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LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E LE MISURE DI PREVENZIONE: UNA REFORMATIO IN PEJUS?

di Rosario Di Legami, Vania Contrafatto –Nel merito.it

 

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Dopo l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del disegno di riforma costituzionale della giustizia, è in atto un ampio ed acceso dibattito sugli effetti che tale riforma avrà sul processo penale.


In questa sede si ritiene invece opportuno rappresentare una diversa prospettiva della questione, e cioè le ricadute del mutamento della Carta Costituzionale sulle misure di prevenzione patrimoniali, che oramai unanimemente vengono considerate come lo strumento essenziale di lotta alla criminalità organizzata, attraverso la ablazione, in favore dello Stato, dei patrimoni accumulati illecitamente dalle organizzazioni criminali.
A parere degli scriventi, gli effetti delle modifiche Costituzionali saranno negativi per i sequestri antimafia, anche per via di ulteriori proposte di riforma, come l’introduzione del processo breve nel giudizio di prevenzione, previsto dal Piano contro le mafie.
Occorre al riguardo precisare che il processo in prevenzione si svolge - nella fase delle indagini di polizia - “inaudita altera parte”, per evidenti motivi di segretezza e quindi di efficacia del sequestro.
Di conseguenza, dopo il congelamento dei beni è solo all’interno del processo che si svolge pienamente quel contraddittorio (fatto di testimonianze, perizie, acquisizione di documentazione) che permette all’imputato colpito dal sequestro di provare la sua estraneità al sodalizio economico criminale.
Ora, secondo le complessive prospettive di riforma, da un lato il “Piano contro le mafie” prevede che il processo di prevenzione deve durare al massimo due anni e mezzo, pena l’inefficacia del sequestro; dall’altro la riforma costituzionale sancisce la non appellabilità delle sentenze di proscioglimento.
Se quest’ultima previsione, come è ben possibile, verrà intesa come espressione di un principio generale, riguardante tutte le pronunce con effetti sfavorevoli al reo, il tribunale, entro termini strettissimi, e nella impossibilità di avere una approfondita visione generale, dovrà decidere sommariamente (cosa inammissibile in uno stato di diritto)  se dissequestrare o confiscare.
Conseguentemente, sarà molto probabile che, salvo che nelle marginali ipotesi di una istruttoria molto semplice  in merito ai presupposti del sequestro, il giudice si troverà di fronte ad un bivio che contrasta irrimediabilmente con il principio del libero convincimento: dissequestrare in via definitiva i beni degli imputati, senza avere una piena prova della loro non pericolosità sociale o della non riconducibilità dei loro beni al sodalizio criminoso; o disporre la confisca del patrimonio, in un processo che evidentemente non avrà potuto garantire quella pienezza di contraddittorio a tutela del soggetto colpito dal sequestro.
Ma in tale ultima scelta,  e sempre per effetto della paventata riforma costituzionale, il magistrato dovrebbe confrontarsi con un ulteriore aspetto che nulla ha che vedere con la serenità di giudizio che deve pervadere la sua attività giurisdizionale e che avrebbe natura squisitamente extraprocessuale. Infatti, il novellato art. 113 Cost. prevederebbe che “i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato”. Sicché, ove la corte di appello annullasse la confisca sommariamente disposta in primo grado, per quanto sopra detto, gli stessi prevenuti potrebbero direttamente citare in giudizio le persone fisiche componenti il tribunale per il risarcimento dei danni.
Ma vi è di più.
Il testo costituzionale proposto parla genericamente di diritti, comprendendo quindi anche quelli patrimoniali gestiti durante il sequestro. Ciò significa che, nell’ipotesi di dissequestro, potranno essere contestati al giudice, da parte del presunto mafioso, a titolo di risarcimento danni, anche tutti quegli atti di straordinaria amministrazione autorizzati dal giudicante e pregiudizievoli dei diritti patrimoniali (come il fallimento, la liquidazione, la vendita di immobili e/o di parte del patrimonio).
Inoltre i magistrati potrebbero rispondere di “colpe” non loro. Infatti, nel momento stesso in cui la Costituzione svincolasse la polizia giudiziaria dal filtro del pubblico ministero, tutte le indagini patrimoniali verrebbero autonomamente svolte dalle forze dell’ordine, rimanendo il pubblico ministero del tutto esterno alle verifiche di natura economica, assumendo quindi il requirente solo una funzione “notarile” delle altrui indagini. Ma, ove si verifichi un errore o una negligenza nella verifica del patrimonio del prevenuto o dei suoi familiari da parte degli organi di polizia, tali da provocare in sede dibattimentale il successivo il dissequestro, il pubblico ministero che sostiene la accusa nel procedimento, pur non avendo partecipato o coordinato le indagini, risponderebbe comunque di  una responsabilità “per fatto altrui”, circostanza del tutto inammissibile in uno stato di diritto.
Alla luce di queste osservazioni, e pur condividendo la necessità di una riforma della giustizia e di una modifica dell’attuale assetto, non convince la tesi che  il recente disegno di legge di riforma costituzionale non inciderebbe sulla intangibilità dei principi della autonomia ed indipendenza della magistratura: tali principi sarebbero già lesi nel momento stesso in cui il magistrato adottasse le proprie decisioni essendo influenzato da una possibile azione di responsabilità nonché da una ristrettezza di tempi derivanti dalla istituzione del  processo breve, tutto a detrimento del necessario ed ineludibile approfondimento probatorio, presupposto per una sentenza equa e che dia conto integralmente delle posizioni in contraddittorio.

   

 

 

 

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