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Sono tutti elementi che costituiscono presunzioni gravi, precise e concordanti e, quindi, legittimano la rettifica dei redditi mediante l’accertamento analitico-induttivo

cimitero

La Commissione tributaria provinciale di Ravenna, con la sentenza 243/02/11 del 4 novembre 2011, ha stabilito che il numero di bare utilizzate, per i servizi erogati da un’impresa funebre e la “contabilità in nero” scoperta dai verificatori in sede di accesso presso l’azienda costituiscono validi indizi di evasione.

I giudici tributari di merito hanno, infatti, ritenuto legittimo l’accertamento analitico-induttivo – ex articolo 39, comma 1, lettera d) del Dpr 600/1973 – basato su tali elementi che costituiscono, quindi, presunzioni “gravi, precise e concordanti” per la ricostruzione di maggiori ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria.

 

La vicenda processuale

I fatti sono ben riassunti dai giudici tributari romagnoli, i quali evidenziano che, nel caso in esame “l’attività di controllo dell’Ufficio, finalizzata al riscontro del volume di affari conseguito e del reddito dichiarato nell’anno d’imposta 2005, si è avvalso del confronto diretto con il contribuente, attraverso un contraddittorio, instaurato e condotto in occasione degli accessi e delle ispezioni operate presso la sede legale. Parallelamente, l’Ufficio ha avuto modo di analizzare accuratamente e approfondire la documentazione prodotta dalla parte, oltre a quella successivamente richiesta ed a quella reperita presso i locali aziendali, in particolare un file informatico dove erano annotati i preventivi per i servizi funerari prestati dalla ditta. Il flusso dei ricavi, rideterminato in via induttiva, ha accertato, ex art. 39, c.1, lett. d), Dpr 600/1973, ricavi non dichiarati…”.

 

In particolare, la ricostruzione dei maggiori ricavi effettuata dall’Amministrazione finanziaria si basava sia sulla “contabilità in nero” (si trattava nella specie di un file informatico, reperito dai verificatori dell’Agenzia delle Entrate nel pc del titolare dell’impresa funebre, dove erano annotati i preventivi per i servizi funerari prestati nel corso dell’anno) sia sul numero delle bare utilizzate, dal quale il Fisco determinava il numero dei funerali curati dall’impresa.

Sulla base di tali elementi, integranti presunzioni “gravi, precise e concordanti”, l’Agenzia notificava, quindi, un avviso di accertamento analitico-induttivo, contestando all’impresa funebre maggiori ricavi non fatturati per svariate decine di migliaia di euro.

 

L’atto impositivo veniva, poi, impugnato dalla parte privata davanti alla Ctp di Ravenna, sulla base di una sua asserita illegittimità e infondatezza, anche per una presunta carenza probatoria.

L’Agenzia delle Entrate, successivamente, si costituiva in giudizio con proprie controdeduzioni, nelle quali rivendicava la fondatezza della propria ricostruzione, in quanto basata su un solido e articolato impianto probatorio posto alla base dell’individuazione della maggiore materia imponibile contestata all’azienda, e insisteva per la conferma della legittimità dell’avviso di accertamento.

 

Motivi della decisione

La Commissione romagnola ha compiutamente esaminato l’evoluzione dei fatti e i vari passaggi in cui si articolava la ricostruzione dei maggiori ricavi, nonché gli elementi probatori posti alla base della maggiore pretesa impositiva manifestata dall’ufficio finanziario.

Tutto ciò ha consentito al collegio giudicante di merito di cogliere, con precisione e puntualità, il meccanismo di evasione posto in essere dall’impresa funebre verificata, con la tenuta anche di una contabilità parallela rispetto a quella ufficiale.

 

Sviluppando il proprio ragionamento logico-giuridico, i giudici hanno affermato che “L’Ufficio, in base agli elementi raccolti, ha ritenuto configurabili presunzioni gravi, precise e concordanti, tali da far considerare sufficientemente fondata la sottofatturazione dei servizi prestati e quindi l’omessa contabilizzazione di componenti reddituali positivi, procedendo pertanto alla ricostruzione indiretta dei ricavi, ex art. 39. 1° comma, lett. d), del Dpr 600/73”.

 

Il collegio di merito ha, quindi, concluso ritenendo che “l’oggettività dei dati prospettati, legittima la pretesa impositiva dell’Amministrazione Finanziaria, considerando altresì che, in questa ottica, del tutto condivisibile, l’Ufficio ha seguito un procedimento logico che, partendo dalla ricomposizione del servizio minimo e dalla determinazione del relativo prezzo, ha ricostruito il fatturato sulla base delle prestazioni complessivamente erogate nell’anno di imposta, il che rende inconsistenti i rilievi del ricorrente”.

 

La Ctp di Ravenna ha dunque respinto il ricorso dell’impresa e confermato l’operato dell’Amministrazione finanziaria.

 

La giurisprudenza di legittimità sulla contabilità in nero

Occorre osservare che il tribunale tributario provinciale di Ravenna, riconoscendo piena efficacia probatoria al file dei preventivi, trovato dai verificatori nel pc del titolare della ditta, non ha fatto altro che applicare i principi di diritto affermati da una consolidata giurisprudenza di legittimità relativa all’efficacia probatoria, nel processo tributario, della “contabilità in nero”.

 

La Cassazione, infatti, già con la sentenza 2217/2006 si sono espressi affermando che “La documentazione extracontabile legittimamente reperita presso il contribuente, quand’anche risolventesi in annotazioni personali dell’imprenditore, costituisce elemento probatorio, ancorché meramente presuntivo, utilmente valutabile in   sede   di accertamento…, indipendentemente dal contestuale riscontro di irregolarità nella tenuta della contabilità e di inadempimenti di obblighi di legge”.Successivamente, gli stessi giudici di ultima istanza hanno contribuito a cristallizzare un costante orientamento giurisprudenziale, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, secondo il quale “…la cosiddetta contabilità in nero, costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e seguenti del codice civile tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta, ed incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria” (cfr Cassazione, 13061/2011, 10590/2011, 5947/2009, 25101/2008, 17817/2007, 14218/2007, 25610/2006 e 11459/2001).

 

La giurisprudenza di legittimità sulle ricostruzioni fondate sui consumi

Giova, infine, evidenziare che la pronuncia in commento si inserisce anche in un altro indirizzo giurisprudenziale di legittimità che ha visto più volte confermate le ricostruzioni indirette dei maggiori ricavi operate dall’Amministrazione finanziaria basate su tovagliometro, bottigliometro e recentemente anche sul farinometro.

La Cassazione ha, infatti, stabilito che l’accertamento induttivo, per quanto riguarda i ristoranti, può fondarsi sia sul numero di tovaglioli portati in lavanderia – che sono indice dei coperti e, quindi, degli incassi (sentenze 18475/2009, 8643/2007 e 9884/2002) – sia sul consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un elemento fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni erogate (sentenza 17408/2010).

Nel luglio del 2011, con la sentenza 15580, i giudici di legittimità hanno ritenuto legittimo un avviso di accertamento induttivo, emesso nei confronti di un ristoratore, basato sul consumo di farina dando, quindi, via libera al farinometro.

 

Tutto ciò dimostra il costante apprezzamento della Corte suprema per la capillare attività di controllo effettuata dall’Agenzia delle Entrate, attraverso metodi induttivi di ricostruzione di maggiori ricavi. Le conferme più rilevanti si trovano nelle sentenze 22122/2010, 3542/2010, 21147/2009, 10077/2009, 13915/2009, 15754/2009, 13952/2008, 9884/2002, 6465/2002, 51/1999).

Maurizio Dalla Vecchia

 

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