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La condotta biasimevole ma isolata del datore non configura il mobbing-Corte di cassazione - Sezione Lavoro - Sentenza 31 maggio 2011 n. 12048-Commento-Guida al diritto.it

 

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Alfredo Casotti e Maria Rosa Gheido

 

Il mobbing si realizza quando è riconoscibile una azione aggressiva cosciente e volontaria, protratta nel tempo, finalizzata a mettere uno o più lavoratori in una condizione di forte disagio col fine dell’espulsione dal contesto lavorativo o della sottomissione al potere direttivo. Occorre pertanto che la condotta del datore di lavoro si concretizzi in sistematici e reiterati comportamenti ostili da cui può derivare l’effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Con la sentenza n. 12048 depositata il 31 maggio 2011 la Corte di cassazione, sezione Lavoro, ha escluso che possano essere ricondotti ad una azione di mobbing alcuni episodi, comunque marginali ed isolati, riconducibili ad un comportamento scorretto del datore di lavoro ma non connotati da un carattere persecutorio nei confronti del dipendente.

 

 

 

Questi i fatti

 

La lavoratrice denuncia un comportamento del datore di lavoro lesivo della sua dignità e decoro personale (lancio dello stipendio sul tavolo, consegna della retribuzione sotto forma di monetine) sostenendo che questi fatti rientrano nella fattispecie di mobbing pur in difetto di un disegno persecutorio finalizzato a espellere il dipendente e chiede, quindi la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, del danno alla vita di relazione e del danno morale. La richiesta è stata respinta sia dal Tribunale - che ha ritenuto non fosse emersa la prova del comportamento persecutorio - sia dalla Corte di Appello che ha confermato la sentenza di primo grado. Avverso tali decisioni la lavoratrice ha presentato ricorso in Cassazione lamentando una omessa valutazione degli episodi posti a fondamento della domanda e la falsa applicazione dell’articolo 2087 del codice civile. In particolare, la ricorrente ha posto il quesito di diritto teso a conoscere se possa riconoscersi la violazione della personalità morale del lavoratore in conseguenza di uno o più atti lesivi della dignità e del decoro professionale del lavoratore stesso, anche in mancanza di un disegno persecutorio finalizzato ad espellere il dipendente.

 

 

 

La decisione della Suprema corte

 

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12048/2011 in esame, ritiene il ricorso infondato. Ribadisce la Corte che per mobbing si intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità”.

 

Già con la sentenza n. 3785/2009 la Cassazione ha sancito che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono da ritenere rilevanti i seguenti elementi:

 

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

 

b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

 

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;

 

d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

 

 

 

Non c'è una responsabilità oggettiva del datore

 

Con la stessa sentenza, la Suprema Corte ha altresì affermato che l’articolo 2087 del codice civile non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato.

 

 

 

Con riferimento ai fatti in causa, pertanto, ritiene la Corte di cassazione che la Corte territoriale abbia correttamente considerato l’insieme dei comportamenti datoriali, dedotti dalla ricorrente come lesivi, escludendone ogni intento persecutorio. La valutazione di fatto di tali comportamenti è devoluta al giudice di merito, in quanto tale non censurabile quando sia adeguatamente motivata e non appaia, nelle sue risultante contradditoria. Il giudice di legittimità non può riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, bensì egli deve controllare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Nel caso specifico, detto giudice, valutate tutte le circostanza rappresentate in giudizio ha ritenuto potersi escludere che fosse stata raggiunta la prova di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della lavoratrice, tale da raffigurare la fattispecie del mobbing.

 

 

 

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