, con la sentenza S.H. contro Austria n. 57813/00, ha dichiarato illegittima una norma austriaca la quale vietava l’ accesso ad un determinato tipo di procreazione eterologa.

La sentenza della Corte EDU ha preso in esame due diversi ricorsi in materia di PMA riguardanti due situazioni diverse.
Il primo caso si trattava di una coppia in cui la donna era infertile relativa alle tube di Falloppio e l'uomo sterile, per cui poteva far ricorso soltanto alla fecondazione eterologa in vitro, vietata dalla legge austriaca, che consente invece la fecondazione eterologa in vivo.
Il secondo riguardava una coppia in cui la donna era completamente sterile non producendo ovuli, mentre l'uomo produceva sperma adatto alla procreazione, per cui poteva far ricorso solo alla donazione di ovuli, non consentita dalla legge austriaca, a differenza di quella di gameti maschili consentita, come si è detto, sia pure solo per la fecondazione in vivo.
La Corte ha ritenuto sussistenti in entrambi i casi la violazione del combinato disposto dagli artt. 8 e 14 della Convenzione che stabiliscono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita provata e familiare e il divieto di discriminazione.
Il rilievo che la decisione sul primo caso - motivata ai § 86/94- é basata solo sull'irragionevolezza dell'esclusione della donazione di gameti in vitro una volta che sia ammessa quella in vivo, impedisce dì trarre conseguenze ai fini della sua applicazione riguardo alla legge italiana posto che essa vieta la fecondazione eterologa in ogni caso.
La Corte ha deciso il secondo caso (ai § 70/85) ritenendo l'irragionevolezza dell'ammissibilità, nella legge austriaca, della donazione di spermatozoi ma non dì ovuli.

Per arrivare a questa conclusione, però, (forse significativamente anteponendolo l'esame di questo caso all'altro) ha esposto principi di ordine generale che, ad avviso del giudicante, paiono pertanto applicabili in sede interpretativa ai fini che qui interessano.

La Corte afferma (§ 74) che non vi è un obbligo per gli Stati membri di adottare una legislazione che consenta la fecondazione assistita, ma che una volta che essa sia consentita, nonostante il largo margine di discrezionalità lasciato agli Stati contraenti, la sua disciplina dovrà essere coerente in modo da prevedere una adeguata considerazione dei differenti interessi legittimi coinvolti in accordo con gli obblighi derivanti dalla Convenzione

Ricorrono dunque le condizioni per il rilievo della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 per contrasto con l'art. 117, 1° comma Cost. in relazione al combinato disposto degli artt. 8 e 14 CEDU come interpretato dalla sentenza della Corte EDU del 1.4.10 emessa nel caso S.H. e altri contro Austria.

Rileva poi (§ 81 ) che l'obiettivo di mantenere la certezza in materia di diritto di famiglia deve tener conto del fatto che in molti Stati contraenti sono previsti rapporti familiari atipici che non seguono la relazione genitore -figlio basata sulla diretta discendenza biologica (a partire dall'adozione) per cui ritiene che non vi siano ostacoli insormontabili per condurre le relazioni familiari che risultassero dall'utilizzare con successo le tecniche di procreazione assistita in questione nell'ambito del quadro generale della legislazione in materia di famiglia e negli altri campi giuridici collegati.

La Corte (§ 84 e ss.) rileva infine che anche l'argomento relativo al diritto all'informazione del bambino a conoscere la sua discendenza effettiva non è un diritto assoluto, rilevando di aver già ritenuto l'assenza - in un caso già sottoposto al suo giudìzio - di violazioni all'art. 8 della Convenzione avendo in quel caso lo Stato raggiunto un giusto equilibrio fra gli interessi pubblici e privati coinvolti, per cui il legislatore austriaco poteva anch'esso trovare una soluzione adeguata ai contrapposti interessi del donatore che chiede l'anonimato e del bambino ad ottenere informazioni.

Parte della dottrina pensa che tale ragionamento possa far ritenere in contrasto con la Convenzione europea anche il divieto contenuto nell'art. 4, 3° comma, della L. 40/2004, essendo del tutto analoghe le osservazioni spendibili contro le rationes legis sopra evidenziate, posto che anche in Italia sono già ammesse le parentele atipiche (come l'adozione), con conseguente esclusione della ragionevolezza della disciplina.
Le stesse considerazioni esposte dalla Corte EDU in ordine alla irragionevolezza della norma in questione sarebbero pertinenti per il rilievo della questione dì legittimità costituzionale anche sotto il profilo dell'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'escludere dalla PMA proprio i soggetti completamente sterili, tanto più che, ai sensi del 2° comma, dell'art. 1 della legge in esame "è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilita o infertilità".

A detta di chi scrive, tali argomentazioni sono un po’ forzose.

Innanzi tutto si deve sottolineare come la Corte Costituzionale in varie circostanze (e da ultimo con sentenza 311/2009) ha espresso il principio per cui le pronunce della Corte di Strasburgo non sono incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità. Difatti, il suddetto controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali imposto dall’art. 117 Cost. e quello della tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti contenuti negli altri articoli della Costituzione e che il rispetto degli obblighi internazionali non può mai incidere sui principi fondamentali del nostro ordinamento. Sicuramente l’art. 29 della nostra costituzione nell’ affermare che

“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, ha posto come principio generale e di ordine pubblico quello per cui i concetti di famiglia e quello di genitorialità devono corrispondere ad un idea della famiglia e della filiazione così come esistenti in natura per cui la formazione di famiglie artificiose o di figli creati in modo esterno alla coppia non possono avere eguale tutela rispetto a una famiglia tradizionale e naturale legata da vincolo matrimoniale o quanto meno da convivenza e riguardo ai figli concepiti tra le stesse persone artefici della medesima relazione affettiva.

L’ unico caso in cui un’ eccezione può avvenire è prevista con riguardo all’ adozione, la quale,però, contempera due opposti interessi: quello della coppia ad avere un figlio e quindi alla continuazione della stirpe e quello del figlio adottato, il quale pone fine alla situazione di abbandono morale e/o materiale non transitorio in cui si trovava, e che dell’ adozione è il presupposto. Ciò rileva nell’ adozione del minore; nell’ adozione del maggiorenne, invece, vi è come presupposto il consenso di quest’ultimo oltre che della sua famiglia di origine e di quella adottiva e, se esistono, anche dei figli naturali di quest’ ultima. Insomma, si può notare la distanza che risulta esservi tra l’ istituto dell’ adozione che contempera il desiderio ad avere un figlio da parte della coppia e l’ interesse sociale affinchè il minore venga posto al riparo da una situazione fisica e psicologica per lui pregiudizievole e dannosa (o vi sia il consenso di tutti i soggetti coinvolti nell’ adozione, in caso di adozione del maggiorenne)e, invece, la presenza della sola pretesa a realizzare il desiderio genitoriale che risulta esservi nella mera volontà di accedere alla procreazione eterologa. Quest’ ultima, al contrario dell’ adozione (che tra l’altro è soggetta anche al controllo sul buon esito dell’ affidamento preadottivo nell’ interesse del minore stesso), invece di favorire una migliore condizione psico-fisica di quest’ ultimo, rischia di incidere sulla stessa creando parentele innaturali.

L’adozione è un istituto remediale ben adatto ai casi in cui, in nessun modo, una coppia, possa concepire un figlio al suo interno. Mentre con l’adozione il bambino viene salvato da uno stato di abbandono evitandogli danni psico-fisici, con l’eterologa tali danni si rischia di crearli.

Inoltre, se si ammettesse l’equiparazione tra adozione e procreazione eterologa, non si potrebbe non estendere a quest’ultima anche il limite che viene posto alla prima, ovvero la presenza nella coppia di un vincolo matrimoniale esistente da almeno tre anni, all’interno del quale è possibile conteggiare anche l’eventuale periodo di convivenza; regola di stabilità quest’ ultima, che sarebbe precauzionale rispetto ai rischi per la salute psico-fisica del bambino, legati alle parentele e condizioni innaturali che si verrebbero a determinare (vedi il caso plateale in cui il donatore di un gamete sia di pelle nera e la coppia in eterologa che usufruisce dello stesso sia invece di pelle bianca). Il limite prima indicato, non è però previsto dalla legge 40/2004 per la procreazione omologa, in quanto, tramite essa, non vi è una percezione di rischio per la salute psico-fisica del bambino vista la nascita dello stesso dai gameti interni alla coppia.

Pertanto, nel porre il divieto di procreazione eterologa il legislatore non ha preso in considerazione la sola posizione soggettiva della coppia ed il suo diritto a volere un figlio ed una famiglia (cosa comunque possibile tramite l’ istituto dell’adozione), ma ha bilanciato anche il diritto del nascituro a non avere traumi e disagi psico-fisici che possano incidere sulla propria salute, evitandogli il rischio di vedere danneggiata la sua identità genetica e biologica (artt. 2 e 32 cost.), oltre a prendere in considerazione anche il modello di famiglia tradizionale (art. 29 cost.) che la nostra costituzione ha previsto e che un’ eventuale accesso all’eterologa verrebbe totalmente a sgretolare.

Inoltre, c’è da prendere in considerazione che l’ interesse del nascituro a non subire lesioni della personalità, dell’identità genetica e della sua salute sotto l’ aspetto psico-fisico, è tutelato costituzionalmente, ma è anche attualizzato a più riprese anche dal legislatore.

Ad esempio, con l'entrata in vigore della Legge 8 febbraio 2006, n. 54 si è prevista la tutela del figlio attraverso l’istituto dell’ affido condiviso in caso di disgregazione del rapporto tra i coniugi; si è sancito il diritto del minore alla bigenitorialità (e non trigenitorialità o quant’altro), ovvero il diritto dei figli a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori anche dopo la cessazione della loro convivenza, proprio per consentirgli una il più possibile tranquilla vita affettiva e di relazione.

Orbene,per ribattere alle censure di quella parte della dottrina che fa leva sulla sentenza della Corte EDU in precedenza citata, si deve innanzi tutto far notare come l’ art. 8 CEDU sancisce il “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, esso è chiaramente un diritto di matrice protettiva, teso alla difesa delle scelte compiute all’ interno del nucleo familiare, tutelandolo da illegittime invasioni di campo altrui, un diritto a vedere protetta la sfera di autodeterminazione familiare e a vedere tutelata la privacy affettiva del nucleo stesso.

Sarebbe pertanto improprio trasformare un diritto alla tutela, un diritto di protezione, in un diritto alla pretesa, a volere la creazione e l’ attuazione di una sfera di libertà da parte dello stato, il quale,come emerge dal dato testuale della norma deve solo proteggere la vita familiare esistente all’ interno di quel modello di famiglia che l’ordinamento tutela, non creare nuovi modelli o nuove pretese in base ai desideri dei singoli che emergano in tale ambito.

Non si può inoltre non sottolineare come, la sentenza del caso austriaco, abbia ritenuto ingiustificata una disparità di trattamento solo perché la legge austriaca, che pure vieta in generale il ricorso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo (sia come donazione di ovuli, sia come fecondazione in vitro del gamete femminile con spermatozoi di un donatore), riserva, però, alle coppie, la possibilità di farvi ricorso in presenza di determinate condizioni (è il caso della fecondazione in vivo mediante spermatozoi di un donatore). Dunque la Corte EDU ha ritenuto questa differenza di trattamento ingiustificata e discriminante proprio in quanto, in taluni limitatissimi casi, veniva comunque previsto il ricorso all’ eterologa, vietandola invece nel di più delle situazioni concrete. A differenza di ciò, la legge italiana (L. 40/2004), proibisce tutte le tecniche di procreazione eterologa, senza eccezioni . Ciò fa si che, il caso austriaco, sia in toto divergente da quello italiano e, quindi, non è estensibile allo stesso la declaratoria di illegittimità della normativa prevista dalla sentenza della Corte EDU per la legge austriaca. Per di più, bisogna sottolineare come la pronuncia della Corte di Strasburgo sia solo di primo grado e che, al momento, non essendo ancora stata confermata dalla Grande Chambre, non è divenuta definitiva neanche con riguardo al caso austriaco.
Rimane peraltro salvo il fatto che, a differenza di quanto accade per le limitazioni di sovranità che operano con riferimento all’ ordinamento dell’ UE in virtù dell’ art.11 cost., la CEDU non è invece in grado di contrapporsi all’ ordinamento costituzionale italiano, ed a maggior ragione ciò accade nei confronti dei principi fondamentali del nostro ordinamento tra i quali può sicuramente rientrare, per la sua valenza sociale e di ordine pubblico, il modello di famiglia “naturale” previsto dall’ art. 29 Cost..

Dulcis in fundo, così come riportato nell’ incipit di questo scritto, non si può non ribadire come questioni simili a quelle trattate avranno, nella nostra società, col decorso del tempo, un impatto ed un incremento di numeri e di casistica notevole. Ciò in quanto, la tecnoscienza ed il progresso sono inarrestabili ed il diritto con la sua funzione regolatoria e risolutoria non potrà non tenersi al passo con tali evoluzioni, spingendo il giurista ad indagare nuove aree tematiche e branche del diritto prima inesplorate.

. Altalex-Articolo di Giuseppe Morano)

 

 

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