Introduzione
Le Sezioni Unite della Suprema
Corte di Cassazione, nell’esercizio della loro funzione
nomofilattica, hanno definitivamente stabilito con la
sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010 i seguenti
principi di diritto in materia di dies a quo del decorso
della prescrizione decennale nei rapporti di apercredito
utilizzati con scoperto di c/c bancario:
"Se, dopo la conclusione di un
contratto di apertura di credito bancario regolato in
conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare
la nullità della clausola che prevede la corresponsione
di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto
pagato indebitamente a questo titolo, il termine di
prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è
soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal
correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo
funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in
cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in
cui gli interessi non dovuti sono stati registrati".
e sull’applicazione dell’anatocismo
annuale:
"L'interpretazione data dal Giudice
di merito all'art. 7 del contratto di conto corrente
bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22
aprile 2000, secondo la quale la previsione di
capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal
primo comma di detto articolo si riferisce solo ad
interessi maturati a credito del correntista, essendo
invece la capitalizzazione degli interessi a debito
previsto dal comma successivo su base trimestrale, è
conforme ai criteri legali di interpretazione del
contratto, ed in particolare, a quello che prescrive
l'interpretazione sistematica delle clausole; con la
conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita
previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale,
per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito
dall'art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad
un'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione
annuale), gli interessi a debito del correntista debbono
essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna."
Detta pronuncia se da un lato ha
consolidato l’indirizzo, perseguito dalla totalità della
Giurisprudenza di legittimità [1] e dalla massima parte
di quella di merito [2], di far decorrere il dies a quo
della prescrizione decennale nei rapporti di conto
corrente bancario dalla chiusura del conto; dall’altro
ha cancellato l’indirizzo di quella giurisprudenza di
merito che soleva sostituire l’illegittima
capitalizzazione trimestrale applicata da tutte le
banche nei conti passivi con l’altrettanto illegittima
capitalizzazione annuale. Infine ha confermato la
legittimità della capitalizzazione annuale nei conti
creditori per il correntista.
Ciò posto, non resta che analizzare
il prevedibile impatto della prescrizione limitatamente
a quella parte dei versamenti effettuati dall’utente che
non hanno funzione ripristinatoria della provvista. Sul
contenuto e termine dell’eccezione di prescrizione
La prescrizione dei singoli
versamenti che non hanno funzione ripristinatoria della
provvista va sollevata ed evidenziata dalla banca, dal
1° marzo 2006, ovvero dall’entrata in vigore della legge
n. 80 del 2005, nei termini imposti dall’art. 167
c.p.c., con allegazione e tipizzazione della
fattispecie.
Per il periodo precedente, la legge
n. 353 del 1990 aveva inserito le eccezioni processuali
e di merito non rilevabili d'ufficio tra le attività
che, a pena di decadenza, dovevano essere svolte dal
convenuto con comparsa di costituzione e risposta da
depositare almeno venti giorni prima dell'udienza o
dieci in caso di abbreviazione dei termini .
In difetto di tempestiva
proposizione la giurisprudenza ha statuito che:
L'eccezione di prescrizione
sollevata dalla convenuta è inammissibile essendosi
questa costituita soltanto alla prima udienza,
incorrendo in tal modo nella decadenza di cui all'art.
167 cpc (ed nuovo rito). (cfr da ultimo Tribunale di
Sondrio, Sez. Morbegno, Dott. Francesco SORA, Sent. n.
64 del 27 giugno 2009).
Tuttavia vanno fatte alcune
precisazioni anche relative al contenuto di detta
eccezione che deve essere specifica e puntuale.
La possibilità per la parte di
sollevare l’eccezione implica che ad essa sia fatto
onere di allegare l’elemento costitutivo e di
manifestare la volontà di profittare di quell’effetto:
in particolare, in caso di pluralità di atti esecutivi
(come sono i differenti i vari versamenti extrafido
effettuati dal correntista nel corso del rapporto di
apercredito con scoperto in conto corrente) è necessario
che l’elemento costitutivo sia specificato, dovendo il
convenuto precisare il momento iniziale dell’inerzia in
relazione a ciascuno di essi (Cass. 2004/4668).
È, dunque, onere della banca
eccepire l’intervenuta prescrizione non in forma
generica (ad esempio di tutte le operazioni effettuate a
decorrere dal momento in cui vengono eseguite, come ha
fatto sistematicamente fino al 2 dicembre 2010) ma
specificatamente, cioè indicando che la prescrizione
debba colpire le operazioni di versamento che non hanno
funzione ripristinatoria della provvista, precisando il
momento iniziale dell’inerzia del correntista in
relazione a ciascun versamento extrafido con funzione
solutoria (non tutti i versamenti extrafido possono
avere funzione solutoria [4]); mentre è compito del
giudice accertare quale sia il tipo e la durata della
prescrizione stessa e se essa sia decorsa, ma non si
potrà sostituire alla difesa della parte specificandone
l’elemento costitutivo e demandando detta individuazione
al consulente tecnico d’ufficio.
L’eccezione di prescrizione, in
quanto eccezione in senso stretto, deve fondarsi su
fatti allegati dalla banca, quand’anche suscettibili di
diversa qualificazione da parte del giudice.
Se nulla la banca ha
specificatamente osservato circa la natura solutoria dei
versamenti effettuati dal correntista durante il
rapporto, né ha individuato o allegato detti versamenti
e gli effetti che hanno avuto nel saldo finale, allora
la genericità dell’eccezione non rende comprensibile ed
individuabile l’eccezione stessa che non può che essere
dichiarata inammissibile.
Ne consegue che la banca, ove
eccepisca la prescrizione del credito, ha l’onere di
allegare (producendo contratto di affidamento, estratti
conto con evidenziati versamenti solutori) e provare il
fatto che, permettendo l’esercizio del diritto,
determina l’inizio della decorrenza del termine ai sensi
dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice
possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto
diverso, conosciuto attraverso un documento prodotto ad
altri fini (ad esempio gli estratti conto prodotti dal
correntista per la ripetizione dell’indebito) da diversa
parte in causa [5].
Le difese degli istituti di credito
nelle memorie difensive anteriori al 2 dicembre 2010 non
hanno dedotto alcuna eccezione specifica in tal senso e
non ha prodotto nulla, sia nella memoria di
costituzione, con le sue preclusioni di cui all’art. 167
cpc, ma neppure nella prima successiva memoria ex art.
183 cpc.
D’altra parte l’elemento
costitutivo dell’eccezione di prescrizione è la
manifestazione in modo non equivoco della volontà della
parte di far valere l’estinzione, a causa del decorso
del tempo, del credito o dei crediti nei suoi confronti
azionati; conseguentemente, mentre rileva la
precisazione della parte circa i crediti o le loro parti
effettivamente investiti dall’eccezione, il riferimento
al termine – quinquennale, decennale, ecc. – ha il
valore di mera prospettazione di una tesi giuridica, che
non vincola il giudice circa l’individuazione del tipo
di prescrizione (Cass. 2000/9825).
La generica proposizione
dell’eccezione di prescrizione da parte dell’interessato
non autorizza l’individuazione da parte del giudice del
tipo concretamente applicabile, atteso che, da un canto,
la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, dall’altro,
il suo carattere dispositivo comporta, per la parte che
la propone, l’onere di tipizzarla (cfr. Cass.
1993/4130), sicché, in mancanza delle specifiche
indicazioni di fatto necessarie per rendere
comprensibile ed individuabile l’eccezione, l’eccezione
medesima non può che essere dichiarata inammissibile
(cfr. Cass. 1999/3798; v. anche Cass. 2005/6519; Cass.
1999/850).
L’eccezione di prescrizione, oltre
a non essere rilevabile d’ufficio, deve essere dedotta,
a pena di inammissibilità, in modo specifico e
tipizzato, non potendo il giudice applicare un tipo di
prescrizione diverso da quello richiesto, ciò
comportando la violazione sia del principio dispositivo
dell’eccezione di prescrizione, sia del principio di
corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (cfr.
Cass. S.U. 1989/1607).
Allo stato la Giurisprudenza del
2011 appare aver recepito detto pacifico principio
emettendo sentenze che tengono presente la nullità della
capitalizzazione annuale dell’interesse debitore del
correntista, ma non ammettono alcun quesito sollecitato
dal ceto bancario per l’espunzione degli eventuali i
versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del
rapporto che non abbiano avuto solo funzione
ripristinatoria della provvista: cfr. Ordinanza del
Tribunale di Arezzo, Dott. Antonio PICARDI, 10 gennaio
2011 nella causa R.G. 293/07; Tribunale di BRESCIA,
Dott. Elda GERACI, Sentenza n. 189 del 24 gennaio 2011;
Ordinanza del Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni
TOMMASI, nella causa R.G. 320/2005. Sull’onere della
prova nei giudizi di accertamento negativo del credito
E’ indiscusso che l'azione promossa
dagli esponenti deve qualificarsi come tipico giudizio
di accertamento: accertamento, nel caso, della nullità
delle clausole del contratto di apertura di credito
stipulato dalle parti, attinenti la determinazione degli
interessi ultralegali, il criterio di calcolo
dall’interesse anatocistico, l'applicazione della
provvigione di massimo scoperto e delle altre somme
richieste in restituzione.
Relativamente all'onere della prova
nelle azioni di accertamento negativo una parte della
Giurisprudenza sostiene la tesi secondo cui lo stesso
grava sempre e, comunque, sul soggetto che agisce in
giudizio: detto orientamento giurisprudenziale si
collega a vetuste opinioni autorevolmente sostenute in
sede dottrinale già nella vigenza del codice di
procedura civile del 1865, sul presupposto del rilievo
preminente svolto in materia di onere della prova dalla
posizione processuale delle parti e della esistenza di
un onere più ampio, c.d. primario, a carico dell'attore.
Si è anche sostenuto che
l'attribuzione in ogni caso dell'onere della prova
all'attore in accertamento negativo costituisca una
sorta di necessario contrappeso alla ritenuta
ammissibilità delle azioni di accertamento, la cui
proposizione altrimenti potrebbe mettere in difficoltà
la difesa del convenuto (o comunque vessarlo).
In senso contrario si è pronunciata
un’illuminata sentenza (Cass. n. 1391/1985), sulla base
della esplicita affermazione che i principi generali
sull'onere della prova trovano applicazione
indipendentemente dalla circostanza che la causa sia
stata instaurata dal debitore, con azione di
accertamento negativo, con la conseguenza che anche in
tale situazione sono a carico del creditore le
conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi
costitutivi della pretesa.
Detto orientamento, come suggerito
da analisi puntuali di trattazioni dottrinali più
recenti, è preferibile al precedente che non risulta
conforme alle regola fondamentale sulla distribuzione
dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c.,
aggrava ingiustificatamente la posizione di soggetti
indotti o praticamente costretti a promuovere un'azione
di accertamento negativo dalle circostanze e
specificamente da iniziative stragiudiziali o giudiziali
della controparte e, inoltre, non è effettivamente
giustificato dalla finalità di prevenire azioni di
accertamento non aventi oggettiva giustificazione.
Quanto all'art. 2697 c.c.,
l'affermazione secondo cui la dizione, dallo stesso
utilizzata, "chi vuoi far valere un diritto in giudizio"
implica che sia colui che prende l'iniziativa di
introdurre il giudizio ad essere gravato dell'onere di
"provare i fatti che ne costituiscono il fondamento"
contrasta innanzitutto con la stessa lettera della
disposizione, poiché l'attore in accertamento negativo
non fa valere il diritto oggetto dell'accertamento
giudiziale ma al contrario ne postula l'inesistenza, ed
è invece il convenuto che virtualmente o concretamente
fa valere tale diritto, essendo la parte
controinteressata rispetto all'azione di accertamento
negativo.
Una considerazione complessiva
delle regole di distribuzione dell'onere della prova, di
cui ai due commi dell'art. 2967 c.c. (che, come
osservato in dottrina, può essere considerato
specificazione del più generale principio secondo cui
l'onere della prova deve gravare sulla parte che invoca
le conseguenze per lei favorevoli previste dalla norma),
inoltre, conferma che esse sono fondate non già sulla
posizione della parte nel processo, ma sul criterio di
natura sostanziale relativo al tipo di efficacia,
rispetto al diritto oggetto del giudizio e all'interesse
delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo.
Pertanto, in materia di
ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle
azioni di accertamento negativo del credito i principi
generali sull’onere della prova trovano applicazione
indipendentemente dalla circostanza che la causa sia
stata instaurata dal debitore con azione di accertamento
negativo, con la conseguenza che anche in tale
situazione sono a carico del creditore le conseguenze
della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi
della pretesa (conforme Cass. Civ. n. 19762/2008, Cass.
Civ. n. 28516/2008, Cass. Civ. n. 23974/2010 [6]).
In tale ottica, va inquadrata anche
la prova del contratto di apertura di credito, il quale
non necessita di alcuna forma scritta.
Infatti, solo con la promulgazione
della legge sulla trasparenza bancaria e poi con
l’entrata in vigore del T.U.B. è stata introdotta la
regola della forma scritta per i contratti tra banca e
cliente.
Tuttavia, il rigore della regola
contenuta nel primo comma dell'art.117 T.U.B. è stato
attenuato nel secondo comma attribuendo il potere al
CICR di prevedere una forma diversa "per particolari
contratti", quando sussistano "motivate ragioni
tecniche" (art.117 comma 2 del T.U.B.).
Di questo potere ha fatto largo uso
la Banca d'Italia nelle proprie Istruzioni applicative,
ove ha espressamente escluso l'obbligo di forma scritta
"per operazione e servizi già previsti in contratti
redatti per iscritto (ad esempio: conto corrente di
corrispondenza)".
Questa prescrizione, che registra
la natura di "contratto normativo" del conto corrente di
corrispondenza, può riferirsi correttamente alle ipotesi
di apertura di credito in conto corrente (cfr. in
dottrina M. Porzio), in cui vi è una previsione del
futuro contratto sufficientemente precisa.
Ora se per l’apertura di credito
non vi è bisogno di un contratto scritto è estremamente
difficile il solo ipotizzare che il c.d. extrafido, un
evento eccezionale e ridotto sia temporalmente che per
importi, possa avere una qualsiasi forma scritta.
Ne consegue che la problematica di
un apertura di credito definita per facta concludentia e
della prova di essa non è stata praticamente influenzata
dalla nuova disciplina.
Tale considerazione è confortata
anche dall’indagine conoscitiva sulle commissioni
applicate dalle banche su affidamenti e scoperti di
conto promossa dal Senato della Repubblica con
l’audizione del 17 marzo 2010 del Capo del Servizio
Normativa e Politiche di Vigilanza della Banca d’Italia
Dott. Andrea Enria che ha affermato come: “Diverso è il
caso in cui un cliente abbia improvvisa necessità di
ottenere credito a valere su un conto corrente privo di
fido: in tal caso l’utilizzo dei fondi (scoperto di
conto) ha carattere eccezionale ed è soggetto alla
discrezionalità della banca. Tale seconda forma di
finanziamento è di norma molto più costosa rispetto alla
prima, sia in termini di tasso d’interesse sia di
commissioni applicate, poiché la banca eroga, in tempi
molto ristretti, un servizio di finanziamento che non è
accompagnato da una formale istruttoria”.
Tuttavia, la prova dello
sconfinamento la fornisce la stessa banca nelle sue
segnalazioni alla Centrale dei rischi: la Banca d’Italia
nelle istruzioni relative alla CENTRALE DEI RISCHI
relativamente alle ISTRUZIONI PER GLI INTERMEDIARI
CREDITIZI Circolare n. 139 dell’ 11 febbraio 1991 e ss.
Aggiornamenti – (4 marzo 2010) considera il c.d.
“Sconfinamento: Differenza positiva tra l'utilizzato di
una linea di credito e il relativo accordato operativo.
Viene calcolata per ogni categoria di censimento e
variabile di classificazione senza alcuna compensazione
tra le segnalazioni di un singolo intermediario e quelle
di più intermediari”. Sono obbligati a detta
segnalazione TUTTI gli intermediari creditizi.
Stessa segnalazione obbligatoria è
dovuta per le GARANZIE che, com’è noto, assistono solo
le apercredito affidate.
La prova è anche data dalla lettura
degli stessi estratti conto, i quali oltre a riportare
nella quasi totalità dei casi i limiti del fido, se non
altro, indicano un tasso per l’affidato ed un altro
maggiore per il non affidato.
Ciò significa che, salvo prova
contraria di cui è onerata la banca, tutti i versamenti
effettuati dal correntista sono effettuati nell’ambito
dell’affidamento e servono al solo scopo di ricostituire
la provvista, non avendo alcuna valenza solutoria. Sui
versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del
rapporto che non abbiano avuto solo funzione
ripristinatoria della provvista e disapplicazione del
creditore dei criteri di cui all’art. 1194 c.c.
La sentenza delle SSUU con il
secondo principio di diritto impone una conseguenza
inconfutabile: tutti i saldi (trimestrali e non)
risultanti dagli estratti conto redatti dalle banche
(relativi a rapporti di apercredito sorti anteriormente
al 22 aprile 2000) sono errati, se non altro per
contenere illegittimi interessi anatocistici [7].
Pertanto, il saldo da considerare
per poi definire uno specifico versamento come solutorio
o non solutorio non è quello rinvenibile dagli e/c
bancari, ma è quello “ricalcolato”, ovvero il saldo
depurato dalle competenze bancarie illegittimamente
addebitate dalla banca, giorno per giorno, nel corso del
rapporto.
Queste competenze, com’è noto,
possono essere costituite da illegittimi interessi
ultralegali (ad es. perché determinati secondo gli usi
di piazza o in altro modo indeterminati ed
indeterminabili), da illegittime valute fittizie, da
illegittime commissioni sul massimo scoperto
trimestrale, da illegittime spese forfettarie e
certamente sulla negozialmente nulla capitalizzazione
composta, trimestrale o annuale.
Ciò comporta che, a seguito della
determinazione in CTU del saldo “ricalcolato”
(adoperando i quesiti depurativi delle illegittime
competenze bancarie normalmente utilizzati dalla
Magistratura), saranno veramente eccezionali i
versamenti del correntista che potranno andare a coprire
lo scoperto eccedente i limiti dell'affidamento, avendo,
a volte, valenza solutoria [8].
Nella quasi totalità dei casi,
l’utente che ottiene un’apercredito con scoperto in
conto non supera l’affidamento concesso dall’istituto di
credito nel primo trimestre o in quelli immediatamente
successivi, anche perché il c.d. ultrafido è una
facilitazione concessa dalla banca per periodi
limitatissimi e per importi assolutamente irrisori.
E’ notorio che, in sede di
riclassificazione del conto corrente epurato dalle
illegittime competenze bancarie, dopo i primi trimestri,
i saldi debitori risultanti dagli e/c riducano,
sensibilmente trimestre dopo trimestre, la debitoria
fino a raggiungere saldi addirittura creditori.
La circostanza è talmente frequente
che è stata rilevata da una nota sentenza della S.C.:
“Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui
base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la
produzione degli estratti … consente, attraverso una
integrale ricostruzione del dare e dell'avere con
l'applicazione del tasso legale, di determinare il
credito della banca, sempreché la stessa non risulti
addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla
capitalizzazione degli interessi non dovuti”. (cfr.
Cassazione civile , sez. I, 01 marzo 2007, n. 4853).
Insomma, il conto “scoperto” (cioè
il conto passivo extrafido) deve essere quello che
supera la soglia dell’affidamento dopo che è stato
depurato da anatocismo ed altre competenze illegittime
derivanti da nullità originarie.
Meno immediata è la quantificazione
di quale sia l’ammontare di tale rimesse destinate a
rivestire funzione solutoria e la conseguente
individuazione delle voci del conto corrente pagabili
con tali versamenti.
Ci viene in aiuto, ad esempio, la
sentenza n. 1994/10869 Cass. stabilendo che “nel
contratto di apertura di credito regolata in conto
corrente, le singole rimesse effettuate sul conto
dell’imprenditore poi fallito, nel periodo sospetto di
cui all’art.67, comma 2, L.F., quando il conto sia
scoperto, sono revocabili per la parte relativa alla
differenza fra lo scoperto ed il limite del fido, atteso
che lo scoperto costituisce per la banca un credito
esigibile e che la rimessa, non creando nuova
disponibilità per il cliente, ha carattere solutorio”.
Ma le finalità della revocatoria
fallimentare sono ben differenti da quelle della
ripetizione dell’indebito nel contratto di conto
corrente e vanno fatte delle fondamentali precisazioni.
Per essere più precisi, la
Giurisprudenza, dopo un momento di incertezza, ha
escluso che nel conto corrente bancario possa applicarsi
il principio generale di cui all’articolo 1194 c.c. in
quanto è lo stesso creditore ad applicare nel corso
dell’intero rapporto altro principio.
Quindi l’ammontare del pagamento
(avente natura solutoria) non potrà mai eccedere la
differenza tra il saldo del conto corrente e
l’affidamento concesso. L’individuazione delle rimesse
(aventi natura solutoria) può avvenire unicamente in
itinere di ricalcolo e non ex ante, per via
dell’andamento mutevole del saldo di conto corrente.
La ragione di tale disposizione
risiede nel fatto che qualora il pagamento fosse
imputato prima al capitale e poi agli interessi, il
creditore subirebbe un danno: “Diminuendo infatti
l’entità del capitale dovuto, diminuirebbe autonomamente
la capacità di quest’ultimo a produrre interessi, in
quanto rapidamente decrescerebbe uno dei coefficienti
mediante cui viene qualificato l’oggetto
dell’obbligazione di interessi” (O.T. SCOZZAFAVA, Gli
interessi dei capitali, p. 160).
Nel conto corrente bancario, come è
a tutti noto, è solo ed esclusivamente l’istituto di
credito che provvede alle registrazioni contabili del
rapporto, cioè è la banca (il creditore) che decide, in
piena autonomia, l’imputazione al momento del versamento
effettuato dal correntista.
La banca al momento del versamento
imputa le somme al capitale e non agli interessi e
spese.
Infatti la banca, alla fine di ogni
trimestre, si limita a riunire gli interessi ed altri
oneri in una voce che qualifica come capitale
trascrivendola in un’appostazione contabile del
trimestre successivo: nulla di più.
Come insegna la Suprema Corte sulle
disposizioni del Codice Civile in materia di imputazione
dei pagamento, per il loro carattere suppletivo, prevale
la volontà delle parti, desumibile anche da presunzioni,
che, tuttavia, va verificata con riferimento all'epoca
del singolo pagamento.
Abitualmente la banca liquida le
competenze con l'indicazione nel riassunto scalare dei
diversi numeri creditori e debitori e sulla cui base
calcola gli interessi, senza attuare poi alcuna
distinzione al momento dell’imputazione.
Anzi, la banca ha applicato anche
per tali interessi la lucrosa capitalizzazione
periodica, manifestando, in modo inequivoco, la volontà
di rinunziare all'applicazione del criterio legale di
imputazione: ne consegue che gli effetti di tale
rinunzia sono irreversibili una volta avvenuto il
pagamento.
In poche parole, è la stessa banca
che disapplica autonomamente l’art. 1194 c.c. e non può
certo il giudice (terzo e giusto) soccorrere con le
sentenze le decisioni contrattuali del contraente forte
nel rapporto di apercredito con scoperto in c/c, che
dispotizza sull’utente contraente debole, da anni
fagocitato dalle decisioni vessatorie, autonome ed
arbitrarie del sistema bancario.
La tenuta del conto corrente è
effettuata dalla banca che imputa (autonomamente) tutti
i pagamenti a capitale, ovvero è la banca che manifesta
la volontà di imputare le rimesse al capitale, in quanto
è essa stessa a redigere l’estratto conto: chi non si
pronuncia è solo il cliente (contraente debole), che
subisce il rapporto bancario come sistema connotato
dalla regola del prendere o lasciare.
Anche nel caso di un conto corrente
allo "scoperto", per applicare l’art. 1194 c.c.,
occorrerebbe che la banca avesse invocato l'imputazione
dell’importo relativo ai versamenti prima agli interessi
e poi al capitale: sarebbe altresì necessario che la
banca, in corrispondenza di un accredito su di un conto
che abbia sconfinato, incameri la somma versata
imputandola espressamente prima agli interessi e poi al
capitale.
Al contrario, la banca, registra
gli accrediti senza attuare distinzione alcuna,
limitandosi a riunire gli interessi e oneri vari in
un’unica voce che qualifica come capitale,
trascrivendola in un’appostazione contabile del
trimestre successivo con l'applicazione per tali
interessi e competenze, della lucrosa capitalizzazione
periodica, manifestano inoltre la volontà di rinunziare
all'applicazione del criterio legale di imputazione
(anche di quelli di cui all’ art. 1194 c.c.): gli
effetti di tale rinunzia sono irreversibili, come già si
è detto, una volta avvenuto il pagamento.
Pertanto, i versamenti eseguiti dal
correntista in pendenza del rapporto che non abbiano
avuto solo funzione ripristinatoria della provvista non
vanno imputati prima agli interessi ed alle spese e poi
al capitale (come disposto dall’art. 1194 c.c. in
difetto di una volontà del creditore), ma si deve
continuare ad agire come la banca ha agito durante
l’intero rapporto: la banca al momento del versamento
imputa le somme al capitale e non agli interessi e
spese. Sui nuovi quesiti adottabili
Al termine del presente lavoro,
riteniamo che ai consueti quesiti che i vari giudici
hanno deciso di adottare al filone del contenzioso della
ripetizione delle indebite competenze bancarie, andrà
aggiunto il seguente:
Accerti il CTU sulla base dei
risultati raggiunti nei quesiti precedenti (quindi,
tenendo conto dei saldi ricalcolati depurati dalle
illegittime competenze bancarie e non degli erronei
saldi evidenziati nei vari conti correnti bancari) se
nel corso del rapporto si siano verificati dei
versamenti che abbiano superato il limite
dell’affidamento (contrattuale o comunque desumibile a
mezzo dell’analisi dei tassi e/o numeri debitori entro
e/o fuori fido annotati negli e/c bancari o negli
scalari, o rilevabile dall’analisi delle categorie
comunicate alla Centrale dei rischi, o dai contratti di
fideiussione, ecc.). Nell’ipotesi in cui si sia
verificato detto superamento il CTU consideri “pagate”
con i successivi versamenti del correntista le
competenze legittime in esubero dell’affidamento e,
quindi, prescritte dopo il decorso decennale dalla data
in cui è stata effettuata l’operazione.
Assolutamente distorti sarebbero i
risultati a cui si perverrebbe considerando come validi
i saldi passivi evidenziati negli e/c bancari: solo il
saldo ricalcolato mediante l’epurazione delle
illegittime competenze bancarie evidenzia un saldo reale
(l’effettivo dare-avere) rispetto al quale va rapportato
un successivo versamento per poterlo considerare alla
stregua di un pagamento, tale da poter formare oggetto
di ripetizione (ove risulti indebito), in quanto abbia
avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento
patrimoniale in favore della banca.
Questo accadrà qualora si tratti di
versamenti solutori (e ripetiamo che non tutti i
versamenti sono solutori) eseguiti su un conto
"scoperto" ricalcolato i cui versamenti sono destinati a
coprire il passivo eccedente i limiti dell'affidamento.
Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i
versamenti in conto, non avendo il passivo ricalcolato
superato il limite dell'affidamento concesso al cliente,
fungano unicamente da atti ripristinatori della
provvista della quale il correntista può ancora
continuare a godere. Note
[1] Cassazione Civile, Sez. I, n° 10692 del 10 maggio
2007; Cassazione Civile, Sez. I, 14 maggio 2005 n.
10127; Cassazione civile, sez. I, 23 marzo 2004, n.
5720; Cassazione, Sez. I, 03 maggio 1999, n. 4389;
Cassazione civile, sez. I, 14 aprile 1998, n. 3783;
Cassazione civile, sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262
[2] Solo nel 2010, il sito www.studiotanza.it ha
registrato le seguenti pronunzie: Tribunale di Torino,
Dott. Paola FERRERO - Sent. n. 73/10 dell'8 gennaio
2010; Tribunale di BRESCIA, Dott. Lucia Cannella, Sent.
n. 124 del 18 gennaio 2010; Tribunale di Torino, Dott.
Maurizia Giusta - Sent. n. 450 del 21gennaio 2010;
Tribunale di Lanciano, Dott. De Nisco Paola, Sent. n. 64
del 3 febbraio 2010; Tribunale di Catania, Azzia,
Ordinanza ex art. 186 quater cpc; Tribunale di Lecce,
Dott. Virginia Zuppetta, Sent. 334 del 03 febbraio 2010;
Tribunale di Livorno, Dott. Roberto URGESE, Sent. 254
del 2 marzo 2010; Tribunale di Roma, Dott. Laura
AVVISATI, Sent. 3931 del 20 febbraio 2010; Tribunale di
Palmi, Dott. A. Pastore, Sent. 134 del 12 marzo 2010;
Tribunale di Lecce, Dott. Maria Carmela Tinelli, Sent.
761 del 31 marzo 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi
Salentina, Dott. Lucia DE MATTEIS, Sentenza n. 80 del 23
aprile 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Giovanni
TEDESCO, Sent. 5221 del 6 maggio 2010; CORTE D'APPELLO
DI TORINO, Cons. Dott. Angelo CONVERSO, Sent. 5221 del 4
maggio 2010; Tribunale di Tivoli, Dott. Scarafoni, Sent.
Parz. 724 del 4 maggio 2010; Tribunale di NOVARA, Dott.
Angela Maria NUTINI, Sent. Parz. del 27 aprile 2010;
Tribunale di Novara, Dott. Simona GAMBACORTA, Sent.
Parz. del 18 maggio 2010; Tribunale di Verbania, Dott.
Massimo TERZI, Sent. n. 378/2010 del 23 maggio 2010;
Tribunale di Napoli, Dott. Livia TRAPANI, Sent. 5282 del
10 maggio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni
Tommasi, Sentenza n. 1290 del 03 giugno 2010; Tribunale
di Roma, Sentenza n. 9871 del 04 maggio 2010; Tribunale
di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Gabriella NOCERA,
Sentenza n. 120 del 10 giugno 2010; Tribunale di Lecce,
Dott. Grazia ERREDE, Sentenza n. 1116 del 17 maggio
2010; Tribunale di Cassino, Dott. Gabriele SORDI,
Sentenza n. 437 del 14 giugno 2010; Tribunale di Teramo,
Dott. Carmine DI FULVIO, Sentenza n. 557 del 12 maggio
2010; Tribunale di Lecce - Sez. Maglie, Dott. Angelo
RIZZO, Sent. 246 del 12 luglio 2010; Tribunale di
Firenze, dott. Luca MINNITI, Sent. n. 2336 del 13 luglio
2010; Tribunale di Lecce - Sez. Casarano, dott. carlo
ERRICO, Sent. n. 168 del 23 luglio 2010; Tribunale di
Firenze, dott. Fiorenzo ZAZZERI, Sent. n. 2573 del 30
luglio 2010; Tribunale di Este, dott. Giuliana GIROTTO,
Sent. n. 240 del 2 agosto 2010; Tribunale di Tricase,
dott. Alida ACCOGLI, Sent. n. 111 del 7 agosto 2010;
Corte d'Appello di Lecce, Cons. Dott. Marcello
DELL'ANNA, Sent. n. 414 del 10 luglio 2010; Tribunale di
Lecce, Dott. Michela DE LECCE, Sentenza n. 1166 del 16
agosto 2010; Trib. di Lucca, Dott. Antonio MONDINI,
Sent. n. 1104 del 21 settembre 2010; Trib. di Casarano,
dott. Cosimo CALVI, Sent. n. 123 del 9 giugno
2010;Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di
Bagheria, Dott. Elisabetta LA FRANCA, Sent. n. 124 del
20 settembre 2010; Tribunale di Paola, Sez. distaccata
di Scalea, Dott. Nicoletta CAMPANARO, Sent. n. 245 del 2
agosto 2010; Tribunale di Torino, Dott. Tamagnone, Sent.
n. 6113 del 18 ottobre 2010; Tribunale di Foggia, Dott.
Maria TUCCILLO, Sent. n. 1565 del 20 ottobre 2010;
Tribunale di Napoli, Sez. dist. di Capri, Dott. Antonio
QUARANTA, Sent. n. 106 del 5 novembre 2010;
[3] Il giudizio, promosso con atto di citazione
notificato in data 19.12.2005, è soggetto al regime
processuale di cui alla legge n.353/1990 e succ. mod. e,
quindi, ad esso si applica l'art.167 c.p.c. nella
formulazione precedente la riforma di cui alla legge
n.80/2005, entrata in vigore il 1.3.2006, che ha
inserito le eccezioni processuali e di merito non
rilevabili d'ufficio tra le attività che, a pena di
decadenza, devono essere svolte dal convenuto con
comparsa di costituzione e risposta da depositare almeno
venti giorni prima dell'udienza o dieci in caso di
abbreviazione dei termini [3]. Nel regime processuale
antecedente la riforma del 2005, il termine per le
eccezioni processuali e di merito è quello assegnato dal
giudice ai sensi del II comma dell'art.180 c.p.c. - non
inferiore a venti giorni prima dell'udienza di
trattazione ex art.183 c.p.c.. Poiché nel caso in esame
l'eccezione di prescrizione è stata proposta al momento
della costituzione della convenuta all'udienza ex
art.180 I comma c.p.c. è evidente che nessuna decadenza
è maturata al riguardo. In tema di azione per la
ripetizione di somme indebitamente trattenute dalla
banca si applica il termine decennale di cui all'art.
2946 c.c. e sul tema della decorrenza del termine è
intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con
la recente sentenza n.24418/20101, che ha statuito che
il termine di prescrizione decennale per il reclamo
delle somme trattenute dalla banca indebitamente a
titolo di interessi su un'apertura di credito in conto
corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto,
trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un
unico rapporto giuridico, anche se articolato in una
pluralità di atti esecutivi, sicchè è solo con la
chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i
crediti e i debiti delle parti tra loro. Non è decorso
il termine di prescrizione dell'azione di ripetizione
afferente il conto 4371; detto rapporto, sul quale, come
da c.t.u., si sono riversati gli interessi passivi del
rapporto collaterale n.617047 (per utilizzo effetti
salvo buon fine), è cessato al 24.11.1998 di talchè,
alla data di proposizione della domanda, non si è
compiuto il termine decennale. Tribunale di BRESCIA,
Dott. Elda GERACI, Sentenza n. 189 del 24 gennaio 2011;
[4] Non tutti i versamenti fuori fido possono essere
considerati solutori: ad esempio un girofondi da conto
collegato è non solutorio in quanto il fido è accordato
sull’altro conto.
[5] Cfr. Cass. 2009/16326; Cass.2004/3578.
[6] Giova preliminarmente segnalare, in materia di
ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle
azioni di accertamento negativo del credito, qual è
quella in oggetto, una recente pronuncia della Suprema
Corte (Cass. Sez. IV, n. 28516/2008), ai cui principi il
Collegio ritiene di aderire, la quale – per quel che qui
interessa – ha chiarito che nelle azioni di accertamento
negativo i principi generali sull’onere della prova
trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza
che la causa sia stata instaurata dal debitore con
azione di accertamento negativo, con la conseguenza che
anche in tale situazione sono a carico del creditore le
conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi
costitutivi della pretesa (conforme Cass. Civ. n.
1391/1985). Statuisce, inoltre, che le regole di
distribuzione dell'onere della prova confermano che esse
sono fondate non già sulla posizione della parte nel
processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo
al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del
giudizio e all'interesse delle parti, dei fatti
incidenti sul medesimo. (Appello L’Aquila, Cons. E.
Buzzelli, n. 615 del 09 settembre 2010).
[7] Ordinanza del 10 gennaio 2011 nella causa R.G.
293/07. Il Giudice, premesso che all'udienza del
12.7.2010, fissata per la precisazione delle
conclusioni, tratteneva in decisione il procedimento
emarginato in epigrafe, assegnando alle parti i termini
di cui all’art. 190 c.p.c. per lo scambio delle comparse
conclusionali e delle repliche; rilevato che, a seguito
della recente sentenza della Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, del 23 novembre - 2 dicembre 2010 n.
24438, dichiarata la nullità della previsione negoziale
di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi
in una apertura di credito in conto corrente, per il
contrasto il divieto di anatocismo sancito dall'art.
1283 c.c., gli interessi a debito del correntista devono
essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna,
perché il medesimo articolo 1283 osta anche ad una
eventuale previsione negoziale di capitalizzazione
annuale e perché nemmeno potrebbe .essere ipotizzato
come esistente un uso, anche non normativo, di
capitalizzazione con quella cadenza; che, nella specie,
l’espletata c.t.u. ha utilizzato, per determinare gli
interessi a debito correntista, esclusivamente il metodo
della capitalizzazione annuale; che, inoltre, con
riferimento alla pattuizione degli interessi con rinvio
"agli usi piazza", necessario, per il periodo
antecedente all'entrata in vigore della legge n.
154/1992, opera il conteggio di detti interessi al tasso
legale, mentre, per il periodo successivo alla l.
154/195 secondo il criterio di cui all'art. 5 l.
154/1992; che, pertanto, si impone la remissione della
causa in istruttoria, al fine di procedere alla
rinnovazione delle indagini peritali nei termini sopra
esposti. P.Q.M. rimette la causa in istruttoria,
disponendo la rinnovazione della c.t.u. per i motivi di
cui premessa; conferma la nomina del Dr. A. A. quale
C.T.U.; rinvia per il conferimento dell'incarico
all'udienza del 14.2.2011 ore 12,00. Si comunichi anche
al C.T.U. Il Giudice Dr. Antonio Picardi TRIBUNALE DI
AREZZO - SEZ. DISTACCATA Dl SANSEPOLCRO.
[8] Il Dott. Commercialista Fabio Massimo BLASI,
consulente econometrico ADUSBEF, ha analizzato un
centinaio di casi giungendo alle seguenti conclusioni:
“ad esempio l’andamento tipico di un conto corrente
affidato per 100, consideriamo un saldo iniziale 0 al
tempo t0 mentre in t2 avremo il primo versamento fuori
affidamento. Ne consegue che in corrispondenza di t1
(compreso tra t0 e t2) è individuato il saldo
immediatamente precedente al versamento fuori
affidamento. Per cui, nell’intervallo tra t0 e t1, il
conto rimane costantemente entro i limiti del fido e,
per effetto del ricalcolo, nell’arco di tempo compreso
tra t0 e t1, tutte le competenze illegittime sono state
eliminate. Poniamo il caso che t1 corrisponda ad un
saldo fuori fido per 101: richiamando il principio sopra
enunciato dalla Cassazione secondo cui l’ammontare della
rimessa (avente natura solutoria) non potrà mai eccedere
la differenza tra il saldo del conto corrente e
l’affidamento concesso, quantifichiamo con 1 il limite
massimo avente tale natura solutoria. Infatti,
considerando al tempo t2 un versamento di 5, il quale
costituisce il primo pagamento effettuato fuori dai
limiti del fido (ricordiamo che per il periodo
precedente a t1 il correntista è rimasto costantemente
sotto il fido), avremo che in t2 quell’ 1 rappresenta il
limite massimo del pagamento solutorio, mentre i
restanti 4 andranno a ripristinare la disponibilità del
conto. Resta in ultima analisi da chiarire la
problematica di quali voci si andranno a pagare con le
rimesse individuate come sopra descritto. L’ammontare
pari a 1 coprirà il pagamento delle competenze che sono
maturate (esclusivamente extrafido) nell’intervallo di
tempo compreso tra t1 e t2. Continuando ad applicare la
regola del limite sopra richiamata e considerando il
periodo successivo compreso tra t2 e t4 (in cui in t4 si
ha il successivo versamento extrafido ed in t3 il saldo
immediatamente precedente al versamento fuori
affidamento), avremo che in t4 saranno pagate le
ulteriori competenze maturate oltre il limite
dell’affidamento. Così operando, mediante versamenti
individuati come solutori, si pagano di fatto le
competenze maturate oltre gli affidamenti concessi, sino
ad arrivare alla chiusura del rapporto. Solo a questo
punto sarà quindi possibile aggiungere al saldo così
ricalcolato, già comprensivo delle competenze extrafido
pagate con versamenti solutori, anche le competenze
(entro fido) ricalcolate in corso di rapporto.
Andamento di un rapporto di conto corrente ricalcolato
senza tener conto dei pagamenti solutori:

Andamento dello stesso conto corrente considerando
solutori i pagamenti exrafido:

Risulta evidente che il risultato finale tra l’andamento
di un normale rapporto di conto corrente ricalcolato
senza tener conto dei pagamenti solutori e quello dello
stesso conto corrente considerando solutori i pagamenti
extrafido è pressoché uguale: infatti i grafici sono
quasi simili. |