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SEMPLIFICAZIONE DEI RITI. L’ATTORE SCEGLIE IL RITO CAMERALE ANZICHÈ IL SOMMARIO DI COGNIZIONE: MUTAMENTO POSSIBILE-Tribunale di Varese, Sez. I, ord. 9 – 10 novembre 2011, n. 10658-di Elena Ioghà

 

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(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 12/2011)

 

 

QUAESTIO IURIS

 

Il provvedimento che si annota presenta notevole interesse in quanto investe un’attuale questione relativa al mutamento del rito quando una controversia è erroneamente promossa in forme diverse da quelle previste dall’ormai noto decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150.

 

Il caso traeva origine dalla proposizione di un ricorso con il quale il ricorrente impugnava il provvedimento emesso dall’Ambasciata d’Italia di Abidjan di diniego del rilascio del visto per il ricongiungimento familiare in favore della minore affidata al ricorrente.

 

Il ricorrente introduceva la lite secondo la formula processuale del rito camerale ex artt. 737 c.p.c. e ss prescritta dell’art. 30, comma VI, dlgs n. 286/1998 nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 34 d.lgs n. 150/2011.

 

Nonostante l’entrata in vigore del decreto legislativo suindicato, il ricorso era stato presentato secondo formule processuali erronee atteso che non conteneva né le indicazioni previste dall’art. 163 c.p.c., né l’avvertimento di cui all’art. 163, comma terzo, n. 7 c.p.c. (art. 702 – bis c.p.c.).

 

Il Giudice del Tribunale di Varese disponeva d’ufficio il mutamento del rito disciplinato dall’art. 4 co. 1 d.lgs n. 150/2011, da camerale (ex art. 737 e ss c.p.c.) a sommario di cognizione ex artt. 702 – bis e ss c.p.c. , rito applicabile al diniego del nulla osta per il ricongiungimento familiare, in virtù degli artt. 20 co. VI, dlgs. n. 150/2011 e 30, comma VI, dlgs. n. 286/1998.

 

 

 

Il mutamento del rito previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011

 

Com’è noto il decreto legislativo n. 150/2011, entrato in vigore il 6 ottobre 2011, recante“Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione”, ha attuato la delega contenuta nell’articolo 54 della Legge 18 giugno 2009, n. 69, riducendo i riti civili da trentatrè a ben tre riti: il rito ordinario di cognizione di cui ai Titoli I e III del Libro II del Codice di Procedura Civile; il rito del lavoro regolato dalle norme della Sezione II del Capo I del Titolo IV del Libro II del Codice di Procedura Civile; il rito sommario di cognizione disciplinato dal Capo III bis del Titolo I del Libro IV del Codice di Procedura Civile.

 

L’art. 54 co. 1 della L. 18 giugno 2009, n. 69,  affida al Governo l’adozione “...entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, di uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale”.

 

Restano, tuttavia, fermi i criteri di competenza previsti dalla legislazione vigente, i criteri di composizione dell’organo giudicante previsti dalla legislazione vigente, le disposizioni previste dalla legislazione speciale che attribuiscono al giudice poteri officiosi e disposizioni previste dalla legislazione speciale finalizzate a produrre effetti che non possono conserguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile.

 

Il Legislatore ha previsto l’esenzione di alcuni riti speciali dal procedimento di semplificazione e razionalizzazione in quanto regolano questioni particolari e delicate .

 

La lettera d) del comma dell’art. 54, infatti, prevede espressamente che “restano in ogni caso ferme le disposizioni processuali in materia di procedure concorsuali, di famiglia e minori, nonché quelle contenute nel regio decreto 14 dicembre 1933, n. 1669 - legge cambiaria, nda -, nel regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 - legge sugli assegni, nda - nella legge 20 maggio 1970, n. 300, - statuto dei lavoratori, nda - nel codice della proprietà industriale di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 , e nel codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206”.

 

La ratio dell’intervento legislativo è da ricercarsi nella riduzione e semplificazione  dei procedimenti civili regolati dalla legislazione speciale, nella necessità di restituire centralità al codice di procedura civile  e nella possibilità di fornire agli operatori del diritto un unico testo legislativo che razionalizza e riassume le regole processuali attualmente sparse in decine di leggi diverse.

 

Occorre, ora, soffermarsi ad analizzare l’art. 4 del d.lgs n. 150/2011 che forma oggetto dalla decisione del Giudice del Tribunale di Varese.

 

L’art. 4 del decreto legislativo n. 150/2011 prevede una disciplina unitaria del mutamento del rito per tutte le controversie erroneamente introdotte con riti differenti rispetto a quelli indicati dal recente decreto legislativo.

 

L’art. 4 co. 1  del d.lgs n. 150/2011 stabilisce che quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza.

 

L’ordinanza del giudice deve essere motivata anche in forma breve o succinta e non può essere impugnata atteso che  non ha contenuto decisorio.

 

La ratio sottesa all’introduzione dell’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011 è da ricercarsi nella conservazione degli atti giudiziali nei limiti in cui siano idonei a raggiungere lo scopo a cui sono predestinati.

 

L’erronea introduzione della controversia, come del resto è stato ribadito dal provvedimento che si annota, difatti, non comporta nè l’arresto della macchina procedimentale, nè la regressione del processo, ma determina solamente il passaggio da un rito all’altro (il cd. switch procedimentale) per effetto della conversione del rito disposta anche d’ufficio con ordinanza dal Giudice (BUFFONE, La semplificazione dei riti civili: D.lgs. n.150/2011,in  Il Civilista, Milano, 2011, 26).

 

L’articolo in questione ha poi previsto una barriera temporale preclusiva per il verificarsi del mutamento del rito rappresentata dalla prima udienza di comparizione delle parti dinnanzi al Giudice.

 

Dall’art.4 della legge delegata si evince, quindi, che le parti possono proporre in via d’eccezione e il giudice anche d’ufficio il mutamento del rito non oltre la prima udienza di comparizione delle parti.

 

La disciplina del mutamento del rito prevista dall’art. 4 del decreto n. 150/2011 si differenzia da quella prevista  per il mutamento del rito disciplinato dal rito del lavoro (artt. 426 e 427 cod. proc. civ.) in quanto ammette la possibilità  anche in grado di appello di effettuare il provvedimento di mutamento del rito (art. 439 cod. proc. civ.).

 

Com’è noto, l’art. 702-ter c.p.c.  prevede, invece, la possibilità del mutamento del rito da sommario a ordinario quando il Giudice ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria.

 

In tali casi, il mutamento del rito avviene in un momento specifico del procedimento, ossia alla prima udienza di comparizione delle parti e, di conseguenza, non è ammesso in grado d’appello come implicitamente fa intendere la disposizione di cui all’art. 702 – ter c.p.c.

 

Occorre evidenziare che il mutamento del rito previsto dalla disciplina unitaria di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011 si differenzia, anche,da quello relativo per la conversione del rito sommario in ordinario disciplinato dall’art. 702 – ter c.p.c., atteso che in quest’ultimo caso la conversione è rimessa alla dicrezionalità del Giudice.

 

Lo switch procedimentale di cui all’art. 4 del decreto menzionato, mira, invece, a regolarizzare la forma processuale di una controversia erroneamente introdotta e il Giudice anche d’ufficio deve convertire il rito data la mancata alternatività dei riti stessi.

 

La relazione illustativa del decreto in esame evidenzia che la previsione del mutamento del rito di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011 andrà comunque letta compatibilmente con l’art. 40 commi 3°, 4°, e 5° c.p.c., in tema di connessione di cause assoggettate al rito ordinario ed ai riti speciali, norma la cui inderogabilità trova fondamento  nel principio del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall’art. 25 Cost.

 

L’art. 4 co. III  del decreto n. 150/2011 stabilisce il caso della conversione del rito nel forma del procedimento del lavoro quando la controversia sia stata erroneamente introdotta nelle forme ordinarie.

 

L’art. 4 co. III del decreto n. 150/2011 dispone  che: “quando la controversia rientra tra quelle per le quali il presente decreto prevede l'applicazione del rito del lavoro, il giudice fissa l'udienza di cui all'articolo 420 del codice di procedura civile e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria”.

 

Il rito del lavoro essendo un procedimento speciale che prevede delle preclusioni sia probatorie, sia assertive già in una fase introduttiva del giudizio, il Giudice con l’ordinanza di conversione del rito deve fissare l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi.

 

Il Giudice che dichiara la propria incompetenza ha, tuttavia, l’onere di indicare con il medesimo provvedimento il rito corretto da applicare per la riassunzione dinanzi al giudice competente (art. 4 co.4 d.lgs. n. 150/2011).

 

Si apprende dalla relazione illustrativa al decreto n. 150/2011 che la ratio di tale scelta legislativa è stata quella di dissipare gli eventuali dubbi interpretativi circa le forme della riassunzione del giudizio nell’ipotesi in cui venga dichiarata l’incompetenza del giudice adito.

 

Al fine di  circoscrivere al minimo l’incertezza interpretativa della disposizione e’ stato introdotto il comma 5 dell’art. 4 del decreto sopra menzionato il quale prevede che gli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale si producano secondo le norme del rito applicato prima del mutamento per escludere in modo univoco l’efficacia retroattiva del provvedimento che dispone il mutamento medesimo.

 

La relazione illustativa del d.lgs. n.150/2011 riconosce, per una ragione di tutela della parte che ha indrodotto la controversia in forme processuali erronee, che tale disciplina afferisce unicamente agli effetti della domanda e non può naturalmente incidere sulla facoltà della parte convenuta di provocare il mutamento del rito, con apposita istanza tempestivamente proposta.

 

La decisione in commento può ben essere condivisa in ragione della necessità del mutamento del rito quando è stato introdotto nelle forme procedimentali differenti rispetto a quelle previste dal decreto legislativo n. 150/2011.

 

E’ da condividersi anche l’estensione dell’art. 4 co. II del decreto al caso in cui il ricorso sia erroneamente presentato in forme processuali diverse da quelle previste dal d.lgs. n.150/2011 per una ragione di coerenza con l’intero sistema normativo.

 

Il Giudice, difatti, come ribadito dalla decisione in commento, non può limitarsi a pronuciare la conversione, ma in analogia con quanto prescrive l’art. 4, comma II d.lgs. n. 150/2011 deve provvedere a disporre l’integrazione degli atti per ripristinare l’architettura procedimentale applicabile.

 

 

 

La SOLUZIONE del Trib. Varese, sez. I, ordinanza 9- 10 novembre 2011 n. 10658

 

Il Tribunale di Varese, con l’ordinanza n. 10658/2011, ha statuito che:

 

La lettera dell’art. 4 del d.lgs n. 150/2011 si estende in generale ad ogni modello processuale vigente nell’Ordinamento.

 

L’art. 4 della legge delegata introduce una disciplina ad hoc per far fronte al caso dell’erronea introduzione di un processo affinchè essa non determini, per ciò solo, l’arresto della macchina procedimentale, in quanto l’Ordinamento tende a conservare gli atti giudiziali finchè è possibile attribuirgli effetti giuridici e nei limiti in cui siano idonei a raggiungere lo scopo loro affidato.

 

Nel caso in cui il ricorso sia erroneamente presentato in forme processuali diverse da quelle previste dal d.lgs. n.150/2011, il giudice non può limitarsi a pronunciare la conversione, ma in analogia con quanto prescrive l’art. 4, comma II d.lgs. n. 150/2011 deve provvedere a disporre l’integrazione degli atti per ripristinare l’architettura procedimentale applicabile.

 

 

 

APPROFONDIMENTO

 

Per una riflessione critica si veda in dottrina BUFFONE, La semplificazione dei riti civili: D.lgs. n.150/2011,in Il Civilista, Milano, 2011; VIOLA, La semplificazione dei riti civili, Padova, 2011; SASSANI, TISCINI, La semplificazione dei riti civili, Roma, 2011; DI PIRRO, I riti semplificati, Napoli, 2011.

 

 

 

 

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