Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

ASSOCIAZIONE MAFIOSA. LA PROVA DELLA FONTE ILLECITA NON È NECESSARIA PER CONFISCARE I BENI DEL BOSS-Cassazione, sez. II, 19 agosto 2011, n. 32563-Diritto e processo.it

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

 

 

 

Il legislatore, nell'individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei beni, non ha presupposto la derivazione di tali beni dall'episodio criminoso singolo per cui la condanna è intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla sola condanna del soggetto che di quei beni dispone.

 

Il giudice "non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il reato per cui ha pronunciato condanna e nemmeno tra questi stessi beni e l'attività criminosa del condannato". Deve sempre essere ordinata la confisca "quando sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità ed il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose".

 

La confisca non è esclusa "per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna".

 

Si è cioè in presenza di una misura di sicurezza atipica con funzione dissuasiva parallela alla affine misura di prevenzione antimafia di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575.

 

 

 

 

 

Cassazione, sez. II, 19 agosto 2011, n. 32563

 

(Pres. Esposito – Rel. Pagano)

 

 

 

 

 

Osserva

 

D.C.E., indagato ex art. 416 bis c.p., per avere partecipato in qualità di sodale del “locale” di Legnago, all'associazione di stampo 'ndranghetistico attiva nella regione Lombardia con stretti legami con la 'ndrangheta calabrese e finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro l'incolumità personale, delitti concernenti armi, traffico di stupefacenti, estorsione, usura, riciclaggio ed altro, ricorre avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Milano in data 9.2.2011 con la quale è stato confermato il decreto di sequestro preventivo del Gip di Milano del 3.1.2011 della quota di sua proprietà di un immobile uso abitazione e di un box sito in (omissis) cointestato con la moglie in regime di separazione dei beni, il difensore deduce violazione di legge per essere l'ordinanza redatta dal Presidente del Tribunale intestata con nomi di giudici differenti da quelli che ebbero a partecipare all'udienza camerale. Con altro motivo deduce mancanza e manifesta illogicità della motivazione rilevando che la rata di mutuo di Euro 262 mensili per l'immobile acquistato nell'anno 1999 è senz'altro da ritenersi sostenibile anche con i redditi di entrambi i coniugi, considerando la disponibilità dello stipendio mensile del D.C. ammontante a circa Euro 1.000 - 1.500. Deduce inoltre mancanza di motivazione con riferimento alla legittima provenienza del bene, dato che ne esclude la confiscabilità e quindi il sequestro ex art. 12 sexies d.l. 306/92. Al riguardo reitera le specifiche argomentazioni già rese in sede di riesame rilevando che la documentazione prodotta indica la lecita provenienza del denaro (tutto della moglie D'A. M.C. che con i canoni di una locazione ha corrisposto anche il mutuo) utilizzato per l'acquisto. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. È infatti consolidato principio di legittimità l'essere emendabile con il rimedio della correzione dell'errore materiale senza dare quindi luogo a nullità l'indicazione, nella intestazione della sentenza, di un componente del collegio giudicante diverso da quello che ha preso parte alla deliberazione, e che risulta invece dal verbale di udienza (Cass. Il n. 18570 del 23.1.2009, depositata 5.5.09, rv. 244442; Cass. III n. 41941 del 4.10.2005, depositata 22.11.05, rv. 232828). Ciò in quanto non sussistono dubbi sulla effettiva composizione del collegio che ha partecipato all'udienza in Camera di consiglio ed ha pronunciato la relativa deliberazione, composizione che è appunto attestata dal verbale di udienza e dal verbale del dispositivo letto in udienza.

 

Allorché il provvedimento è sottoscritto (come nella specie) dal presidente che fece effettivamente parte del collegio, la errata indicazione nella intestazione della sentenza del nome di un giudice che non prese parte ad dibattimento ed alla decisione al posto di quello che effettivamente partecipò al dibattimento e concorse alla pronuncia, non è causa di nullità, ma costituisce un mero errore materiale ed una semplice irregolarità formale, cui può essere posto riparo con la procedura della correzione degli errori materiali, dal momento che questa non importa una modifica essenziale dell'atto e che la reale situazione trova incontestabile riscontro e documentazione nelle risultanze del verbale del dibattimento.

 

Il gravame nella parte in cui prospetta vizi di motivazione è inammissibile essendo ammesso ricorso solo per violazione di legge secondo quanto disposto dall'art. 325 c. 1 c.p.p. relativo al contenuto dei ricorsi avverso i provvedimenti di sequestro. Né nel caso in esame può parlarsi di totale carenza o mera apparenza di motivazione integrante vizio di violazione di legge ex art. 125 e 606 c. 1 lett. C c.p.p. (vedi Cass. IV 10.2.04 n. 5302, c.c. 21.1.04, rv. 227095) concetto questo ben distinto dalla illogicità manifesta che può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 stesso codice (Vedi Cass. S.U. 13.2.04 n. 5876, c.c. 28.1.04, rv. 226710, proprio in materia di ricorsi avverso provvedimenti di sequestro). Il percorso motivazionale relativo alla disponibilità economica da parte del D.C. è correttamente fondato sulla esiguità dei redditi percepiti nei vari anni (il Tribunale ha specificatamente considerato tutta la documentazione prodotta), redditi appena sufficienti per il sostentamento primario e non per la corresponsione della quota di mutuo a lui spettante. Con riferimento al terzo motivo di ricorso il Tribunale ha debitamente accertato la non proporzionalità del reddito del proposto e dei suoi familiari facendo riferimento alla documentazione tributaria ed agli accertamenti del consulente di ufficio. Al riguardo si osserva la correttezza del principio di diritto seguito dal Tribunale che ha ritenuto non necessaria la dimostrazione del nesso causale tra la presunta condotta mafiosa e l'illecito profitto, essendo sufficiente la dimostrazione della non lecita provenienza del bene che è comunque deducibile dalla evasione fiscale delle somme necessarie per l'acquisto, somme provenienti da una causale non specificata (Cass. VI 25.9.03 n. 36762, c.c. 27.5.03, rv. 226655; Cass. II 26.5.99 n. 2181, c.c. 6.5.99, rv. 213853; Cass. I 22.2.96 n. 148, c.c. 15.1.96, rv. 204036). Le Sezioni Unite della Corte con sentenza 17.12.03, Montella hanno statuito che "il legislatore, nell'individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei beni, non ha presupposto la derivazione di tali beni dall'episodio criminoso singolo per cui la condanna è intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla sola condanna del soggetto che di quei beni dispone". Il giudice "non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il reato per cui ha pronunciato condanna e nemmeno tra questi stessi beni e l'attività criminosa del condannato". Deve sempre essere ordinata la confisca "quando sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità ed il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose". La confisca non è esclusa "per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna". Si è cioè in presenza di una misura di sicurezza atipica con funzione dissuasiva parallela alla affine misura di prevenzione antimafia di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575.

 

Le Sezioni Unite hanno anche chiarito che la norma non è manifestamente in contrasto con la Costituzione. Non si può parlare di violazione di diritto di difesa in quanto l'onere imposto all'imputato di esporre fatti e circostanze con specifici riferimenti cronologici in ordine a specifici acquisti, non costituisce la richiesta di prova di impossibile attuazione bensì un onere "di agevole assolvimento". Né la norma collide con la presunzione di non colpevolezza, considerando che nella specie non si tratta di presumere la colpevolezza di un soggetto, ma la provenienza di un patrimonio.

 

La stessa sentenza ha anche statuito (ciò con riferimento allo specifico gravame sul punto) che la prova di positiva liceità della provenienza di acquisti in forza di titolo negoziale non consiste nella esibizione di titoli di acquisto giuridicamente e formalmente validi, ma nel fornire una esauriente spiegazione in termini economici di una derivazione dei beni da attività consentite dall'ordinamento. Il giudice deve quindi in forza del suo libero convincimento accertare la proporzione dei singoli beni al reddito ed alle attività del prevenuto, libero convincimento di cui deve fornire motivazione non manifestamente illogica. Il ricorso sul punto deve essere dichiarato inammissibile dal momento che non possono essere rivolte censure di illogicità al giudice di merito che ha accertato l'incapacità reddituale dell'indagato e della sua famiglia a fronte di acquisizioni patrimoniali effettuate in contiguità temporale con la contestata attività illecita mafiosa. L'impugnazione è pertanto inammissibile a norma dell'art. 606 c. 3 c.p.p.; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000.

 

Il provvedimento di correzione sarà effettuato a norma dell'art. 130 c. 1 c.p.p. dal giudice di merito.

 

 

 

P.Q.M.

 

 

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrènte al pagamento delle spese processuali e di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.

 

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici