Francesco Machina Grifeo
Bocciato il coefficiente economico
usato per convertire in giorni di libertà controllata le
pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del
condannato, perché non più coerente con il ragguaglio
fra pene pecuniarie e detentive. Con questa motivazione
la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/2012, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale - sopravvenuta
dall’8 agosto del 2009 - del terzo comma dell’articolo
102 della legge 689/1981, nella parte in cui stabilisce
che, agli effetti della conversione delle pene
pecuniarie, il ragguaglio ha luogo calcolando 38 anziché
250 euro di pena pecuniaria per un giorno di libertà
controllata.
Lo scalino si è creato nel 2009,
quando, con l’approvazione del “pacchetto sicurezza”
l’adeguamento (da 38 a 250 euro) ha riguardato
unicamente il ragguaglio fra pene pecuniarie e
detentive. Così com’era, dunque, la norma violava il
principio di eguaglianza, determinando una disparità di
trattamento fra situazioni «sostanzialmente omogenee», a
sfavore peraltro dei soggetti che versano in condizioni
di insolvibilità. Una situazione analoga si era già
creata nel 1994, in conseguenza di un altro adeguamento,
e anche all’epoca venne sanata dalla Consulta. Ma la
Corte ha anche chiarito che il Legislatore è libero di
introdurre differenziazioni tra i due coefficienti,
purché però si tratti di una scelta rispondente a
criteri di ragionevolezza.
L’aggiornamento normativo
Dopo quindici anni dal primo
intervento la Consulta torna, dunque, ad intervenire per
ripristinare l’equilibrio del sistema. L’articolo 3,
comma 62, della legge 94/2009 ha, infatti, elevato da 38
a 250 euro il coefficiente di ragguaglio indicato
dall’articolo 135 del Cp, lasciando immutato quello
fissato dall’articolo 102, terzo comma, della legge
689/1981.
In tal modo, ai fini della
conversione, il valore monetario di un giorno di
detenzione era divenuto pari a 6 volte il valore della
libertà controllata. Uno scarto che non rispondeva ad un
preciso disegno legislativo. La modifica dell’articolo
135 Cp si colloca, infatti, nell’ambito di un ampio
intervento di adeguamento delle sanzioni pecuniarie, sia
penali che amministrative, con l’obiettivo di potenziare
il sistema repressivo penale. In questa prospettiva, il
Legislatore ha ritenuto necessario assicurare una
maggiore incisività della pena pecuniaria, tenuto conto
anche della notevole svalutazione monetaria.
Le incongruenze del sistema
Tutto ciò, però, ha creato palesi
incongruenze. Infatti, mentre - secondo gli articoli 53
e 57, terzo comma, della legge n. 689/1981- un giorno di
pena detentiva è suscettibile di venir sostituito con
due giorni di libertà controllata. Per converso, 250
euro di pena pecuniaria - attualmente equivalenti ad un
giorno di pena detentiva - nel caso di indigenza del
condannato, si convertono in sette giorni di libertà
controllata. Così, non essendo contestabile che la
condanna alla reclusione o all’arresto sia comunque più
grave della condanna alla multa o all’ammenda
“equivalente”, si assiste anche al paradosso per cui la
fattispecie meno grave riceve un trattamento nettamente
più sfavorevole di quella connotata da maggior
disvalore.
Effetti afflittivi indesiderati
La Consulta ha evidenziato anche
che nelle ipotesi in cui si renda necessario convertire
la libertà controllata in pena detentiva per violazione
delle prescrizioni, le conseguenze risultano diverse a
seconda che tale sanzione sia stata applicata in
sostituzione di pene detentive - nel qual caso la
violazione determinerà il semplice ripristino della pena
detentiva sostituita -, o in sede di conversione di pene
pecuniarie per insolvibilità del condannato, ipotesi in
cui gli effetti, paradossalmente, risultano più
afflittivi: con il condannato che si trovava a dover
espiare un periodo di pena detentiva pari a oltre sei
volte il periodo di pena detentiva originariamente preso
a base dal giudice nella sentenza di condanna.
In ultimo, i giudici ricordano che
resta impregiudicata, in quanto estranea al thema
decidendum, la questione relativa al tasso di
conversione delle pene pecuniarie in lavoro sostitutivo,
rimasto fermo a euro 25.
SENTENZA N. 1
ANNO
2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA;
Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano
SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria
NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo
GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,
Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3,
comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e
dell’art. 102, terzo comma, della legge 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal
Magistrato di sorveglianza di Catania nel procedimento
di sorveglianza nei confronti di G.G. con ordinanza del
16 marzo 2011, iscritta al n. 171 del registro ordinanze
2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Udito
nella camera di consiglio del 14 dicembre 2011 il
Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
Con
ordinanza depositata il 16 marzo 2011, il Magistrato di
sorveglianza di Catania ha sollevato, in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 3, comma 62, della legge 15
luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), nella parte in cui – nell’aumentare da euro
38 a euro 250 il coefficiente di ragguaglio fra le pene
pecuniarie e le pene detentive – ha omesso di operare
una identica variazione in aumento dell’importo sulla
cui base, ai sensi dell’art. 102, terzo comma, della
legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale), deve aver luogo la conversione in libertà
controllata delle pene pecuniarie non eseguite per
insolvibilità del condannato.
Il
giudice a quo premette di essere chiamato a
pronunciarsi, ai sensi dell’art. 660, comma 2, del
codice di procedura penale, sull’istanza di conversione
di una pena pecuniaria di euro 56.622,94 (così
determinata a seguito di provvedimento di cumulo del 17
marzo 2006), rimasta ineseguita per insolvibilità del
condannato.
Al
riguardo, il rimettente rileva che l’art. 3, comma 62,
della legge n. 94 del 2009 ha modificato l’art. 135 del
codice penale, stabilendo che, quando si deve eseguire
un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il
computo ha luogo calcolando euro 250, o frazione di euro
250, di
pena pecuniaria – anziché
euro 38, o frazione di euro 38, come previsto in
precedenza – per un giorno di pena detentiva.
La
novella legislativa ha lasciato, per converso, immutato
l’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981,
che, ai fini della conversione in libertà controllata
della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del
condannato, continua quindi a prevedere che il
ragguaglio debba essere effettuato calcolando euro 38, o
frazione di euro 38, per un giorno di libertà
controllata.
Ad
avviso del giudice a quo, si sarebbe in tal modo
determinata una ingiustificata disparità di trattamento,
lesiva del principio di eguaglianza, a sfavore dei
soggetti che versino in condizioni di insolvibilità.
Le
ipotesi disciplinate dagli artt. 135 cod. pen. e 102,
terzo comma, della legge n. 689 del 1981 sarebbero,
infatti, «sostanzialmente omogenee», giacché tanto le
pene detentive, quanto la libertà controllata
costituiscono sanzioni penali irrogabili dal giudice
della cognizione (la seconda quale sanzione sostitutiva,
ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981), con
la possibilità, inoltre, che la libertà controllata
venga disposta anche dal magistrato di sorveglianza, nel
caso di impossibilità di pagamento della pena
pecuniaria.
Lo
stesso legislatore, d’altra parte, con l’art. 101 della
legge n. 689 del 1981, aveva elevato a lire 25.000 il
coefficiente previsto dall’art. 135 cod. pen.,
parificandolo a quello all’epoca fissato dall’art. 102,
terzo comma, della medesima legge per la conversione in
libertà controllata delle pene pecuniarie.
Tale
uniformità di trattamento era, peraltro, venuta meno a
seguito dell’art. 1 della legge 5 ottobre 1993, n. 402
(Modifica dell’art. 135 del codice penale: ragguaglio
fra pene pecuniarie e pene detentive), che aveva
aumentato a lire 75.000 l’importo contemplato dall’art.
135 cod. pen., lasciando inalterata la norma della legge
speciale.
Al
ripristino della corrispondenza tra i due coefficienti
aveva provveduto, tuttavia, questa Corte, la quale, con
la sentenza n. 440 del 1994, aveva dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 102, terzo
comma, della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui
fissava in lire 25.000 – anziché in lire 75.000 – il
tasso di ragguaglio per la conversione in libertà
controllata delle pene pecuniarie non eseguite per
insolvibilità del condannato. Detta pronuncia aveva
evidenziato, in specie, che «l’identità degli importi
indicati nelle due norme poste a raffronto non fu dovuta
al caso, ma rappresentò il frutto di una precisa e
coerente scelta di politica criminale, al fondo della
quale stava l’avvertita esigenza di non aggravare le
conseguenze che derivano dalla condanna in dipendenza
delle condizioni economiche del reo».
L’art.
3, comma 62, della legge n. 94 del 2009, modificando di
nuovo in aumento il solo importo stabilito dall’art. 135
cod. pen., avrebbe, quindi, ricreato la medesima
situazione già censurata dalla citata sentenza n. 440
del 1994.
La
questione sarebbe, altresì, rilevante nel procedimento a
quo. L’esito della conversione della pena pecuniaria
rimasta ineseguita nella specie risulterebbe, infatti,
sensibilmente diverso a seconda che l’operazione venga
effettuata in base al vigente testo dell’art. 102, terzo
comma, della legge n. 689 del 1981, ovvero a quello
risultante dall’auspicata declaratoria di illegittimità
costituzionale.
Considerato in diritto
1.– Il
Magistrato di sorveglianza di Catania dubita, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, della
legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 62, della
legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica), nella parte in cui – nell’aumentare
da euro 38 a euro 250 il coefficiente di ragguaglio fra
le pene pecuniarie e le pene detentive stabilito
dall’art. 135 del codice penale – ha omesso di operare
una omologa variazione in aumento del tasso sulla cui
base, ai sensi dell’art. 102, terzo comma, della legge
24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale),
deve aver luogo la conversione in libertà controllata
delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del
condannato.
Ad avviso del giudice a
quo, la norma censurata violerebbe il principio di
eguaglianza, determinando una disparità di trattamento
fra situazioni «sostanzialmente omogenee», a sfavore dei
soggetti che versino in condizioni di insolvibilità, del
tutto analoga a quella già scrutinata da questa Corte
con la sentenza n. 440 del 1994.
2.– In
via preliminare, va rilevato che, sebbene il rimettente
censuri formalmente la norma novellatrice dell’art. 135
cod. pen., ciò che egli in concreto sollecita è una
pronuncia di “riallineamento” dell’art. 102, terzo
comma, della legge n. 689 del 1981, la quale ripristini
la pregressa coincidenza dei coefficienti di ragguaglio
previsti dalle due norme poste a raffronto (per analogo
rilievo, sentenza n. 440 del 1994).
3.– In
tali termini, la questione è fondata.
Giova
muovere, al riguardo, dalla considerazione che la
disciplina stabilita dagli artt. 102 e seguenti della
legge n. 689 del 1981 costituisce la risposta
legislativa al problema lasciato aperto dalla sentenza
n. 131 del 1979 di questa Corte, che aveva dichiarato
costituzionalmente illegittimo il meccanismo,
originariamente previsto dall’art. 136 cod. pen., di
conversione automatica della pena pecuniaria non
eseguita per insolvibilità del condannato in un
corrispondente periodo di reclusione o di arresto.
Nell’occasione, la Corte evidenziò come tale meccanismo
presentasse una connotazione fortemente discriminatoria,
postulando una inammissibile fungibilità tra libertà
personale e patrimonio, a fronte della quale i soggetti
economicamente più deboli si trovavano costretti ad
assolvere con il sacrificio della prima (nella forma
massima: la pena detentiva) obblighi che gli altri
condannati potevano soddisfare in moneta. L’esigenza di
garantire l’indefettibilità della pena – pure non
disconosciuta da questa Corte – andava, dunque,
soddisfatta in forme diverse, che il legislatore del
1981 individuò segnatamente nella conversione in libertà
controllata (ovvero, su richiesta del condannato, in
lavoro sostitutivo).
Il
coefficiente di ragguaglio per la conversione della pena
pecuniaria ineseguita in libertà controllata venne
originariamente fissato in lire 25.000: dunque, in
quello stesso che – a seguito della modifica dell’art.
135 cod. pen., contemporaneamente disposta dall’art. 101
della medesima legge n. 689 del 1981 – valeva ai fini
del ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive.
Tale
soluzione normativa – che operava, in pratica, una
indiretta equiparazione del “valore economico” della
pena detentiva e della libertà controllata – si
traduceva in una scelta di favore nei confronti del
condannato in condizioni di indigenza. In base all’art.
57, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, infatti,
nel ragguaglio tra pene detentive e libertà controllata,
un giorno di pena detentiva equivale, non già a uno, ma
a due giorni di libertà di controllata. La previsione,
nell’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981,
di un coefficiente di conversione uguale – anziché
doppio – rispetto a quello contemplato dall’art. 135
cod. pen. veniva, quindi, a porsi quale espressione
della volontà legislativa di comprimere – in linea con
le indicazioni della citata sentenza n. 131 del 1979 –
gli effetti negativi scaturenti dalla condanna a pena
pecuniaria, nell’ipotesi in cui il reo si trovasse
nell’impossibilità di adempierla. Alla mitigazione
“qualitativa” della sanzione di conversione (da pena
detentiva a libertà controllata) si accompagnava, in
tale ottica, anche una mitigazione “quantitativa” (nel
senso che la libertà controllata “da conversione”
assumeva, rispetto alla pena pecuniaria, un valore pari
a quello della pena detentiva, anziché doppio).
4.–
L’equilibrio del sistema veniva, peraltro, alterato una
prima volta dall’art. 1 della legge 5 ottobre 1993, n.
402 (Modifica dell’art. 135 del codice penale:
ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive). La
novella legislativa, modificando la norma del codice,
elevava, infatti, il tasso di ragguaglio tra pene
pecuniarie e pene detentive a lire 75.000, senza operare
alcun parallelo adeguamento dell’altro coefficiente.
La
situazione venutasi in tal modo a creare rendeva
necessario l’intervento di questa Corte, la quale, con
la sentenza n. 440 del 1994, dichiarava
costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art.
3 Cost., l’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del
1981, nella parte in cui continuava a prevedere che il
ragguaglio, ai fini della conversione delle pene
pecuniarie non eseguite per insolvibilità del
condannato, avesse luogo calcolando 25.000 lire, o
frazione di 25.000 lire – anziché 75.000 lire, o
frazione di 75.000 lire – di pena pecuniaria per un
giorno di libertà controllata.
Nella circostanza, la
Corte rilevava come, alla luce dei lavori parlamentari
che avevano preceduto l’approvazione della legge n. 402
del 1993, l’unico scopo perseguito con la novella fosse
stato quello di «ampliare la possibilità di fruire del
beneficio della sospensione condizionale della pena nei
casi di condanna a pena congiunta o anche soltanto a
pena pecuniaria ma di ammontare elevato, avuto riguardo,
in particolare, al diminuito valore della moneta». A
fronte di tale circoscritto obiettivo, il legislatore
aveva, quindi, assunto «una posizione per così dire
amorfa» rispetto agli «inevitabili riverberi» scaturenti
dalla modifica normativa, sia sul piano generale delle
sanzioni sostitutive, sia – e in particolare –
«sull’ormai squilibrato valore» stabilito dall’art. 102,
terzo comma, della legge n. 689 del 1981. Da ciò
conseguiva, per un verso, che lo squilibrio indotto
dalla riforma non poteva essere ritenuto «frutto di una
scelta discrezionale»; per altro verso, che non era
neppure possibile pervenire «ad una ragionevole
ricostruzione del sistema», risultando la norma
sottoposta a scrutinio «ormai fortemente compromessa da
un sostanziale e sopravvenuto “vuoto di fini”».
L’originaria identità del coefficiente di ragguaglio tra
pene pecuniarie e pene detentive, da un lato, e tra pene
pecuniarie e libertà controllata, dall’altro, non era,
infatti, casuale, ma costituiva, al contrario – come già
dianzi rimarcato – «il frutto di una precisa e coerente
scelta di politica criminale, al fondo della quale stava
l’avvertita esigenza – più volte posta in risalto da [la
stessa] Corte – di non aggravare le conseguenze che
derivano dalla condanna in dipendenza delle condizioni
economiche del reo». Mantenendo inalterato il tasso di
conversione della pena pecuniaria ineseguita, nonostante
il coefficiente di ragguaglio previsto dall’art. 135
cod. pen. fosse stato triplicato, si era, quindi,
determinato «uno svuotamento delle finalità tipiche che
l’istituto della conversione deve soddisfare, con
conseguente grave compromissione del principio di
uguaglianza che qui assume tutto il suo risalto per le
intuibili conseguenze che quell’istituto è in grado di
determinare sul piano delle libertà della persona».
Pur
non potendosi escludere, in astratto – concludeva,
quindi, la Corte – che il legislatore potesse
ragionevolmente operare una differenziazione dei criteri
di ragguaglio per materie fra loro eterogenee, rimaneva
assorbente il rilievo che, in assenza di una chiara
scelta innovativa sotto tale profilo, spettava alla
Corte stessa il compito di «riadeguare il sistema –
ormai incrinato – negli stessi termini e con le medesime
proporzioni che il legislatore, facendo corretto uso del
proprio potere discrezionale, aveva previsto prima della
[…] novella».
5.– A
distanza di oltre quindici anni, l’equilibrio del
sistema è stato, peraltro, nuovamente alterato, in
termini affatto similari, dall’art. 3, comma 62, della
legge n. 94 del 2009. Detta disposizione ha, infatti,
elevato da 38 a 250 euro il coefficiente di ragguaglio
indicato dall’art. 135 cod. pen., lasciando, anche
questa volta, immutato quello fissato dall’art. 102,
terzo comma, della legge n. 689 del 1981. La
sperequazione in tal modo introdotta risulta persino più
marcata di quella originata dalla legge del 1993: se,
infatti, a seguito di detta legge, il valore monetario
di un giorno di detenzione era divenuto pari al triplo
del valore della libertà controllata ai fini della
conversione, per effetto della novella legislativa del
2009 il primo dei due valori viene oggi a superare il
secondo di oltre sei volte.
Anche
nell’odierno frangente, d’altra parte, non consta che la
creazione di uno scarto così pronunciato risponda a un
preciso disegno legislativo, sorretto da una specifica
ratio.
La
recente modifica dell’art. 135 cod. pen. si colloca,
infatti, nell’ambito del più ampio intervento di
adeguamento al mutato quadro economico del sistema delle
sanzioni pecuniarie, sia penali che amministrative,
operato dalla legge n. 94 del 2009, in coerenza con il
suo obiettivo generale di potenziamento del sistema
repressivo penale. In questa prospettiva, il legislatore
ha ritenuto, in particolare, necessario assicurare una
maggiore incisività della pena pecuniaria, tenuto conto
anche della notevole svalutazione monetaria intervenuta
rispetto all’ultimo adeguamento, risalente alla legge n.
689 del 1981.
L’obiettivo è stato perseguito mediante tre ordini di
interventi: il sensibile innalzamento dei limiti minimi
e massimi della multa e dell’ammenda, stabiliti dagli
artt. 24 e 26 cod. pen. (art. 3, commi 60 e 61, della
legge n. 94 del 2009); l’aggiornamento – appunto – del
parametro di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene
detentive, previsto dall’art. 135 cod. pen. (art. 3,
comma 62);
infine, la delega al
Governo ad adottare uno o più decreti legislativi,
diretti a rivalutare l’ammontare delle multe, delle
ammende e delle sanzioni amministrative originariamente
previste come sanzioni penali (art. 3, comma 65).
I
lavori parlamentari relativi alla legge n. 94 del 2009
non evidenziano, per contro, che l’esigenza di un
parallelo intervento sull’istituto della conversione
della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del
condannato abbia formato oggetto di dibattito e di
specifica riflessione.
Ne
consegue che le considerazioni poste a base della
sentenza n. 440 del 1994, dianzi ricordate, restano
valide, nella loro interezza, anche in rapporto alla
novella legislativa su cui verte l’odierno scrutinio.
Oggi come allora, lo squilibrio indotto dalla riforma –
non ascrivibile a una scelta discrezionale del
legislatore, munita di adeguata base giustificativa –
impedisce di pervenire a una ragionevole ricostruzione
del sistema, determinando uno svuotamento delle finalità
che l’istituto della conversione è diretto tipicamente a
soddisfare, con conseguente violazione del principio di
eguaglianza.
6.– A
dimostrazione di ciò, è agevole, d’altro canto,
riscontrare come la macroscopica sperequazione
attualmente esistente tra i coefficienti posti a
raffronto – interferendo con la disciplina della
sostituzione delle pene detentive brevi – risulti
foriera di palesi incongruenze.
A
mente degli artt. 53 e 57, terzo comma, della legge n.
689 del 1981, un giorno di pena detentiva è infatti
suscettibile di venir sostituito, come già ricordato,
con due giorni di libertà controllata. Per converso, 250
euro di pena pecuniaria – attualmente equivalenti, in
base al novellato art. 135 cod. pen., ad un giorno di
pena detentiva – nel caso di indigenza del condannato,
si convertono in sette giorni di libertà controllata.
Non essendo, d’altra parte, contestabile che la condanna
alla reclusione o all’arresto sia comunque più grave
della condanna alla multa o all’ammenda “equivalente”,
si assiste al paradosso per cui la fattispecie meno
grave riceve un trattamento nettamente più sfavorevole
di quella connotata da maggior disvalore. Si tratta di
un paradosso chiaramente lesivo del principio di
eguaglianza, anche perché ribalta la prospettiva di
contenimento delle conseguenze negative dell’incapacità
di provvedere al pagamento delle pene pecuniarie, in cui
versano i soggetti economicamente più deboli,
conformemente alle indicazioni della sentenza n. 131 del
1979 di questa Corte.
A tale
incongruenza si aggiunge quella riscontrabile nei casi
di cosiddetta “conversione di secondo grado”.
Nell’ipotesi in cui il giudice ritenga di dover
applicare la pena pecuniaria in sostituzione di quella
detentiva, la quantificazione della pena pecuniaria
dovrà essere, infatti, operata sulla base del nuovo
importo di ragguaglio stabilito dall’art. 135 cod. pen.
(costituente il parametro per la determinazione del
«valore giornaliero» di sostituzione, a mente dell’art.
53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981); di
contro, ove il condannato risulti successivamente
insolvibile, detta pena sostitutiva dovrà essere
convertita in libertà controllata alla stregua
dell’assai più basso coefficiente tuttora previsto
dall’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981.
Ne consegue che, qualora il condannato violasse sin dal
primo giorno le prescrizioni inerenti alla libertà
controllata applicata in sede di conversione, egli si
troverebbe a dover espiare, a norma dell’art. 108, primo
comma, della legge n. 689 del 1981, un periodo di pena
detentiva pari – anche nella migliore delle ipotesi
(salvi i limiti massimi di durata delle sanzioni “da
conversione”) – a oltre sei volte il periodo di pena
detentiva originariamente preso a base dal giudice nella
sentenza di condanna. In altre parole, nelle ipotesi in
cui si renda necessario convertire la libertà
controllata in pena detentiva per violazione delle
prescrizioni, le conseguenze risultano diverse a seconda
che tale sanzione sia stata applicata in sostituzione di
pene detentive (nel qual caso la violazione determinerà
il semplice ripristino della pena detentiva sostituita,
ai sensi dell’art. 66 della legge n. 689 del 1981),
ovvero in sede di conversione di pene pecuniarie per
insolvibilità del condannato, evenienza nella quale gli
effetti risultano, sotto il profilo dianzi indicato,
paradossalmente più afflittivi.
7.– In
conclusione, va ribadito che non è precluso al
legislatore introdurre eventuali differenziazioni tra i
due coefficienti di cui si discute, purché si tratti di
scelta rispondente a criteri di ragionevolezza, avuto
riguardo alle conseguenze del suo innesto nella
complessiva disciplina della materia.
Non essendo una tale
evenienza riscontrabile nel caso oggi in esame, questa
Corte non può, dunque, che ripristinare nuovamente la
parificazione tra i coefficienti stessi, corrispondente
all’originaria opzione effettuata dallo stesso
legislatore all’esito di un corretto uso del proprio
potere discrezionale.
L’art.
102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981 va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo,
nella parte in cui, con riferimento al periodo
successivo all’8 agosto 2009 (data di entrata in vigore
della legge n. 94 del 2009, che ha determinato il
disallineamento lesivo del parametro evocato),
stabilisce che, agli effetti della conversione delle
pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del
condannato, il ragguaglio ha luogo calcolando euro 38, o
frazione di euro 38, anziché euro 250, o frazione di
euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di libertà
controllata.
Resta
impregiudicata, in quanto estranea all’odierno thema
decidendum, la questione relativa al tasso di
conversione delle pene pecuniarie in lavoro sostitutivo,
rimasto fermo a euro 25 (questione che, in riferimento
all’assetto derivante dalla citata legge n. 402 del
1993, è stata oggetto di esame, da parte di questa
Corte, con la sentenza n. 30 del 2001).
PER
QUESTI MOTIVI
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale, sopravvenuta
dall’8 agosto 2009, dell’art. 102, terzo comma, della
legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale), nella parte in cui stabilisce che, agli effetti
della conversione delle pene pecuniarie non eseguite per
insolvibilità del condannato, il ragguaglio ha luogo
calcolando euro 38, o frazione di euro 38, anziché euro
250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un
giorno di libertà controllata.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2012.
Il
Direttore della Cancelleria
F.to:
MELATTI |