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SICUREZZA URBANA, PAURA INDIVIDUALE E DIRITTI COSTITUZIONALI-Stefano Rossi –Persona e danno.it

 

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La sicurezza come problema complesso

 

Il tema della sicurezza è antico: esso corrisponde ad aspetti fondamentali della condizione umana, alla nostra condivisa vulnerabilità ed esposizione al rischio, nozioni queste ultime che stanno catalizzando progressivamente l’attenzione di chi si occupa dei processi e delle trasformazioni sociali, nonché delle questioni attinenti allo sviluppo del diritto e delle specifiche questioni concettuali che lo accompagnano.

Basti pensare che la grande tradizione della filosofia politica e giuridica moderna nasce con il tema della mancanza di sicurezza dello stato di natura, che richiese la costruzione di un ordine artificiale, l’ordinamento giuridico-politico, capace di assicurare la prevedibilità dei comportamenti, la certezza delle aspettative, la fissità rassicurante delle regole – in sintesi, l’universo concettuale della sicurezza è strettamente connesso con lo Stato moderno e le sue configurazioni[1].

Sicurezza è diventata nozione forte nei tempi più recenti per via dei due fenomeni congiunti della globalizzazione, da una parte, e delle nuove tecnologie, dall’altra. Avviene allora che temi che una volta sarebbero stati declinati in termini di «ordine pubblico» vengono ora concettualizzati come problemi di sicurezza[2] sia che si parli di microcriminalità urbana che di terrorismo. Anche altre questioni fondamentali tradizionalmente afferenti alla «giustizia sociale» vengono percepite come problemi di sicurezza (a partire dal posto di lavoro sino alle più generali politiche di welfare) così come alla sicurezza e alla sua grammatica rinviano le recenti crisi economiche. Infine spesso le  riflessioni sul diritto soggettivo alla privacy, in relazione alle innovazioni apportate dalle tecnologie informatiche, vengono discusse nell’arena pubblica legandole alla sicurezza e a questo fine vengono approvate normative, convenzioni, nuovi provvedimenti e regole che mutano gli scenari anche costituzionali.

La sicurezza sta in pratica diventando il punto di vista, il catalizzatore semantico, dal quale si concettualizzano molti degli altri valori ai quali si fa riferimento per legittimare una policy o una direzione decisionale: sia che si tratti di questioni ecologiche, di energia più o meno “sicura”, che di affrontare la sfida dei fenomeni migratori che stanno rapidamente cambiando il volto demografico del Paese; sia che si tratti di pensare alle città, ai nuovi conflitti e agli attori sociali, oltre alle politiche sociali che riguardano le persone che le abitano[3].

La sicurezza è quindi un concetto polisemico i cui diversi profili la lingua italiana non è in grado di esprimere appieno. E’ invece nella lingua inglese che tutte le potenzialità di tale concetto vengono a trovare espressione attraverso l’utilizzo di tre termini: security [sicurezza esistenziale], ossia la certezza che qualunque cosa sia stata conquistata o conseguita rimarrà in nostro possesso; qualunque obiettivo raggiunto conserverà il suo valore; il mondo nel quale viviamo è stabile come il nostro stile di vita e le nostre tradizioni[4]; certainty [certezza], la nostra bussola che ci consente di muoverci nell’ambito delle relazioni sociali sapendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, quali condotte sono punite, censurate o consentite; safety [incolumità], ossia la tutela e conservazione della nostra persona, dei nostri cari e dei nostri beni contro i pericoli che possono incombere e provenire dall’esterno.

La sua natura caleidoscopica rende il concetto di sicurezza è uno dei nodi cruciali che la cultura contemporanea deve affrontare, essendo divenuto il referente privilegiato del vocabolario della discussione pubblica ma anche, più in specifico, mediatica.

Nel discorso pubblico, i termini analizzati subiscono una commistione, integrandosi in modo da far sì che il riferimento ai concetti di sicurezza e insicurezza sia divenuto un frame egemone, se non addirittura dominante, fino a sovvertire – come avviene nel nostro paese – l’ordine di priorità tra dato statistico dei crimini commessi e percezione sociale della sicurezza oppure fino ad assorbire, entro la sua potente sfera semantica, problemi originati da altri processi. Si pensi al fenomeno delle morti sul lavoro, che in Italia è una piaga se non una vera e propria emergenza sociale: basti dire che nel nostro paese si muore sul lavoro quasi il doppio che in Francia, il 30% in più rispetto a Spagna e Germania. Nel 2010 hanno perso la vita 1.080 lavoratori (+ 6,5% rispetto al 2009) e si sono verificate più morti bianche che omicidi, così come – prestando attenzione ad un altro versante – i decessi in incidenti stradali sono stati sei volte più numerosi degli omicidi.

Nonostante questi dati di fatto, il sistema mediatico e le autorità sono concentrate sulla criminalità, specie quella micro, lasciando ai margini le cause profonde dell’insicurezza: emerge così la questione centrale del rapporto tra sicurezza effettiva e percezione della sicurezza.

Seppure le statistiche storiche sulla criminalità ci dicano che il numero dei delitti, in particolare di quelli contro la persona - omicidi, risse, violenze, lesioni – sia diminuito, in proporzione alla popolazione, rispetto a qualche decennio fa e ancor più rispetto a un secolo fa[5], l’allarme sociale legato al tema sicurezza non tende a scemare nelle priorità degli italiani.

Si tratta di una paura in gran parte costruita dalla politica e dai media. In contrasto con la diminuzione oggettiva della criminalità, le statistiche ci rivelano infatti che il tempo dedicato dai telegiornali alla cronaca dei delitti è più che raddoppiato negli ultimi quattro anni. Secondo le analisi riferite dal Centro di ascolto radicale, lo spazio dedicato dai telegiornali alle notizie di cronaca nera è passato dal 10,4% della loro durata nel 2003 al 23,7% nel 2007[6] con un aumento vertiginoso sino al 323%. Inoltre è da notare che ai fatti di sangue, tanto più se efferati e spaventosi, sono stati dedicati lunghi dibattiti televisivi. Si aggiunga che questi dati, in Italia, sono cresciuti in maniera esponenziale durante la campagna elettorale, vinta non a caso dalla destra che ha cavalcato la politica della paura, promettendo e poi introducendo inasprimenti punitivi orientati unicamente nei confronti della criminalità di strada.

Alla sicurezza, al rischio, alla vulnerabilità, si accompagna una parola chiave, anch’essa centrale del lessico politico a cominciare da Hobbes: la paura.

Tuttavia, nel dilagante senso di insicurezza «si nutrono a vicenda due paure. Una paura reale, concreta, connessa alla socialità e alla sopravvivenza, e una paura strisciante che tocca il significato dell’essere e della sua individualità. La contaminazione tra le due paure è costante, particelle si incontrano, si influenzano, si mescolano fino a produrre una paura ancora maggiore, che esplode nell’immaginario»[7].

La necessità di sicurezza, intesa in senso esistenziale, è alla base di quell’atteggiamento della maggior parte delle persone che confidano nella continuità della propria identità e nella costanza dell’ambiente sociale e materiale in cui agiscono. Essa è quindi intimamente connessa alla routine, e dipende dalla diffusione delle abitudini e dalla familiarità delle relazioni.

Per questo, spesso, nella rivendicazione dell’insicurezza e nella conseguente richiesta di sicurezza e di ordine allo Stato, così come nella scelta di operare in tale direzione privatamente, vi è qualcosa di più della paura della criminalità, entrando in gioco il problema più ampio del disordine sociale. In tal senso si viene a legare la nozione dell’insicurezza ai fenomeni sintomatici di una messa in prospettiva dei rapporti con l’Altro, lo straniero, a colui che, attraverso i suoi atti o la sua presenza, tende a creare una certa destabilizzazione relazionale.

L’ “altro” realizza infatti un’alterazione delle regole comunicative abituali, introducendo in un dato contesto delle ansie esistenziali che prendono la forma del sospetto e dell’ostilità. In tal senso, la violazione delle abitudini sociali che si verifica in seguito alla rapidità delle trasformazioni dello stesso ambiente urbano, in occasione per esempio di cambiamenti sociali, del mercato immobiliare o di operazioni speculative, pongono gli individui, spesso i più fragili e isolati, di fronte a condizioni nuove e non decodificabili. Quindi sebbene la vita moderna imponga, come si sa, di vivere con gli stranieri, si deve anche constatare come vivere con gli stranieri sia in ogni epoca una vita precaria, snervante e impegnativa[8].

L’insicurezza è quindi anche il frutto dell’incapacità di adattamento, ossia della difficoltà di porre una distanza cognitiva tra il sé e l’altro, il che provoca la destabilizzazione del sistema di orientamento e l’abbassamento della soglia di tolleranza alla frustrazione, dovuta alla mancanza di controllo sulle circostanze della vita.

Anche alla luce delle precedenti considerazioni, si può fondatamente sostenere come non siano i grossi delitti isolati o le forme di criminalità insolite e condannate in modo generalizzato a creare la paura, quanto piuttosto tutta quella serie di “inciviltà” diffuse che denunciano la difficoltà dei rapporti con gli altri, la messa in crisi della possibilità del vivere collettivo da parte di soggetti che, in quanto portatori di altre abitudini e altri costumi, sembrano non accettare le regole ritenute alla base di una convivenza civile.

Numerose ricerche hanno poi rilevato che la natura della fear of crime può essere ricondotta a una condizione di precarietà sociale economica, alla fragilità e all’isolamento dell’identità personale[9]. Abbastanza chiare appaiono le logiche sociali, culturali e ideologiche che sottendono il manifestarsi della paura: più il livello culturale e la categoria sociale sono elevate, meno si provano delle paure. All’inverso, la paura è proporzionale alla povertà materiale e culturale[10]. Più in generale si può dire che l’insicurezza può essere messa in relazione con il contesto della qualità della vita[11].

Così la paura di perdere il lavoro, o di non trovarlo affatto (che sta all’origine dell’insicurezza delle nuove generazioni), la paura di non avere un’identità sociale, la paura di ciò che è sconosciuto e diverso – da cui si origina, sulla base di stereotipi e pregiudizi, l’odio per lo straniero, per il migrante, nonché il «ritorno della razza» nel discorso pubblico –, la paura di non essere omologati, ovvero riconosciuti, e quindi di vivere la solitudine e di essere alla «mercé dei rischi», sono tutte facce dell’enorme incertezza che pervade l’uomo nell’«età della globalizzazione».

Tale condizione genera un processo che si sviluppa sostanzialmente tra due precisi poli che lavorano nell’uomo: si oscilla tra la paura del sosia e quella del mostro.

Cosa intendo dire: semplicemente che si ha paura sia dell’altro troppo uguale a sé, sia dell’altro troppo diverso da sè. L’arrivo improvviso dell’altro mette in vibrazione questa soglia. Se, poi, questo arrivo è massivo e repentino, ciò mette contemporaneamente alla prova altre soglie critiche: quella dei mutamenti sostenibili e quella della loro rapidità. E la risonanza molteplice provocata da simili eventi può diventare, in ogni individuo, ingovernabile, mettendo in moto distruttivi meccanismi di autodifesa, come pregiudizi, proiezioni, immaginazioni persecutorie – tutto quel ventaglio regressivo di sindromi che attivano il fenomeno del ‘capro espiatorio’ (Arendt). Così il singolo, non più membro di una comunità coesa, ma monade in un sistema privo di corpi intermedi, può sentirsi, a un tratto, sradicato in casa propria, può cominciare a vivere quell’inquietudine segreta che oscilla fra una coatta, omologante appartenenza che schiaccia nell’identità collettiva e una totale disappartenenza che strappa dalla radice. E questa inquietudine sommersa può entrare in risonanza con quella di tanti altri, generando spirali di reazioni e gorghi emozionali di massa che possono venire, in momenti topici, allo scoperto improvvisi, determinando movimenti regressivi di massa (Elias Canetti).

Non si tratta solo di una questione teorica. L’insicurezza colpisce in concreto, in corpore vili, si tramuta in violenza, odio, frustrazione, avvilimento, depressione. Ciò porta gli individui a difendere, senza troppi scrupoli, il proprio “spazio vitale” in modo egoistico (ad es. si respingono gli sconosciuti, ci si arma, ci si isola…): in tal modo, creando un meccanismo perverso, la «fabbrica della paura» e «la fabbrica dell’insicurezza» fabbricano violenza, dal contesto urbano a quello globale.

Il saldarsi di insicurezza, paura e incertezza, chiamano così in causa al fine di dare risposte ragionevoli, da un lato, la necessità di mettere in atto strumenti di analisi multi e interdisciplinare, dall’altro di pensare a strategie che colgano le cause dell’insicurezza e sappiano suggerire politiche di sicurezza, senza esserne divorati e senza cadere nella logica della mera percezione che detta e orienta l’azione.

Occorre mettere in atto un approccio “integrato”, che colga appieno le diverse forme di sicurezza (e insicurezza), le loro correlazioni con altri fattori, le loro tensioni con altri elementi (in primis i diritti fondamentali delle persone). Solo adottando un tale approccio si può cercare di far uscire la sicurezza da quel ventre oscuro che è il suo habitat naturale ed evitare che derive securitarie non facciano altro che alimentare nuova insicurezza, che la paura sia la soluzione, o addirittura un «investimento politico», che la sicurezza stessa diventi un’ossessione.

E’ per questo che al concetto di insicurezza si può contrapporre quello di fiducia, quale antidoto alla paura sociale, nella misura in cui solo il grado di integrazione sociale, di forza dei legami sociali e di fiducia condivisa, in una parola il livello del “capitale sociale”, aiutano ritessere la trama spezzata di una comunità solidale, dando vita ad una nuova concezione della cittadinanza che si richiami ai principi della costituzione (cd. patriottismo costituzionale).

Dove manca la fiducia infatti, la paura regna incontrastata. Come ha scritto Bauman, ne «La solitudine del cittadino globale», l’insicurezza di oggi assomiglia alla situazione che potrebbero provare i passeggeri di un aereo nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota, che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima. L’insicurezza delle condizioni di vita, insieme con l’assenza di un’istituzione cui rivolgersi con fiducia, un’istituzione capace di mitigare quell’insicurezza o perlomeno di ascoltare le richieste di maggiore sicurezza, arrecano un danno particolarmente profondo alla politica della vita e al tessuto della comunità[12]

La caduta di fiducia nelle capacità dello Stato di fornire sicurezza e legittimità attraverso il welfare e la regolazione economica, apre al sistema penale un’opportunità per forgiare e mobilitare il consenso sociale tra le popolazioni colpite dalla paura[13]. In tal modo, concretando quel processo di manipolazione prima denunciato, la domanda di sicurezza viene strumentalizzata per mobilitare solo quell’azione istituzionale, locale e statale, diretta al mantenimento dell’ordine sociale (o meglio dell’ordine pubblico) in virtù dell’intervento del sistema penale[14].

Ma per sventare tale rischio, non è più possibile ricorrere ad un generico richiamo ai valori condivisi o agli antichi mores[15], oggi il recupero del legame sociale può avvenire solo a livello simbolico: è in questa direzione che nascono le nuove politiche di gestione dell’insicurezza, indirizzate allo sviluppo di forme di cittadinanza attiva e consapevole, attraverso la creazione di reti tra istituzioni e società civile, in particolare a mezzo dell’organizzazione di programmi di supporto per le vittime, di conciliazione e di mediazione, non solo come risposte alla criminalità, ma anche con funzioni preventive.

Obiettivo dei suddetti programmi è proprio la restaurazione di quel legame sociale la cui carenza appare essere causa primaria, ad un tempo, sia del diffondersi del fenomeno criminale che del timore di esso, siano o meno le due realtà in correlazione: ricostruzione che prescinde dalla vicinanza materiale dei soggetti e si concentra sugli effetti rassicuranti di politiche di cogestione del territorio e condivisione degli aspetti problematici dell’esistenza.

 

Le ordinanze sindacali come segno dei tempi

 

Con il D.L. n. 92 del 23 maggio 2008 convertito in Legge 24 luglio 2008, n. 125 si sono introdotte o modificate una serie di disposizioni eterogenee, tutte accomunate dall’obbiettivo di affrontare e risolvere la generale questione della «sicurezza» o meglio della percezione dell’insicurezza da parte di larghi strati della popolazione.

Questo provvedimento tuttavia – così come il successivo «pacchetto sicurezza» approvato con L. n. 94/2009 – «invece che rivolgersi all’efficienza simbolica dei valori costituzionali, [rappresenta l’esplicazione] del simbolismo efficientista proprio della politica spettacolare» [16], nella quale la base di legittimità delle decisioni legislative si rinviene nel sostegno elettorale, e non nel consenso sui valori costituzionali, creando un processo artificiale di legittimazione, in cui viene realizzato lo scambio tra illusioni di sicurezza e voti  [17].

Tra le modifiche apportate, quella che rileva nella specie attiene all’art. 54 T.u.e.l., volto a disciplinare le «attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale» [18], il cui novellato comma 4 prevede che il sindaco possa emanare anche ordinanze contingibili ed urgenti a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana .

Ciò ha contribuito a una nuova «primavera» nell’utilizzo delle ordinanze da parte dei sindaci, in particolare da parte di quelli dei Comuni medio-piccoli, i quali, in una sorta di rincorsa imitativa, hanno fatto a gara nell’adottare le ordinanze più disparate[19] che, in modo più o meno efficace, potessero rispondere alle situazioni di insicurezza percepite nei singoli territori  [20].

La stabilizzazione crescente dello strumento dell’ordinanza nell’ordinamento giuridico, rappresenta tuttavia una deriva della funzione normativa dagli organi legislativi agli apparati amministrativi, che pur muovendo da condivisibili principi di autonomia e differenziazione, finisce col favorire la creazione di tanti «microordinamenti» accomunati piuttosto che da filo logico-normativo, dall’urgenza di provvedere ad emergenze o pericoli non adeguatamente affrontati a livello nazionale e perciò irrisolti e strutturali.

Tale modifica ha inoltre condotto all’ampliamento della nozione di sicurezza urbana, in cui vengono a confluire non soltanto fenomeni di microcriminalità, ma situazioni riconducibili al disagio sociale, al decoro, al degrado urbano.

E’ utile rammentare come, nonostante i persistenti vincoli normativi e il riaffermato monopolio dello Stato centrale in materia di sicurezza, negli ultimi quindici anni anche in Italia i sindaci siano stati chiamati direttamente in causa sui problemi della sicurezza urbana, divenendo quindi, in una prima fase anche loro malgrado, gli attori emergenti delle nuove politiche della sicurezza urbana, in quanto, indipendentemente dai loro poteri reali in materia, considerati dai cittadini i responsabili primi della vivibilità urbana. Tale condizione ha portato i sindaci ha fare largo uso dei poteri di ordinanza sia per rivendicarne una estensione in grado di meglio corrispondere alle esigenze di sicurezza sentite dalla popolazione, sia per farne applicazioni innovative[21].

Ciò tuttavia ha posto non pochi problemi in ordine al rapporto tra i poteri ed organi dello Stato, ha creato tensione nel sistema delle fonti, in particolare nel caso di incidenza dei provvedimenti sindacali su diritti e libertà individuali, per attività che pur non considerabili di per sé illecite (si pensi al caso dell’esercizio della prostituzione), finiscono con l’essere sanzionate sulla base di provvedimenti locali secondo presupposti e modalità anche profondamente differenti nei vari contesti territoriali.

E’ utile sottolineare come il Tar Veneto, sez. III, 22 marzo 2010, n. 40 abbia contestato la legittimità costituzionale dei caratteri propri del potere di ordinanza come configurato dall’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267 (modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125). In primo luogo la disposizione, nel prevedere un potere d’ordinanza così configurato, viola i limiti costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità enucleabili dagli artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 Cost. e chiaramente sanciti dalle sentenze della Corte Costituzionale 2 luglio 1956, n. 8, 27 maggio 1961, n. 26 e 4 gennaio 1977, n. 4, e 28 maggio 1987 , n. 201. In base a tali pronunce il potere di ordinanza si deve fondare sulla contingibilità ed urgenza che costituiscono il presupposto, la condizione e il limite per consentire di derogare, nel rispetto dei soli principi generali dell’ordinamento, alla disciplina vigente nei vari settori di intervento, e per legittimare l’assunzione delle competenze in capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato. Le norme che prevedono il potere di ordinanza devono pertanto mantenere indefettibilimente il contenuto provvedimentale dell’atto, l’obbligo di motivazione, l’efficacia limitata nel tempo delle ordinanze. Le ordinanze inoltre, anche se e quando - eventualmente - normative, non possono poi mai essere ricomprese tra le fonti dell’ordinamento giuridico, non possono innovare al diritto oggettivo, né, tanto meno, possono essere equiparate ad atti con forza di legge, per il sol fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge. Sotto questo profilo l’art. 54, comma 4, avendo previsto una vera e propria fonte normativa libera con valore equiparato a quello della legge, viola pertanto la riserva di legge di cui agli artt. 23 e 97, e gli artt. 70, 76, 77 e 117 che demandano in via esclusiva alle assemblee legislative statali e regionali il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge. Risultano altresì violati gli artt. 3, 23 e 97 Cost. quali norme che costituiscono il fondamento costituzionale delle libertà individuali e del principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative, cristallizzato, a livello di normazione primaria, nell'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Infatti l'art. 23 della Costituzione prevede che le prestazioni personali e patrimoniali non possono essere imposte ai singoli se non in base alla legge, in quanto solo il legislatore statale, col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, può essere interprete e custode dell'opera di bilanciamento tra valori e beni costituzionalmente rilevanti e tra loro confliggenti, mediante l’imposizione di obblighi, divieti e sanzioni. Seppure si tratti di una riserva relativa, tuttavia la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 4 del 1957, ma altrettanto significativa è la sentenza n. 447 del 1988, ha indicato i limiti e le garanzie necessarie a far ritenere rispettato il principio della riserva di legge relativa stabilito dall’art. 23 Cost., precisando che la legge deve stabilire i criteri idonei a regolare eventuali margini di discrezionalità lasciati alla pubblica amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione ed inoltre che, al fine di escludere che la discrezionalità possa trasformarsi in arbitrio, la legge deve determinare direttamente l’oggetto della prestazione stessa ed i criteri per quantificarla. La norma della cui legittimità costituzionale si dubita ha invece attribuito un potere normativo che, dovendo rispettare solo i principi generali dell’ordinamento ed essendo disancorato da specifici e localizzati presupposti fattuali insiti nei concetti della contingibilità ed urgenza, è tendenzialmente illimitato e, in quanto tale, autorizzato a dettare regole di condotta e sanzioni che conculcano la sfera di libertà dei singoli garantita invece dal principio «silentium legis, libertas civium».

Tale è l’indeterminatezza che caratterizza la disposizione che essa inevitabilmente finisce per autorizzare l’arbitrio e la sistematica sovrapposizione con norme penali incriminatici (è il caso ad esempio delle ordinanze sulla vendita di alcolici a minori di anni 16 o sullo spaccio di droga) oltre che sconfinamenti in fattispecie che sono esercizio di diritti di libertà, naturalmente attratte, per il principio della riserva di legge assoluta o relativa, alla competenza statuale, con conseguente violazione degli artt. 13 sulla libertà personale, 16 sulla libertà di circolazione e soggiorno, 17 sulla libertà di riunione, e 41 in materia di disciplina dell’iniziativa economica (ad esempio con i divieti generalizzati alla vendita di alcolici in deroga alle norme statali e regionali vigenti o i divieti che fissano limiti di reddito per l’iscrizione all’anagrafe di cittadini comunitari ed extracomunitari previa dimostrazione della liceità delle loro risorse economiche), oltre che negli ambiti di competenza legislativa regionale previsti dall’art. 117 della Costituzione.

Infine tale disposizione autorizza una irragionevole e ingiustificata frammentazione di discipline recanti divieti, obblighi di fare e di non fare profondamente diversificati (sotto il profilo della liceità o meno delle condotte e della misura e della tipologia di sanzioni irrogabili) tra i territori dei Comuni (che nella Repubblica sono più di 8.000), in ambiti che, essendo riconducibili a diritti e libertà individuali costituzionalmente rilevanti, richiederebbero invece un esercizio unitario a livello statuale. Ne risultano vulnerati, in combinato disposto con il criterio della ragionevolezza di cui all’art. 3, i principi di uguaglianza di cui all’art. 2, di unità ed indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5, di legalità di cui all’art. 97, e di riparto delle funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost.

Per comprendere in concreto il senso delle eccezioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale amministrativo, vorrei richiamare qui alcune materie e provvedimenti indicativi ed esplicativi del fenomeno di cui stiamo parlando: a) le ordinanze sulla prostituzione, bocciate dai giudici amministrativi in quanto «l’ordinamento vigente [infatti] non consente la repressione di per sé dell’esercizio dell’attività riguardante le prestazioni sessuali a pagamento …» e conseguentemente vietare «su tutto il territorio comunale senza limiti […] condotte che, descritte in modo approssimativo e generico, possono risultare in concreto non lesive di interessi riconducibili alla sicurezza urbana …» appare del tutto irragionevole. In materia va peraltro ricordato come il diritto alla libertà sessuale inteso come diritto di disporre liberamente della propria sessualità, è da intendersi come uno dei modi essenziali di espressione della persona umana e della sua libertà personale, riconosciuto dalla Corte costituzionale come «un diritto soggettivo assoluto che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 impone di garantire» (Corte cost., sent. 561/1987); b) ordinanze in materia di religione - Alcuni provvedimenti anche risalenti al periodo precedente alla riformulazione dell’art. 54 T.u.e.l. hanno interessato la delicata tematica dei luoghi e dei simboli religiosi. Si tratta di provvedimenti non riconducibili ad una tipologia unitaria, ma che tuttavia rappresentano la coerente espressione di quella che è stata definita come «politica della purezza» etnica e religiosa, che si pone in contrasto con i valori fondanti la nostra carta costituzionale. Tra questi vanno ricomprese le recenti ordinanze che hanno imposto di mantenere il crocefisso all’interno delle scuole del territorio comunale, così come il provvedimento adottato da un Comune bresciano che, al fine di salvaguardare i valori cristiani, aveva disposto «il divieto ai non professanti la religione cristiana di accedere ai luoghi sacri e di culto della predetta religione», nonché «l’istituzione di un’area di protezione e di sicurezza pari a mt. 15 lineari intorno ai luoghi sacri e di religione cristiani». Anche tali ordinanze sono state oggetto di censura da parte dei giudici amministrativi, in particolare come ricordato dal Consiglio di Stato, il divieto di discriminazione religiosa comporta che nessun effetto nell’ordinamento giuridico possa prodursi a causa della professione di fede, che resta un fatto personale pure tutelato dall’ordinamento ma privo di riflessi giuridici. La religione non è uno dei fatti ai quali un provvedimento amministrativo può ricollegare degli effetti, restando l’ordinamento del tutto indifferente rispetto alle credenze religiose dei propri cittadini o residenti. E ciò vale sia per lo Stato sia, a maggior ragione, per qualsiasi esercente pubbliche funzioni; c) ordinanze in materia di requisiti per le pubblicazioni matrimoniali - prima dell’approvazione del decreto Maroni, alcuni sindaci avevano adottato atti che in caso di richiesta di matrimonio da parte di un cittadino extracomunitario, imponevano agli ufficiali di stato civile di richiedere il permesso di soggiorno. Qualora questi ne fosse sprovvisto, venivano proibiti il ricevimento della domanda di matrimonio e la celebrazione del matrimonio.

In altre ordinanze di simile contenuto si disponeva il dovere di ricevere comunque le pubblicazioni, riconoscendo che sposarsi è un diritto della persona, ma nel momento in cui il richiedente fosse risultato «irregolare» o semplicemente «presunto irregolare», rifiutandosi per esempio di esibire il permesso di soggiorno, era prevista una segnalazione alle autorità di polizia.

Al momento dell’approvazione di tali ordinanze la legge non contemplava la regolarità del soggiorno tra i requisiti per ottenere le pubblicazioni o per la celebrazione del matrimonio, né la clandestinità costituiva reato: alla richiesta delle pubblicazioni l’ufficiale di stato civile avrebbe dovuto limitarsi a chiedere i documenti prescritti e non invece richiedere ulteriori requisiti non previsti dal legislatore. In proposito va ricordato che il diritto di formare una famiglia rientra fra i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione (art. 29) e dalla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo (art. 12) a prescindere tanto dalla cittadinanza quanto dalla regolarità del titolo di soggiorno.

Stante la riserva di competenza in materia attribuita allo Stato (ex art. 117, 2 co., lett. i) Cost.) il Comune e quindi il sindaco avrebbero dovuto esercitare un’attività vincolata nell’an e nel quid, dovendo applicare la disciplina dettata dal legislatore statale, senza intervenire con autonomi poteri normativi volti a introdurre deroghe, modifiche o limitazioni.

Su questa scia il cd. «Pacchetto sicurezza» (L n. 94/2009), modificando l’art. 116 c.c., ha introdotto per gli stranieri che vogliono celebrare il loro matrimonio in Italia l’obbligo di esibire un documento che dimostri la regolarità del soggiorno nel territorio italiano.

Tale innovazione legislativa, frutto avvelenato della stagione delle ordinanze, è stata oggetto di impugnazione avanti la Corte costituzionale da parte del Tribunale di Catania e del Giudice di Pace di Trento, i quali, dopo aver rilevato che il diritto di contrarre matrimonio costituisce un diritto fondamentale della persona espressamente riconosciuto dalla Convenzione dell’ONU sui diritti umani (art. 16), dalla Conv. eur. dir. uomo e le libertà fondamentali (art. 12), dalla Carta di Nizza (art. 9), hanno eccepito il contrasto della novella con il diritto inviolabile dell’uomo a contrarre matrimonio (art. 2), in quanto diretto a garantire la piena espressione della persona umana, inoltre con l’art. 3 Cost., in quanto tale diritto deve essere garantito a tutti, in posizione di eguaglianza, come aspetto essenziale della dignità umana ed infine ai sensi dell’art. 31 Cost. che ascrivere tra i compiti della Repubblica l’agevolare la formazione della famiglia (oltre che l’adempimento dei compiti relativi)[22].

Questo esempio dimostra come le ordinanze sindacali abbiano rappresentato una sorta di «laboratorio» normativo ove sperimentare nuove soluzioni per rispondere alle problematiche della sicurezza urbana.

I contenuti di talune ordinanze, in una sorta di fenomeno «ascensionale», sono stati riadattati e adottati dal legislatore nazionale, che ha fatto propria anche la filosofia di fondo che li ispirava.

Come anticipato, in particolare, la legge n. 94/2009 ha rappresentato l’apice di questo processo, consentendo l’inserimento di una congerie di micro-disposizioni in ambiti disciplinari disparati, con l’intento di contribuire al rafforzamento delle tutele contro la criminalità organizzata, all’inasprimento delle sanzioni contro il degrado urbano, alla stretta repressiva del fenomeno migratorio [23].

Anche tali provvedimenti sono espressione dello «spirito del tempo» e confermano che il valore della sicurezza sta scacciando quello della libertà, «al fine di difenderci da una paura priva di un indirizzo e di una causa chiari, che ci perseguita senza una ragione, che prende la forma di una minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente» [24].

In questo quadro può essere letto anche l’art. 1, 18 co. del «decreto sicurezza» [25], che prevede per l’iscrizione anagrafica e le relative richieste di variazione la facoltà per i comuni di dar luogo alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza [26].

Al di là delle inconsistenti ragioni propagandate per giustificare l’approvazione di tale norma, scopo della modifica pare quello di utilizzare il requisito igienico sanitario dell’alloggio come strumento per selezionare le minoranze indesiderabili ed escluderle dal circuito della cittadinanza, impedendone l’iscrizione anagrafica [27].

Si rammenta infatti come la residenza sia il presupposto per accedere ai servizi sociali, sanitari, d’istruzione e ai servizi elettorali e scolastici attivati nel comune, ma anche per ottenere il rilascio della carta d’identità e di tutte le certificazioni anagrafiche e dello stato civile e per molte altre prestazioni e servizi sociali erogati e previsti dalle leggi statali e regionali [28].

La perdita della residenzialità trascina con sé quindi altre forme di esclusione dai processi di riconoscibilità sociale e politica del soggetto, significando una concreta e vasta mutilazione della sua stessa capacità giuridica, che corrisponde, per alcuni versi, ad una pallida, ma pur sempre odiosa, riedizione della morte civile. L’individuo «errante», non collocabile, almeno formalmente, all’interno di un dato contesto spaziale si presenta infatti come uno «sradicato» che, insieme ai diritti di cittadino, ha perso anche progressivamente un’appartenenza culturale, l’ancoraggio sociale al tessuto urbano di appartenenza [29].Questa condizione non lede soltanto un diritto della persona, ma anche un interesse pubblico, in quanto l’itinerario del declino (povero, non residente, sconosciuto, non aiutabile, estraneo, nemico), se costituisce una condanna per il singolo, è pure un pericolo per la comunità, che subirà l’acuirsi del conflitto urbano e il diffondersi del danno sociale.

 

Quali prospettive ?

 

Come ricorda Bauman[30], una politica capace di affrontare i problemi della post-modernità deve essere guidata dal triplice principio di libertà, di differenza e di solidarietà; di tali principi, però, quello che è decisivo è l’ultimo, perché è la solidarietà che costituisce la condizione essenziale per la vitalità ed il pieno sviluppo della libertà e della differenza. La sicurezza, infatti, serve a garantire l’esplicazione della nostra libertà e l’affermazione delle nostre diversità individuali, ma senza solidarietà, nessuna libertà è sicura.

È per tale ragione che il Manifesto di Saragozza sulla insicurezza urbana e la democrazia[31] ricorda che la sicurezza è un bene comune essenziale, indissociabile da altri beni primari, quali l’inclusione sociale, il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione, alla cultura, e che è l’accesso ai diritti a facilitare e rendere possibile il diritto alla sicurezza.

Per superare i rischi insiti nel fenomeno analizzato credo sia necessario ritornare a dare priorità alla «sicurezza dei diritti», riguardata in termini promozionali, rispetto al presunto «diritto alla sicurezza» e che si riverbera anche sul concetto stesso di libertà: garantire lo Stato sociale significa «rendere effettivi i diritti di libertà», assicurare «agli individui un minimo di beni materiali, senza i quali non potrebbero realizzare in pratica la loro libertà», intesa sia come indipendenza sia come autodeterminazione o autorealizzazione. In ciò sta il principale «salto di qualità» del costituzionalismo, che, «partendo da differenti matrici culturali, risponde positivamente alle sollecitazioni volte ad arricchire il suo ruolo, a recepire, cioè, le domande che provengono dallo sviluppo storico-sociale».

La necessità di prevenire situazioni di rischio, riguardata anche in termini dinamici come esigenza di «garanzia della continuità nel tempo del godimento di diritti e di aspettative future, attraverso la prevenzione dei bisogni dell’esistenza», non può comportare la regressione e la perdita del valore prioritario di guida del principio di libertà. Quest’ultimo deve «conservare la propria capacità di orientamento nei confronti delle misure adottate in situazioni di emergenza», imponendo, tra l’altro, sia «un’interpretazione rigorosa dei canoni della necessità e della proporzionalità, finalizzata a lasciare off-limits molte misure estreme» sia «la temporaneità delle misure straordinarie». Per concludere sul punto con le parole di Paolo Ridola, «il risalto che le costituzioni del pluralismo conferiscono al principio libertà indirizza giocoforza verso ponderazioni orientate dal canone che configura la libertà come la regola e la sicurezza come l’eccezione»[32].


 

*Avvocato in Bergamo, cultore di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Bergamo. Relazione tenuta durante il convegno dal titolo “Sicurezza e legalità: cosa c’è alla base del bisogno di sicurezza ? ”, Villa di Serio, 25 marzo 2011, nell’ambito del ciclo di incontri “Costruire la cittadinanza”, organizzato dal Comitato bergamasco per la difesa della Costituzione e dal Coordinamento provinciale bergamasco enti locali per la pace

[1] Sono debitore di alcune delle presenti riflessioni da T. Casadei, L’universo concettuale della sicurezza: note sul recente dibattito, Relazione al seminario del del C.R.I.S. – Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza dell’Università di Modena e Reggio Emilia, 2008.

[2] Secondo L. Ferrajoli (L’illusione della sicurezza, Intervento al Festival del diritto, Piacenza, 26.09.2008), il messaggio, regressivo, trasmesso dalle campagne sulla sicurezza punta al mutamento, nel senso comune, del significato stesso della parola “sicurezza”: che non vuole più dire, nel lessico politico, “sicurezza sociale”, cioè garanzia dei diritti sociali e perciò sicurezza del lavoro, della salute, della previdenza e della sopravvivenza, né tanto meno sicurezza delle libertà individuali contro gli arbitri polizieschi. Significa soltanto “pubblica sicurezza”, declinata nelle forme dell’ordine pubblico di polizia e degli inasprimenti punitivi anziché in quelle dello stato di diritto. Essendo stata la sicurezza sociale aggredita dalle politiche di riduzione dello stato sociale e di smantellamento del diritto del lavoro e minacciata dal crescente impoverimento economico, le campagne securitarie valgono a soddisfare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale mobilitandolo contro il deviante e il diverso, preferibilmente di colore o extra-comunitario. E’ il vecchio meccanismo del capro espiatorio, che consente di scaricare sul piccolo delinquente – o anche solo sul povero e l’emarginato: si pensi alle campagne dei sindaci contro i mendicanti e i lavavetri - le paure, le frustrazioni e le tensioni sociali irrisolte. Con un duplice effetto: l’identificazione illusoria, nel senso comune, tra sicurezza e diritto penale, quasi che il diritto possa produrre magicamente la cessazione della delinquenza, e la rimozione, dall’orizzonte della politica, delle politiche sociali di inclusione, certamente più costose e impegnative ma anche le sole in grado di aggredirne e ridurne le cause strutturali.

[3] E’ questo un filone di analisi che concentra in particolare l’attenzione sulla questione del rapporto tra sistemazione del territorio urbano e sicurezza dei cittadini. Partendo dalla constatazione che esistono diversi gradi all’interno del fenomeno dell’insicurezza, il problema del rapporto con la programmazione del territorio viene normalmente affrontato su tre livelli: un primo livello relativo all’ambiente personale, che concerne la sicurezza privata dell’individuo nel suo habitat, un secondo livello relativo all’ambiente più vasto del quartiere di residenza, che interessa la sicurezza collettiva, ed infine un terzo livello, quello della città nella sua globalità, all’interno della quale, si sostiene, ogni forma di disequilibrio sociale costituisce un rischio per la sicurezza collettiva.

[4] La richiesta di sicurezza, che proviene dai singoli ma più spesso da gruppi più o meno consolidati, incorpora, in questa prospettiva, la rivendicazione del diritto esclusivo di costruire lo spazio sociale sulla base di criteri propri e non negoziabili. Essa intende, più precisamente, rivendicare un potere che viene minacciato dalla presenza forestiera. In questo caso la richiesta di sicurezza, in quanto diritto di costruire il proprio spazio sociale, può pure mettere a fuoco l’ansia diffusa, unificare i timori in un concreto tangibile pericolo - il criminale, l’immigrato, il drogato - che ora si può combattere e tenere lontano. Insomma, la condizione moderna è caratterizzata strutturalmente da un senso di insicurezza individuale e collettivo che non potrà mai essere posto in maniera definitiva sotto controllo, proprio perché è la società stessa che lo alimenta continuamente.

[5] In Italia, per esempio, il numero degli omicidi, che nella seconda metà dell’Ottocento era di circa 5.000 l’anno e negli anni 50 di quasi 2000 l’anno, è sceso l’anno scorso, con una popolazione quasi doppia rispetto a un secolo fa a 601; le lesioni volontarie sono diminuite negli ultimi cinquanta anni di circa due terzi; e lo stesso è avvenuto per le violenze sessuali, nonostante sia sicuramente diminuita la cifra nera degli stupri non denunciati. Perfino i furti e le rapine sono diminuiti.

 

[6] È interessante, per questo, considerare l’agenda dell’informazione proposta dai telegiornali nell’edizione di prima serata. Circa due terzi delle informazioni “criminali”, negli ultimi quattro mesi del 2010, sono state trasmesse da Studio Aperto (618), TG5 (512) e TG1 (440). Insieme, circa 1500 su 2300, quindi. All’opposto, il TG3 e il TG di LA7 presentano il numero minimo di notizie sui crimini. Circa 150 ciascuno. Meno rispetto al TG4 e al TG2, che dedicano, entrambi, 239 servizi all’argomento. Il TG3 e il TG di LA7 sono anche quelli dove il caso Scazzi è stato seguito di meno. Gli sono state riservate circa 50 notizie dal TG3, 40 dal TG7. Meno di metà di ogni altro, ma un terzo del TG5 e un quinto rispetto a Studio Aperto. Il TG di LA7 e il TG3, sono, di conseguenza, quelli che affidano alla criminalità lo spazio minore: l’11%. Al contrario, la politica occupa al loro interno la quota più ampia di notizie. Nel TG3: il 33%. Ma soprattutto nel TG di LA7, dove copre il 45% dello spazio complessivo. Mentre il TG1 e il TG5 dedicano alla politica uno spazio molto più limitato, intorno al 16%. (La sicurezza in Italia e in Europa . Significati, immagine e realtà - IV Rapporto sulla rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza in Europa, condotto da Demos&Pi, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis, 2011, in www.osservatorio.it).

[7] F. Vianello, D. Padovan, Criminalità e paura: la costruzione sociale dell’insicurezza, in www.cirfid.unibo.it

[8] Z. Bauman, Postmodern Ethics, Blacwell Publishers, Oxford, 1993; tr. it. Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996, 165

[9] Y. Bernard, North American and European research on fear of crime, in Applied Psychology: An International Review, n. 41, 1992.

[10] A. Percheron, P. Perrineau, Attitudes des Français à l’égard des problémes de sécurité, in Les Cahiers de la sécurité intérieure, n. 1, avriljuin 1990; A. Sampson, G. Farrel, Victims support and crime prevention in a inner-city setting, Crime Prevention Unit: paper n. 21, Kevin Heal Editor, London, 1990.

[11] La fear of crime è un sottoprodotto o anche un modo per richiamare l’attenzione istituzionale sul disagio crescente provocato da ampie modificazione del vissuto sociale e delle politiche pubbliche. Spesso, la paura del crimine può dipendere da particolari condizioni sociali ed esistenziali. Chi è anziano, chi ha un basso reddito, chi si sente poco protetto, manifesta con più frequenza sentimenti di insicurezza e di paura. Strati sociali un tempo “al sicuro”, come alcuni settori di middle class, agitano ora la paura del crimine per denunciare un crescente senso di incertezza relativo alla propria collocazione sociale: alla fear of crime si associa la fear of falling.

 

[12] Il metodo della network analysis si è rapidamente diffuso tra gli studiosi della fear of crime. L’analisi della qualità delle reti di socialità nelle quali l’individuo è incluso, è risultato utile per spiegare l’origine e l’evoluzione sia dei sentimenti di insicurezza sia della paura del crimine. Utilizzando la tipologia delle reti sociali messa a punto da C. Fischer [To Dwell among Friends, University of Chicago Press, Chicago, 1982], è stato notato che la preoccupazione per la sicurezza pubblica si autonomizza e si separa dall’insicurezza vissuta individualmente man mano che l’individuo è coinvolto in reti di socializzazione multiplex, attributo che indica la densità e la pluralità dei modi in cui l’individuo è legato a un altro o ad altri attori sociali. Questo tipo di relazioni di rete si incontrano normalmente nell’ambiente comunitario delle piccole città di provincia, dove si tende a fissare dei precisi valori normativi da condividere collettivamente. La connessione invece tra l’apprensione vissuta individualmente e la preoccupazione per la sicurezza pubblica si rafforza in un contesto urbano, nel quale sono prevalenti rapporti di carattere uniplex, ossia relazioni funzionalmente differenziate, elettive e dotate di più autonomia, condizione che corrisponde all’autonomia individuale che si acquisisce in ambiente urbano.

[13] J. Simon ., Gewal, Rache und Risiko. Die Todesstrafe im neoliberalen Staat, in “Kolner Zeitschrift fur Soziologie und Sozialpsychologie”, 1997, 37, 279-301.

[14] Questa politica, che punta ad assecondare e ad alimentare la paura quale principale fonte di consenso a misure penali in materia di sicurezza, è stata chiamata, giustamente, “populismo penale”. Con questa espressione si intende qualunque strategia in tema di sicurezza diretta a ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata dalla criminalità di strada con un uso congiunturale del diritto penale tanto duramente repressivo e antigarantista quanto

inefficace rispetto alle dichiarate finalità di prevenzione.

[15] Infatti la soluzione non può essere reperita attraverso un nostalgico ritorno a microcomunità che, di fatto, non esistono più, salvo che si vogliano ricostruire cittadelle protette isolate dal resto del mondo o quelle neighbour watching areas che così spesso conducono a vere e proprie azioni di pattugliamento del territorio che, lungi dal ridurre la paura degli abitanti della zona, amplificano il clima di allarme e la tensione sociale.

[16]  A. Baratta, Prefazione, in S. Moccia, La perenne emergenza: tendenze totalitarie nel sistema penale, 2° ed., Napoli, 1997.

[17]  Sul piano fattuale, le ordinanze, nella maggior parte dei casi, non hanno comportato il venir meno del fenomeno combattuto, tuttavia, sul piano politico, i sondaggi hanno segnalato il favore della gran parte degli italiani per quei provvedimenti sindacali volti a intervenire comunque nei confronti dei  fenomeni generanti insicurezza. 

[18]  Secondo A. Pajno, La ‘sicurezza urbana’ tra poteri impliciti e inflazione normativa, in www.astrid-online.it, 2009 il nuovo articolo 54 T.u.e.l. favorisca una nozione di sicurezza urbana come una sorta di «sicurezza pubblica minore». La sicurezza urbana sarebbe stata costruita «come una funzione eminentemente statale, anche se esercitata dal rappresentante della comunità locale». La norma attribuisce alla competenza statale tutti i possibili interventi riguardanti la sicurezza urbana, la quale è sì assicurata dal sindaco, ma a condizione che il medesimo operi come ufficiale di governo. Verrebbe in questo modo favorita una nozione di sicurezza urbana che sostanzialmente la assimila a quella tradizionalmente di competenza statale in un progressivo allontanamento «dall’idea di una sicurezza realizzata attraverso il concorso di funzioni di soggetti diversi».In questo senso anche G. Meloni, Il potere ‘ordinario’ dei sindaci di ordinanze extra-ordinem, in www.federalismi.it, 2009.

[19] Le numerosissime ordinanze adottate dai sindaci, che hanno pacificamente interpretato la disposizione novellata come attributiva di un potere normativo libero, illimitato, con carattere di permanenza ed in deroga all’ordinamento, senza considerare la possibile incisione di diritti fondamentali e libertà garantite dalla Costituzione con riserva di legge relativa o assoluta (ad es. quanto ai casi che hanno avuto maggior rilievo sulla stampa, si ricorda il divieto e la sanzione in caso di mancata esposizione del crocefisso negli uffici pubblici, l’uso del burqa, la realizzazione di luoghi di preghiera per i musulmani, la sosta di più di tre persone in corrispondenza di panchine o luoghi predeterminati, la riunione o assembramento in luogo pubblico parlando una lingua diversa dall’italiano, il sedersi ai bordi di una fontana per le persone di età compresa tra i 12 e i 60 anni, infine la mancata esposizione di lumini sui balconi privati durante una festa religiosa…).

[20]  Per un’analisi delle ordinanze si rinvia a A. Lorenzetti, Il difficile equilibrio tra diritti di libertà e diritto alla sicurezza, in A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Origini, contenuti, limiti, Jovene (in corso di pubblicazione); AA.VV., Oltre le ordinanze. I sindaci e la sicurezza urbana, Cittalia, Fondazione Anci, 1° e 2° ed., 2009; V. Italia, Le nuove ordinanze dei sindaci sulla sicurezza urbana e l’incolumità pubblica, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 23-24/2008; Id., L’ingorgo normativo apre la strada al contenzioso, in Guida agli enti locali, Il Sole 24 Ore, 32/2008; Id., Un potere ampio con  troppe incertezze, in Guida agli enti locali, Il Sole 24 Ore, 38/2008.

[21]  L. Vandelli, I poteri del sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica  nel nuovo art. 54 del T.u.e.l, Relazione alla Giornata di studio ‘Nuovi orizzonti della sicurezza urbana’, Bonomia University Press, 2009; G. Caia, L’amministrazione della pubblica sicurezza e le forze di polizia: l’assetto delle competenze ed il coordinamento in relazione ai recenti interventi normativi, Relazione alla Giornata di studio “Nuovi orizzonti della sicurezza urbana”, Bonomia University Press, 2009; A. Pajno, La sicurezza urbana tra poteri impliciti e inflazione normativa, cit.

[22] Sul punto S. Rossi, Il matrimonio “clandestino” e la Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it

[23]  Sul tema si vedano i rilievi critici di T. Padovani, L’ennesimo intervento legislativo eterogeneo che non è in grado di risolvere i reali problemi, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, 33/2009, 14 ss. per cui «Il nuovo provvedimento-sicurezza […] è (anche) un informe carrozzone normativo stipato di materiali eterogenei che con la sicurezza c’entrano poco o punto. Non si esclude che qualcosa di sensato possa qui e là affiorare. Tanto somiglia il testo ai resti di un naufragio disperso lungo il lido, da potersi dare il caso che il superstite vagante, rovistando e raccattando, recuperi qualcosa di utile per la vita che l’attende. Ma prevalgono certo i relitti da consegnare alla pazienza demolitrice delle onde»

[24] S. Bauman, Paura liquida, Laterza, Bari-Roma, 2008, 3-4.

[25] Disposizione che richiama la famigerata ordinanza del Comune di Cittadella 258 del 16 novembre 2007. Con riferimento al comune di Palosco, un ordinanza di tale contenuto è stata ritenuta discriminatoria con ordinanza del Tribunale di Bergamo emessa in data 11 marzo 2011, in www.asgi.it.

[26] Va rilevato che, a causa della scadente qualità media delle abitazioni italiane – specie nei comuni o centri storici, nelle zone rurali e nei quartieri popolari antecedenti ai piani regolatori – questa previsione potrebbe condurre al blocco in massa delle iscrizioni o variazioni anagrafiche, ledendo il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 87 Cost.), che si sostanzia nell’efficienza, adeguatezza, ragionevolezza ed efficacia dell’azione amministrativa ma anche e soprattutto lasciando senza residenza un’ampia porzione della popolazione pur legalmente presente sul territorio. Diverrebbero di conseguenza difficili il sostegno pubblico alle famiglie in difficoltà, il controllo sulla scolarizzazione dei minori, la programmazione dei servizi, la notifica degli atti legali e molte altre funzioni civiche e costituzionali, rendendo improvvisamente non rintracciabili e meno tutelate vaste fasce della popolazione, incluse le persone senza fissa dimora, schedate in un archivio non comunale e privo di oggettive connessioni con le necessarie funzioni di servizio sociale.

[27] Ne era ben consapevole il Ministero dell’interno, che infatti aveva segnalato, con la circolare 29 maggio 1995 n. 8,  l’illegittimità di alcune prassi comunali tendenti a condizionare l’iscrizione anagrafica alla dimostrazione di alcuni requisiti del domicilio, quali: lo svolgimento di un’attività lavorativa, la disponibilità di abitazione, le condizioni igienico-sanitarie della stessa, l’iscrizione degli altri componenti il nucleo familiare e in alcuni casi persino l’inesistenza di precedenti penali. In questo senso «La richiesta di iscrizione anagrafica, che costituisce un diritto soggettivo del cittadino – sostiene la circolare – non appare vincolata ad alcuna condizione, nè potrebbe essere il contrario, in quanto in tal modo si verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio nazionale in palese violazione dell’art. 16 della Carta costituzionale. Alla luce delle suesposte considerazioni, appaiono pertanto contrari alla legge e lesivi dei diritti dei cittadini, quei comportamenti adottati da alcune amministrazioni comunali che, nell’esaminare le richieste di iscrizione anagrafica, chiedono una documentazione comprovante lo svolgimento di attività lavorativa sul territorio comunale, ovvero disponibilità di un’abitazione, e magari, nel caso di persone coniugate, la contemporanea iscrizione di tutti i componenti il nucleo famigliare, ovvero procedono all’accertamento e/o dell’eventuale esistenza di precedenti penali a carico del richiedente l’iscrizione. Tali comportamenti sembrano richiamare in vigore quei provvedimenti contro l’urbanesimo, risalenti alla l. 6 luglio 1939 n. 1092, che venne abrogata con successiva l. 10 febbraio 1961 n. 5». La circolare conclude rilevando che «La funzione dell’anagrafe è essenzialmente di rilevare la presenza stabile, comunque situata, di soggetti sul territorio comunale, nè tale funzione può essere alterata dalla preoccupazione di tutelare altri interessi anch’essi degni di considerazione, quali ad esempio l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica, per la cui tutela dovranno essere azionati idonei strumenti giuridici diversi tuttavia da quello anagrafico».

[28] Sulla residenza come criterio discriminatorio B. Pezzini, Lo statuto costituzionale del non cittadino: i diritti sociali, Relazione al convegno annuale A.I.C. ‘Lo statuto costituzionale del non cittadino’, Cagliari, 16-17 ottobre 2009, § 2.3,  in www.associazionecostituzionalistiitaliani.it

[29] L. BINDI, Politiche della residenzialità. Antropologia della città e dell’esclusione, in www.diritto.it

[30] Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, 23.

[31] Manifesto approvato dal “Forum europeo della sicurezza urbana” in occasione dell’incontro tenutosi a Saragozza nei giorni 2-4 novembre 2006. 

 

[32] P. Ridola, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in P. Ridola – R. Nania (a cura di), I diritti costituzionali, II ed., Torino, 2006, vol. I, 133

 

 

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