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Sostanze stupefacenti e la detenzione punibile (Cass. pen. n. 912/2012)-commento e testo- Zaina Carlo Alberto

 

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Ritengo che la sentenza in commento si ponga (e possa essere, quindi, considerata) come un caso di vera e propria estrema evoluzione interpretativa – una sorta di provocazione ermeneutica, (probabilmente involontaria ed incidentale) – del concetto di detenzione punibile di sostanza stupefacenti.

La pronunzia, infatti, criticando e censurando le carenze motivazionali dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame, afferma la indefettibile necessità che l’esame della condotta detentiva avvenga, avendo riguardo a tutte quei canoni valutativi che il legislatore ha introdotto con la novella  del 2006, nessuno escluso.

Ma il significato della decisione non si ferma qui, perchè vi è, però, molto di più!

La Suprema Corte si sofferma, infatti, specificatamente su alcuni altri controversi profili, che hanno fatto versare, a tutt’oggi, fiumi di inchiostro a giurisprudenza e dottrina, senza, peraltro, addivenire a soluzioni univoche.

La sentenza cioè:

1)      esclude che, a seguito della L. 49/2006 sia stata introdotta un’inversione onere della prova in ordine alla destinazione allo spaccio dello stupefacente;

2)      afferma  che il dato ponderale deve essere assoggettato ad un generale criterio di equiparazione sostanziale, rispetto a qualsiasi altro fra gli indicatori contenuti nel comma 1 bis dell’art. 73 dpr 309/90;

3)      riconnette particolare importanza alla indagine valutativa concernente sia la tipologia di confezionamento (unico involucro), sia l’assenza – o la presenza - di strumenti per il taglio dello stupefacente e per la pesatura dello stesso, elementi sintomatici di un successiva diluizione e moltiplicazione del quantitativo originario;

4)      ritiene non eludibile la valutazione della condizione di tossicomania del detentore, delle sue effettive condizioni economiche, onde comprendere se le stesse siano compatibili con l’acquisto di un certo quantitativo di stupefacente, nonchè della presunta convenienza del rapporto quantità-prezzo, che legittima la cd. “scorta”.

1)

Non è un principio inedito che debba essere il PM a provare la destinazione allo spaccio dello stupefacente e non l’inverso.

E’ questo, assioma sacrosanto ed irrinunciabile, allo stato, però, troppo discontinuo nella sua applicazione, pur nella convinzione che, negli ultimi anni, si sia stratificato l’auspicabile orientamento di assoluta ortodossia al principio dell’onere della prova.

Significativa in proposito, è, infatti, la pronunzia della Sez. VI, 12-02-2009, n. 12146 [(rv. 242923), Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento c. D.G., in  CED Cassazione, 2009, Riv. Polizia, 2009, 10-11, 709] che ha statuito che “In materia di stupefacenti, il mero dato quantitativo del

superamento dei limiti tabellari previsti dall'art. 73, comma primo-bis, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, non vale ad invertire l'onere della prova a carico dell'imputato, ovvero ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale, dovendo il giudice globalmente valutare, sulla base degli ulteriori parametri indicati nella predetta disposizione normativa, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell'azione siano tali da escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione.” [conf. ex plurimis Cass. Sez. IV Sent., 17-12-2007, n. 16373 (rv. 239962), in www.leggiditalia.it].

Una seria e concreta realizzazione di tale principio, presuppone, dunque, di addivenire ad un’armonizzazione di fondo della legge sugli stupefacenti, la quale, invece,  per converso, opera, sulla base di una presunzione juris tantum di destinazione allo spaccio dello stupefacente detenuto.

Vale a dire che – ancor prima della disamina dei canoni di ausilio ermeneutico, introdotti con la L. 49/2006 – la valutazione da cui l’esegeta muove è, purtroppo, quella del sospetto di un destinazione allo spaccio della sostanza detenuta.

Si tratta, dunque, di uno schema di ordine mentale, che si pone in  irreversibile contraddizione con la regola generale dell’onere della prova, e, dunque, una situazione che crea indubbi imbarazzi interpretativi e che le successive modifiche del T.U. sugli stupefacenti, in epoca posteriore alla L. 685/1975 non hanno saputo (o voluto) risolvere.

D’altronde, una modifica che avesse introdotto una presunzione di segno opposto a quella attualmente vigente, non avrebbe potuto suscitare, sul piano giuridico, nessuno  scandalo, proprio perché conforme al postulato su cui si fonda il nostro ordinamento costituzionale, la presunzione di non colpevolezza.

Allo stato attuale, invece, viviamo un paradosso processuale, che la giurisprudenza tenta di risolvere contingentemente dando – come giusto – preferendo al criterio generale dell’onere della prova.

2)

Il parametro dato dal peso dello stupefacente – dopo numerose oscillazioni giurisprudenziali, ora nel senso di conferire importanza decisiva, ora in senso opposto – pare avere definitivamente perso quel carattere di assoluta decisività prognostica, che lo rendeva un unicum differente e, comunque, prevalente su tutti gli altri canoni (1).

Il Supremo Collegio, Sez. VI, con la sentenza  18-09-2008, n. 39017 [(rv. 241405), Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Bologna c. C.G. in CED Cassazione, 2008] ha, infatti, ribadito l’esistenza, in capo “..al giudice un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che dagli altri parametri normativi (modalità di presentazione, peso lordo complessivo, confezionamento frazionato, altre circostanze dell'azione) si debba escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente personale, pur in presenza del superamento dei suddetti limiti massimi”, con ciò conferendo una valenza paritaria anche agli altri canoni legislativi, che, inizialmente parevano confinati in un ruolo subordinato.

Rimane, comunque, a monte di ogni interpretazione che si intenda  proporre, un problema metodologico di assoluta e decisiva importanza, vale a dire che l’attuale interpretazione data dalla giurisprudenza, la quale supera il dettato della norma (che avrebbe circoscritto la detenzione alla dose media giornaliera, secondo i criteri tabellari), costituisce una supplenza contingente, nell’insipienza del legislatore.

La assoluta precarietà di tale intervento interpretativo, viene confermata dalla considerazione che esso potrebbe essere destinato ad essere agevolmente superato, anche

in modo repentino ed improvviso, ovviamente in caso di mutazione soggettiva dell’orientamento indicato, circostanza tutt’altro che inusuale o remota, non essendo – nella fattispecie – in presenza di un dato normativo.

La stessa pronunzia che si esamina in questa sede, come detto all’inizio, non sfugge ad influenze di carattere soggettivo.

Essa appare, quindi, molto particolare ed estrema, in quanto ipotizza – in linea teorica e giurisprudenzialmente inedita (non si ricordano, infatti, prese di posizione analoghe) - che anche un quantitativo tutt’altro che modico e, comunque, affatto limitato come quello di 500 grammi di sostanze stupefacente, possa rientrare nel concetto di detenzione personale, ove anche gli altri fattori interpretativi, che il T.U. stup. prevede, non risultino ostativi a tale prognosi.

Di fronte ad un’applicazione così plastica ed oggettiva del principio di ininfluenza  del connotato ponderale, se inteso in re ipsa, parametro che (bene o male) anche seppure circoscritto, aveva funto da bussola, in presenza di quantitativi del tipo di quello oggetto dell’imputazione (ed anche in casi minori, comunque, sempre superiori ai 50 grammi lordi), non si può rimanere inerti ed accettare tout court una simile soluzione del problema.

E’ necessaria, infatti, una soluzione legislativa, che eviti che l’applicazione di un principio teoricamente giusto e corretto, possa degenerare, però, come pare potrebbe accadere nella fattispecie, in soluzioni di potenziale impunità, che non sembrano accettabili,  perché ontologicamente incompatibili con la detenzione ad uso personale.

L’esperienza forense (2) ci ha insegnato che è plausibile anche la costituzione di una piccola scorta (“quantità non esigue”), ma, francamente, pare di difficile comprensione  l’assimilazione di quantitativo quale in questione alla categoria dell’uso personale.

La soluzione da adottare, per porre termine, quantomeno, a denunziato stato di incertezza deve essere di natura legislativa.

Due sono ad avviso di chi scrive le  soluzioni possibili.

O si depenalizza qualsiasi condotta detentiva, qualunque sia il peso dello stupefacente detenuto – intraprendendo una pericolosissima deriva, che favorirebbe la

proliferazione di sacche di illegalità –, oppure, più preferibilmente, si cerca di stabilire in maniera meno empirica un limite aritmetico-ponderale per la detenzione.

Chiunque può comprendere che la seconda auspicata soluzione costituisce una coperta corta, ma pur sempre un contributo maggiormente praticabile alla soluzione dela questione.

Non credo, infatti, vi siano altre opzioni serie.

Con la scelta di fissare limiti quantitativi, infatti, non vi sono rischi di proliferazione ed aumento della circolazione e diffusione degli stupefacenti, perché è dato reale e di esperienza che il crimine organizzato continuerà il proprio business, importando ed esportando, detenendo, producendo o cedendo quantitativi di droga certamente superiori a quelli che potrebbero formare oggetto della previsione.

E’ bene precisare che la soluzione sin qui esposta, non sta affatto a proporre od a significare, quindi, l’introduzione di una presunzione di non punibilità juris et de jure, in favore di chi detenesse un certo quantitativo di droga, normativamente predeterminato.

In realtà, il parametro la cui introduzione si auspica, servirebbe a circoscrivere e rendere tassative le fattispecie nelle quali, il giudice, in presenza di ulteriori canoni valutativi favorevoli all’indagato/imputato, potrebbe operare fattivamente la delibazione in ordine alla configurabilità dell’uso personale.

3)

Il depotenziamento del valore assoluto – sul piano probatorio - riconnesso al profilo ponderale, permette – in pari tempo – di conferire rilevo ed importanza alla indagine valutativa che venga a riguardare sia il tipo di confezionamento (specialmente in ipotesi di un unico involucro), sia l’assenza – o la presenza – di quegli strumenti per il taglio dello stupefacente e per la pesatura dello stesso, cioè di elementi che risultano sintomatici di un successiva diluizione e moltiplicazione del quantitativo originario di droga.

Si tratta di paradigmi, oggetto di particolare valorizzazione da parte della novella del 2006 e, certamente hanno prodotto effetti di carattere positivo, permettendo l’introduzione, all’interno della dinamica processuale, di ulteriori criteri decisori, che permettono di pervenire ad un giudizio finale di maggiore completezza in punto al carattere ed alla rilevanza penale della condotta di detenzione.

La sentenza in esame, quindi, non deroga affatto a tale condivisibile indirizzo, anzi, essa conferisce agli stessi (e nello specifico alla loro presenza od assenza ed alla metodologia del confezionamento) valore fortemente sintomatico, che condiziona le conclusioni da formulare (3).

4)

Ultimo aspetto, potenzialmente esimente, su cui appare opportuno soffermarsi brevemente, è quello concernente i parametri economici, vale a dire quell’insieme di indicatori, che possono indurre il giudice ad affermare che la detenzione dello stupefacente è destinata ad uso personale, in quanto l’agente – che sia abituale assuntore - possiede una capacità economico-finanziaria congrua in relazione al quantitativo rinvenuto nella sua disponibilità.

Si deve osservare che questo indirizzo, maturato nel tempo ha sempre più condizionato le valutazioni dei giudici – v. ad esempio Trib. Napoli, 6 aprile 2009, che assume tra i criteri per la valutazione prognostica della destinazione della sostanza anche “…le condizioni di reddito del detentore e del suo nucleo familiare…” -, divenendo, così, a pieno titolo canone ermeneutico tutt’altro che secondario.

Appare, però, necessario che il ricorso all’uso di tale parametro tenga in debito conto alcuni elementi fattuali, che la quotidiana esperienza presenta.

I parametri puramente economici possono assumere una valenza meramente teorica, si da privarli di concreta significanza, e renderli vani, ove non consideri che :

a) il prezzo di cessione dell’hashish e della marjiuana in special modo (ma anche delle droghe pesanti) appare obbiettivamente non elevato, sicchè anche quantitativi non modicissimi non comportano affatto esborsi rilevanti.

Si può affermare, quindi, che acquisti di tali sostanze possono venire affrontati, attraverso la costituzione, in tempi brevi, di riserve di danaro all’uopo destinate;

b) è evidente che anche il commercio illecito della droga, segue criteri puramente mercantili e, dunque, si adegua a logiche di sconto del prezzo  praticato in proporzione al quantitativo di droga fornito, si da indurre all’acquisto di quantitativi non limitati, attraverso un meccanismo di cospicua riduzione od abbattimento l prezzo, in questo si esplicita il rapporto “quantità/prezzo”;

c) il limite dell’argomento-esimente “scorta”, riposa nella natura dello stupefacente (in particolare hashish o marjiuana), il quale, spesse volte, non essendo stato trattato chimicamente, ma costituendo diretto risultato di una coltivazione – talora puramente biologica – è portato ad un naturale degrado ed ad un’altrettanto naturale consunzione.

Sicchè si dovrebbe, a fini prognostici, anche valutare il tempo di conservazione del prodotto, vale a dire entro quanto tempo un certo quantitativo possa essere assunto od utilizzato in modo da produrre effetti stupefacenti.

Vi è, poi, da considerare che un’eventuale scelta consistente nell’ancorare in modo automatico ed acritico la non punibilità della detenzione dello stupefacente (e la sua destinazione ad un uso esclusivamente personale) alla disponibilità di danaro da parte dell’agente, o, meglio, alla sua capacità di produrre un reddito di natura lecita, determinerebbe - pertanto – una palese disparità di trattamento sotto svariati profili.

In primo luogo, come detto, così opinando – dal punto di vista oggettivo - verrebbero poste sul medesimo piano condotte tra loro ontologicamente  e radicalmente differenti e caratterizzate da un diversa carica di offensività, legato, ovviamente, al profilo ponderale.

Il comparare come omologhi quantitivi tra loro all’evidenza differenti (ad esempio alcune decine con alcune centinaia di grammi o, addirittura, con qualche chilo), sol perché il detentore – in assenza di quegli elementi che, a mente del comma 1 bis dell’art. 73 dpr 309/90) inducano ad ipotizzare una destinazione parziale o totale allo spaccio della sostanza – appare in grado di giustificare l’acquisto, appare intuitivamente opzione di difficile, se non impossibile, configurazione giuridica.

In secondo luogo, a cascata, deriva anche la considerazione che la punibilità o la non punibilità del singolo detentore-assuntore subirebbe il condizionamento del censo dell’indagato/imputato.

Dunque, una vera e propria discriminazione fra persone oggettivamente ed originariamente nella medesima condizione di tossicomania (con sospetti di contrasto con l’art. 3 Costituzione), posto che in una simile impostazione, verrebbe valorizzato un dato che non necessariamente – in presenza di quantitativi tutt’altro che esigui – dimostra la finalizzazione a scopi personali della detenzione e che verrebbe premiato in ammissibilmente lo status economico e/o sociale.

La condizione di possesso di risorse economiche, idonee a giustificare la disponibilità anche di quantitativi rilevanti, comunque eccedenti i criteri di modicità, di per sé sola, non potrebbe (e non dovrà) mai, quindi, apparire risolutiva.

Soprattutto potrebbe divenire un pericoloso – quanto apparente – presupposto, atto a falsare la realtà, creando, così, in capo a taluni soggetti, situazioni di impunità.

 

Si pensi solo alla elementare circostanza che sodalizi criminosi potrebbero fare sempre più uso, quali detentori, di persone che, pur assuntori, siano incensurate e si trovino in condizione di abbienza, onde eludere “legalmente” il divieto ex lege di accumulo di quantitativi non limitati (e, comunque, logicamente e giuridicamente incompatibili anche con il concetto di scorta).

** ** **

La pronunzia della Suprema Corte, quindi, pone molti interrogativi, ma soprattutto ripropone la necessità di mettere mano in modo serio ed articolato ad un progetto complessivo di revisione della normativa vigente in materia di stupefacenti.

 Avv. Carlo Alberto Zaina

_________

(1)  Ciò non di meno, permangono talora ancora indirizzi seguaci  della valorizzazione del profilo ponderale, vedi ad esempio Uff. indagini preliminari Napoli Sez. VII, 13-12-2010, n. 2771 In tema di detenzione e spaccio di stupefacenti, qualora il dato ponderale della droga superi il limite rappresentato da una soglia ragionevole di valore economico ed il dato quantitativo della sostanza stupefacente assuma valore preponderante per il giudizio, diviene irrilevante la valutazione di ogni altro elemento.

(2)  Cass. Sez. VI Sent., 01-10-2008, n. 40575 (rv. 241522) , Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento c. M.F.

(3)  Sul punto esplicativa appare la sentenza Trib. Bari Sez. II, 26 luglio 2011, in www.leggiditalia.it  “Incorre nell'imputazione per il reato di detenzione di sostanza stupefacente, ai fini di spaccio, il prevenuto che detenga sostanze psicotrope di tipo hashish che per modalità di confezionamento e rinvenimento appare destinata allo spaccio. Nel caso di specie, rivelano la finalità di spaccio il rinvenimento, nell'abitazione del prevenuto degli strumenti atti alla preparazione della sostanza oltre a due piantine di marijuana coltivate, già estirpate ed in fase di essiccamento, un tritaerba, un bilancino di precisione, un taglierino, delle banconote di piccolo taglio nascoste in una confezione ed una lista di nominativi con delle cifre indicanti i pagamenti. Tutti questi elementi, complessivamente valutati, escludono che possa parlarsi di uso personale della sostanza rinvenuta, in quanto sintomatici di un'attività organizzata a procurarsi numerose confezioni di stupefacenti destinati alla vendita.

Censurato l’avvocato scorretto che induce in errore il legale di controparte per transigere la controversia (Cass. n. 529/2012)

Svolgimento del processo

1. - Con decisione depositata il 1 aprile 2009, il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Vicenza irrogò la sanzione della censura all'avv. G.M. per essere venuta meno al dovere di correttezza, lealtà e colleganza, inducendo nell'avvocato D.N.M., rappresentante della controparte in una controversia successoria, l'erroneo convincimento che i tre libretti al portatore recanti somme che rappresentavano il credito litigioso ed erano vincolati all'esito della causa o della transazione fossero nella sua disponibilità, senza mai smentire la circostanza e giustificando di volta in volta la mancata restituzione con i più svariati argomenti, ed in tal modo impedendo all'avv. D.N. di attivarsi per il recupero della somma. L'avv. G. impugnò la decisione sulla base di tre motivi.

2. - Il Consiglio Nazionale Forense, con decisione depositata il 21 aprile 2011, ha rigettato il gravame, osservando che dalla documentazione acquisita, e, in particolare, dalle cinque missive inviate dall'avv. G. al collega D.N., emergeva la esattezza della valutazione del CO.A.: da esse, infatti, risultavano le diverse giustificazioni via via addotte per la mancata restituzione dei libretti, in nessun caso attinenti alla vera ragione, e cioè la mancata disponibilità degli stessi, mentre per la prima volta solo nella memoria difensiva presentata al CO.A., che le aveva contestato la mancata messa a disposizione del collega dei libretti, cinque mesi dopo l'inizio della citata corrispondenza, era stata affermata tale circostanza. Il comportamento dell'avv. G., determinato dalla volontà di indurre il collega in errore al fine di guadagnare tempo per studiare la propria strategia processuale e ritardare la realizzazione de diritto della controparte, non era giustificabile alla luce dello scopo della difesa degli interessi del cliente.

3. - Per la cassazione di tale decisione ricorre l'avv. G. sulla base di quattro motivi.

Motivi della decisione

1. - Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell'art. 56, in relazione al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 38, nonchè dell'art. 22 del codice deontologico forense, del principio di ragionevolezza nell'ipotesi di illecito disciplinare ascritto all'incolpato, violazione degli artt. 622, 380 e 381 c.p., art. 88 c.p.c., e artt. 7, 8, 9, 12, 36 e 40 del citato codice deontologico, e sviamento di potere R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 56 e art. 3 Cost.. Sarebbe affetta da irragionevolezza la sussunzione dello specifico comportamento contestato alla ricorrente nel precetto generale di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38, che fa divieto di commettere fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale. Si osserva al riguardo che rientra tra i doveri del difensore quello di non compiere atti che possono recare danno al proprio assistito: il diritto di difesa prevale sul rapporto di colleganza. Nè è rinvenibile nella disciplina del processo civile un obbligo per la parte e per il suo difensore di essere completo nelle allegazioni nè di avvantaggiare la controparte, salva la ricorrenza del dolo revocatorio: e ciò che è processualmente lecito non può essere deontologicamente scorretto.

2.1. - La censura non merita accoglimento.

2.2. - Posto che le previsioni del codice deontologico forense hanno la natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e possono ispirarsi legittimamente a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività, il Consiglio Nazionale Forense non è vincolato alla definizione dell'illecito quale scaturisce dal testo delle disposizioni del codice deontologico forense, essendo libero di individuare l'esatta configurazione della violazione tanto in clausole generali richiamanti il dovere di astensione da contegni lesivi del decoro e della dignità professionale, quanto in diverse norme deontologiche, o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme (v., sul punto, Cass., S.U., sentt. 13/6/2011, n. 12903; 7/7/2009, n. 15852).

2.3. - Nella specie, il C.N.F. ha motivatamente ritenuto che, nella specie, l'avv. G. abbia manifestato la volontà di indurre il collega in errore con l'omissione voluta di una circostanza decisiva, quale la detenzione dei libretti in capo ad altri, e che ciò abbia costituisca comportamento strumentale per ritardare la realizzazione del diritto altrui facendo divenire il collega di controparte strumento inconsapevole della realizzazione del suo disegno dilatorio, ed ha ritenuto che tale comportamento, per la sua ambiguità, costituisca violazione di quei doveri di correttezza, lealtà e colleganza che sono ricompresi nel più ampio precetto di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38, comma 1, e specificamente disciplinati dagli artt. 6 e 22 del codice deontologico.

3. - Con il secondo motivo si deduce la omessa e insufficiente motivazione su fatto controverso decisivo. La decisione del C.N.F. prescinde totalmente da fatti decisivi prospettati dall'attuale ricorrente, e, in particolare, dal fatto che la sentenza in relazione alla quale l'avv. D.N. pretendeva i libretti per l'incasso atteneva a domanda preliminare di riduzione per lesione di legittima e alla domanda di divisione di asse ereditario costituito da somma di danaro depositata in banca e rappresentata da tre libretti cointestati ai due eredi e vincolati all'esito del giudizio o transazione. Detta decisione era una sentenza parziale relativa alla prima fase dell'accertamento preliminare del contenuto del diritto del legittimario leso, cliente della ricorrente, e fino al momento della formazione del giudicato su di essa non si sarebbe potuto procedere alla fase della formazione delle quote nè a quella successiva dell'attribuzione delle stesse. Tali temi, che non sorreggevano, secondo la ricorrente, l'asserita doverosità di comunicare il luogo di conservazione dei libretti per consentire alla controparte di procedere esecutivamente, erano stati inutilmente rappresentati al CO.A. e, successivamente, al C.N.F., che, però, non li ha considerati. Mancherebbero, comunque, nella decisione impugnata i requisiti strutturali dell'argomentazione.

4.1. - Anche tale censura è infondata.

4.2. - Risulta, invero, inconferente il richiamo alla natura del giudizio divisorio ed alla fase in cui si colloca in esso la sentenza in relazione alla quale l'avv. D.N. chiedeva i libretti per l'incasso, atteso che la contestazione mossa alla attuale ricorrente era quella di un comportamento integrante un non lineare percorso difensivo, essendo le giustificazioni addotte a motivazione della indisponibilità ad un incontro finalizzate alla realizzazione del complessivo disegno volto a far permanere una situazione di ambiguità che inducesse il legale di controparte a confidare nella possibilità di raggiungere una definizione stragiudiziale della controversia.

5. - Con la terza doglianza si deduce error in procedendo, violazione dell'art. 112 c.p.c., violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nullità della sentenza. La decisione impugnata omette - si osserva nel ricorso - di pronunciarsi sulla terza censura, relativa alla errata determinazione dell'entità dell'offesa all'etica forense ed alla inadeguatezza della sanzione irrogata. Il C.N.F. avrebbe errato nei non delibare la proporzionalità della sanzione con riferimenti al caso concreto.

6. - Il motivo è infondato, sol che si consideri che la decisione del C.N.F. si sofferma specificamente sul punto della adeguatezza della sanzione irrogata, considerando equa quella della censura, avuto riguardo alla condotta ambigua e contraddittoria dell'incolpata, tra l'altro protratta nel tempo e dettata da un preciso disegno dilatorio.

7. - Con il quarto motivo, si lamenta la violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56 in relazione all'art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè la violazione dell'art. 111 Cost., per la motivazione carente/inesistente con conseguente nullità della pronuncia per difetto di requisito di forma indispensabile. Si denuncia la carenza della esposizione dei motivi di fatto e di diritto della decisione, la quale sarebbe passata dalla enunciazione dei fatti di prova, costituiti dalle lettere della attuale ricorrente, al giudizio di responsabilità disciplinare senza esplicitare quali sarebbero le frasi che violano i doveri di colleganza ed il decoro professionale, quali le circostanze da cui inferire l'elemento soggettivo dell'illecito, quale il fine sotteso.

8.1. - La doglianza è destituita di fondamento.

8.2. - La decisione impugnata contiene una articolata e dettagliata descrizione dei fatti posti a suo fondamento, ed una puntigliosa ed analitica ricostruzione del percorso logico che ha indotto il C.N.F. a ravvisare nei fatti esposti la violazione contestata, alla luce del comportamento tenuto dalla incolpata e delle ragioni e finalità che lo avevano orientato.

9. - Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Non v'è luogo a provvedimenti sulle spese, non essendo stata svolta attività difensiva dagli intimati.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

 

 

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