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LICENZIAMENTO, PRECARIETÀ, MERCATO DEL LAVORO di Roberto Romei

 

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riforma mercato lavoroHa davvero ragione chi si oppone ad una riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, o le priorità sono altre, come la lotta al precariato?

Prima di rispondere sulla base di pregiudizi ideologici nell’uno e nell’altro senso, come troppo spesso accade, potrebbero risultare utili alcune considerazioni tratte dall’ esperienza empirica, senza alcuna pretesa di completezza, in assenza di dati statistici sul numero dei procedimenti per licenziamento, sulla loro durata, sugli esiti ecc.

 

E, per inciso, stupisce che forze politiche chiamate a ragionare sul mantenimento o non della disciplina dell’art. 18 non abbiano sentito la necessità di dotarsi di strumenti di analisi un minimo sofisticati, continuando a privilegiare approcci astratti, con il risultato di ridurre il dibattito  ad una contrapposizione tra favorevoli e contrari, lasciando che esso scorra sulla superficie di una realtà invece molto complessa.

I termini licenziamento e precarietà nascondono infatti realtà complesse e spesso banalizzate.

I licenziamenti non sono tutti uguali: differiscono per le ragioni - soggettive (licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) o economiche -; per il numero di lavoratori coinvolti (licenziamento individuale o collettivo, quest’ultimo soggetto ad una disciplina propria);  perché diverso può essere il datore di lavoro: solo se il datore di lavoro supera la soglia dei 15 dipendenti trova applicazione la sanzione della reintegrazione prevista dall’art. 18; negli altri casi il licenziamento è nella sostanza libero con il solo temperamento della corresponsione di una somma di denaro.

Vi sono però anche differenze meno immediate.

I licenziamenti possono essere diversi per la durata del procedimento. In alcuni Tribunali (pochi) nel giro di due anni o poco più è esaurita anche la fase dell’appello; in altri a mala pena si arriva al termine del primo grado di giudizio. E la durata non è un costo irrilevante, per l’impresa (specie  se di non grandi dimensioni) che può trovarsi a dover affrontare ingenti oneri economici per un licenziamento riconosciuto illegittimo dopo diversi anni, dovendo corrispondere le retribuzioni nel frattempo maturate; e per il lavoratore, costretto ad una situazione di incertezza per un lungo arco di tempo.

Oppure per il luogo in cui sono stati disposti. In un’ interessante ricerca di oltre dieci anni fa condotta da A. Ichino e M. Polo si dimostra come le decisioni del Giudici in ordine alla giustificatezza del licenziamento disciplinare siano influenzate dalle condizioni del mercato del lavoro locale: la stessa mancanza è valutata con occhio più rigoroso se le condizioni del mercato sono buone; e con occhio più benevolo in condizioni di difficoltà. Ed è sufficiente avere un po’ di pratica con le riviste di giurisprudenza per rendersi conto di come i margini di opinabilità nella valutazione delle cause di licenziamento siano molto alti, con valutazioni marcatamente soggettive e fortemente variabili da Giudice a Giudice.

Ancora: le imprese di grandi e grandissime dimensioni non ricorrono mai al licenziamento individuale per ragioni economiche (il singolo lavoratore può sempre essere ricollocato in un’organizzazione di ampie dimensioni); vi ricorrono invece le altre imprese, ma alcune sono al di sotto della soglia dei quindici dipendenti, altre invece no, e sono appunto queste ad essere investite dall’applicazione dell’art. 18 in caso di licenziamenti individuali per ragioni economiche.

Le  grandi imprese, in caso di licenziamenti per ragioni economiche, sono interessate dalla disciplina sui licenziamenti collettivi, che è però difficilissimo rispettare tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza e della farraginosità della disciplina. Mentre le imprese grandissime spesso riescono a ribaltare i costi delle riduzioni di personale in tutto o in parte sulla finanza pubblica utilizzando la mobilità incentivata o, in passato, i prepensionamenti.

Adottando strumenti di analisi più sofisticati, il quadro potrebbe essere ancora più complesso, ma tanto basta.

Anche il termine precarietà racchiude molti equivoci.

Non tutti i rapporti atipici costano di meno di quello standard: è così per il lavoro a progetto, ma non per tutti gli altri (per il vincolo di parità di trattamento imposto per legge) e la somministrazione (e cioè il lavoro interinale) costa addirittura di più. Ai costi diretti si aggiungono quelli indiretti: l’esasperato soggettivismo giudiziale nella valutazione delle ipotesi di ricorso al lavoro atipico (incrementato da una legislazione che negli anni non ha certo aiutato a fare chiarezza) ne rendono l’utilizzo incerto, e dunque costoso a causa del contenzioso che ad esso spesso si accompagna. 

Così come non è vero che il fenomeno della precarietà sia indotto dalla moltiplicazione dei tipi contrattuali: magari fosse così, e fosse possibile cancellare il fenomeno con un tratto di penna del legislatore. Il lavoro a chiamata non nasce nel 2003 allorché il legislatore introduce il relativo tipo contrattuale, ma esiste da sempre nei settori del turismo e della ristorazione; e solo chi ragiona come Don Ferrante può pensare che esso nasca da una scelta del legislatore e non dalle particolari caratteristiche del mercato del lavoro in questi settori. E poi occorre sfatare l’equazione lavoro non standard uguale lavoro precario. Chi sostituisca un lavoratore assente è un lavoratore che ha un impiego temporaneo e non un precario, tale diventa solo se le occasioni di lavoro che gli si presentano sono tutte discontinue. Scatta allora la trappola della precarietà, che spesso è in realtà la trappola della segmentazione del mercato del lavoro: il lavoratore a progetto del call center spesso finisce per avere un orizzonte di occupabilità limitato alle sole imprese che svolgono questa attività e ciò riduce le sua possibilità di reperire altre occasioni di lavoro.   

Ora, le imprese ricorrono ai lavori atipici a volte per fare fronte a contingenze organizzative o di mercato  (ed è la fisiologia); altre volte come succedaneo di rapporti a tempo indeterminato (ed è la patologia), o per i vincoli alle assunzioni o per le incertezze che si ricollegano proprio alla disciplina sui licenziamenti.

Nel primo caso il ricorso al lavoro non standard dovrebbe essere reso il più possibile semplice, attraverso una normativa agile e chiara che riduca i margini di incertezza, ma che non penalizzi l’ offerta di occasioni di lavoro che se pur temporanee sono comunque fonti di reddito e che corrispondono ad esigenze oggettive della produzione. Chi propone ambiziosi e risolutivi piani di stabilizzazione dei precari non tiene conto che molto spesso le esigenze alla base dei rapporti atipici sono transitorie e rendono impossibile la loro trasformazione in rapporti a tempo indeterminato.

Nel secondo, la limitazione del ricorso a forme di lavoro non standard come ricetta per ridurre la precarietà, è vecchia ed inutile. Qui c’è un punto di collegamento con l’art. 18. Anche quest’ultimo infatti offre una protezione di stampo tradizionale: se il licenziamento è illegittimo il rapporto è ripristinato; ma se è invece valido, il lavoratore è lasciato solo sul mercato del lavoro, coerentemente con un’ impostazione tradizionale, attenta alle tutele nel rapporto di lavoro, ma disinteressata alla ricollocazione del lavoratore.

Il problema, tanto nel caso del licenziamento che dei rapporti atipici non è nel rapporto di lavoro, ma fuori di esso, nel reperimento di strumenti che agevolino la collocazione del lavoratore una volta che il rapporto di lavoro si interrompe. Prevedere un contratto unico con licenziamento libero nel primo triennio, rischia di essere una pseudo soluzione, che non tiene conto del quadro che si è sopra  abbozzato, innesca contenzioso, non risolve il dualismo del mercato del lavoro e non incrementa le possibilità di reperimento di una nuova occupazione. È quest’ultimo il punto centrale: solo muovendo da esso si può trovare il bandolo per risolvere il problema della precarietà; avviato a soluzione questo, il problema dell’art. 18 si sdrammatizza, riducendosi a quello che in realtà è, il tassello di un mosaico molto più vasto e complesso.

 

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