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LA FORMAZIONE DEL MEDIATORE: UNA PERICOLOSA ILLUSIONE- Maria Martello

 

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L’articolo presenta le competenze e la sensibilità che devono caratterizzare chi è chiamato a dirimere controversie non mediante una decisione, bensì guidando le parti verso una composizione negoziata rispetto alla quale centrale è il soddisfacimento dei loro, solo loro, interessi e bisogni.

 

Il tema della preparazione del mediatore ha assunto rilevanza ancor maggiore in seguito al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che ha reso obbligatorio il ricorso alla mediazione in relazione ad un frastagliato novero di controversie.

Questa scelta rappresenta una novità nel panorama istituzionale italiano in quanto entrambe le parti rinunciano a parte dei loro diritti e delle loro spettanze, optando per insipidi compromessi. Per comprendere la mediazione occorre muovere da una logica raffinata e nuova, secondo la quale l’uno può vincere solo se anche l’altro vince.

Un mediatore certamente non si improvvisa: all’arte della mediazione si giunge attraverso un percorso formativo approfondito e prolungato, improntato dall’alternanza di teoria e pratica.

In definitiva, il mediatore deve essere sufficientemente creativo per consentire l’individuazione di modalità di risoluzione del conflitto anche divergenti rispetto a quelle possibili secondo diritto, ma sempre intrinsecamente giuste, non corrispondenti a generalizzazioni, ma approntate ‘su misura’ per le esigenze delle parti.

Le norme attuative del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 assoggettano il rilascio del titolo di mediatore ai soggetti che, avendo conseguito almeno una laurea triennale o, in alternativa, essendo iscritti ad ordini o collegi professionali, seguano “un percorso formativo, di durata complessiva non inferiore a 50 ore, articolato in corsi teorici e pratici, con un massimo di trenta partecipanti per corso, comprensivi di sessioni simulate partecipate dai discenti, e in una prova finale di valutazione della durata minima di quattro ore”.

 

La mediazione non può prescindere dall’analisi delle motivazioni personali, estranee al giudizio ordinario che, per definizione, si limita all’analisi dei fatti. La giustizia ordinaria si occupa essenzialmente dei fatti, la mediazione delle persone che li hanno generati e di quelle che li hanno subiti: muove dai fatti per concentrarsi sulle istanze delle persone.

La mediazione quindi si concentra sulla persona, prestando attenzione ai suoi ‘nervi scoperti’ nel gestire le relazioni, alle innegabili difficoltà dovute ai singoli tratti caratteriali, ai bisogni profondi messi in scacco. 

Appare evidente che per lo sviluppo di queste capacità e sensibilità non è sufficiente una preparazione del mediatore fondata soltanto sull’acquisizione di tecniche più o meno articolate, che rischiano di perdere senso e significato se utilizzate come espedienti ingenuamente ritenuti esaustivi.

La formazione deve avere carattere di continuità onde accompagnare le reali esigenze di crescita professionale e personale, e deve altresì mantenere le caratteristiche di un intervento calibrato sulle esigenze di ciascuno, assolutamente individuali, e perciò non riducibili a schemi prefissati.

 

 

L’autrice ritiene doveroso soffermarsi su di un’abilità che fondamentale: l’esperienza mostra che, preliminarmente, il mediatore deve avere la consapevolezza dei retropensieri delle parti che spesso, se ignorati o travisati, compromettono ogni procedibilità reale del processo di mediazione, anche se, formalmente, l’atteggiamento delle parti è collaborativo ed aperto.

Per questo nel mediatore deve essere particolarmente radicata la sensibilità nei confronti delle possibilità di cambiamento. Cambiamento significa soprattutto saper cogliere le occasioni, anche se fagocitati da una quotidianità che impedisce di percepire segnali importanti e di vedere proficue evoluzioni.

Il percorso di formazione del mediatore deve fondare e consolidare la convinzione della necessità di considerare il cambiamento quale condizione naturale del vivere.

Questi schemi mentali determinano automatismi che impediscono, di fatto, la sperimentazione di efficaci modalità di superamento dei conflitti, ed il mediatore deve disporre di mezzi per individuarli e scoprirli, sì da renderli meno condizionanti, pena il vedersi dipanare le situazioni senza esservi ‘dentro’.

 

Alla formazione del mediatore non si perviene tramite schemi genericamente predisposti, ma grazie ad una formazione volta, più che ad ‘addestrare’ alla reiterazione di una scaletta, nel rispetto di una sorta di check list del ‘buon mediatore’, ad insegnare, invece, a cogliere gli stati emotivi, ad individuare con sensibilità tutti gli snodi che la sensibilità suggerisce.

Una formazione che sappia andare oltre l’attuazione di un piano, di un programma rigidamente predefinito nei tempi e nella loro scansione: un progetto, quindi, costruito di volta in volta dal formatore insieme alla classe.

La formazione efficace deve contemplare la presentazione di più modelli operativi, l’esposizione degli interventi possibili durante un incontro di mediazione, nonché la spiegazione degli elementi di metodologia generale e specifica; soprattutto, però, deve tendere allo sviluppo delle qualità richieste ad un mediatore, vale a dire la conoscenza di sé e l’incontro con i suoi personali conflitti.

 

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